giovedì 27 dicembre 2018

Vita, morte e amor filiale nel bel romanzo «Le cose di prima» di Eduardo Savarese


Un melodramma nelle intenzioni dell'autore. Forse un grand opéra, a giudicare dal numero dei personaggi, dalle eterogenee quinte sceniche e dalle aree geografiche in cui si snoda l'azione, dagli intermezzi disseminati lungo i quattro giganteschi atti in cui il "libretto" è diviso. E già immagino quegli stessi intermezzi eseguiti dall'orchestra, con l'intervento di qualche cantante solista fuori scena, mentre particelle, atomi, elettroni, finanche buchi neri, si danno sul palcoscenico alla danza scandita dal ritmo matematico della fisica quantistica. Ecco che cos'è «Le cose di prima», il romanzo di Eduardo Savarese edito da Minimum Fax (ottobre 2018).

Il giovane Simeone è affetto da distrofia muscolare: è condannato a stare su una sedia a rotelle e a dipendere da chi è costretto ad aiutarlo, prima fra tutti la madre, Elide. La donna vive con costernazione la malattia del figlio, combattuta fra l'amore e la gelosia nei suoi confronti e l'ansia di non sentirsi a quell'altezza altruistica che un compito talmente delicato richiede. Attorno a loro ruotano personaggi strani come Pierotta, incostante, umorale al pari di molti bipolari, vicina a Simeone solo nei momenti in cui stargli accanto non aggrava il proprio stato depressivo; Filippo, professore universitario di Fisica che finisce per costituire un punto di riferimento prezioso per Simeone, ma non riuscirà (non vorrà in verità) prendere il posto di suo padre; il siriano Thomas, padre di Simeone, che lascia la moglie e il figlio e torna in Siria per difendere i cristiani perseguitati dall'Isis; Lea, famosa cantante lirica che inizia a fare i conti con una voce imprevedibile e trova in Simeone la strana ragione di una porzione della propria vita.

Se agli inizi della lettura avevo pensato che la condizione di Simeone fosse l'ipostasi dei limiti che sono fisiologicamente tipici dell'essere umano, mi sono poi accorto, invece, del fatto che la sua malattia è solo una delle tante gabbie, uno dei poliedrici tormenti, ai quali può sentirsi realmente condannato l'uomo. La scelta della distrofia da parte dell'autore, paradossalmente, non sarebbe potuta risultare più felice ed emblematica, se si considera che tale malattia può portare ad una morte che rasserena, pacifica, libera, e che tutto rende realizzabile. Nel momento in cui si riesce ad amare i propri limiti fino ad avere il coraggio di guardare in faccia alla morte e di abbracciarla, le «cose di prima» non contano più e si può realizzare anche il desiderio più pressante.

Scattai io stesso questa fotografia
durante il mio viaggio in Israele
Qual è il momento migliore per morire? È necessario vivere più o meno a lungo per affrontare la morte? Che cos'è, in fondo, una vita breve e che cosa una vita lunga? Ma quale senso ha definire lunga o breve una vita? Sono questi gli interrogativi verso cui l'attenzione del lettore viene attratta tra le righe. Nel momento in cui, però, scopriamo che la vita e la morte sono parte di quello stesso meccanismo quantistico che fa da controcanto a tutto il libro, simili domande si dileguano perché non hanno più senso. Savarese istituisce infatti un parallelismo continuo tra il macrocosmo universale e il microcosmo della vita del protagonista, per poi far sì che il secondo risulti ontologicamente riassorbito nel primo. Non è un caso che la riflessione fisica si concentri, verso il finale, sui buchi neri: come questi ultimi sono ciò che rimane dopo la morte di una stella e hanno il potere di attrarre qualunque corpo passi loro accanto, così anche la scomparsa della stella di Simeone, cioè di suo padre Thomas, sembra avere lasciato un grande buco nero in cui Simeone è stato attratto. E come non si sa che cosa possa avvenire all'interno dei buchi neri quando un corpo sia stato attratto in uno di loro finendovi dentro, così non dovremmo essere in grado di sapere che cosa stia avvenendo dopo che Simeone è stato risucchiato dentro il buco nero lasciato dalla scomparsa di suo padre (e non credo possa essere casuale il fatto che Savarese indichi in un «risucchio vorticoso», avvertito da Simeone tra i polmoni, il momento supremo della vita/morte del giovane). Però Savarese ce lo dice: all'interno del buco nero paterno Simeone ritrova Thomas in una luminosa esplosione dell'amore più bello e puro. E francamente a me piace tanto questo giovane distrofico che ci insegna a vivere bene e a morire meglio. Ma mi piace anche quel padre che quasi accetta di riunirsi finalmente al figlio solo nella dimensione più pura e luminosa che è l'eternità.

A volte penso che il caso non esista. L'ho pensato leggendo questo libro che - ne sono sicuro - riuscirà a parlare a ciascun lettore in modo individualmente mirato. L'ho pensato perché a causa di una serie di circostanze sono riuscito a completarne la lettura nel periodo natalizio (che ha un rilievo centrale nel libro). L'ho pensato perché la menzione dei luoghi più evocativi di Israele mi tocca, avendoli io stesso visitati alcuni anni fa: ho rivissuto l'atmosfera che io stesso respirai, sebbene non in dicembre ma una mattina d'agosto, nella Basilica della Natività e nell'angusta cappella costruita sopra al luogo reputato dalla tradizione quello in cui Cristo vide la luce; ho rivissuto quel caos mistico, prodotto di "cristianesimi" diversi, da me respirato quello stesso giorno e che del resto mi riporta alla narrazione che Nikos Kazantzakis fa della cerimonia dell'accensione automatica della Santa Luce nel suo "Rapporto al Greco". Ecco: quei toni eccessivi ed esagitati con cui la folla testimonia la propria fede, nel racconto di Kazantzakis, spirano pure dalle righe di Savarese.

Conclusa la lettura, si rimane poeticamente spiazzati dalla bellezza e dall'umanità che Eduardo ha trasfuso a pennellate larghe e abbondanti nel suo libro, ma senza mai cadere nell'eccesso, nell'affettazione, nella meccanicità (si pensi anche all'elegante candore con cui viene descritto il primo contatto carnale tra Simeone e Lea). E mi si lasci dire che «Le cose di prima» è un libro terapeutico soprattutto per chi è o si sente tormentato.

Ivo Flavio Abela


lunedì 3 dicembre 2018

Messalina (mio articolo apparso su «Civiltà Romana» n. 2, 15 settembre 2018)

Messalina in un dipinto di
Peder Severin Krøyer

L’influenza di Messalina su Claudio fu notevole:
egli pendeva dalle sue labbra e l’assecondava
eliminando quanti non le risultavano graditi.
La loro unica colpa pare fosse
non avere ceduto alle profferte della donna.
Si racconta, per esempio, che un liberto, d’accordo con lei,
raccontò a Claudio di avere sognato
che un noto personaggio, Appio Silano,
stava per ordire una congiura ai suoi danni.
Messalina disse di avere sognato la stessa cosa.
In quell’istante l’ignaro Silano giungeva
nelle stanze dell’imperatore. Perché mai?
Per ammazzarlo: ovvio. E Silano fu ucciso.
La crudeltà di Messalina non aveva limiti:
pare avesse provato a far eliminare pure Nerone,
figlio di Agrippina (poi quarta moglie di Claudio),
poiché temeva che egli potesse pregiudicare
l’ascesa al trono del proprio figlio Britannico (e non sbagliava).
Assoldò alcuni sicari, ma essi si sarebbero astenuti
dal compiere il delitto poiché – entrati nella camera del ragazzo –
avrebbero visto un serpente eretto presso il suo lettino.
Messalina era la figlia dei patrizi Messalla Barbato e Domizia Lepida. La bisnonna Ottavia era anche nonna materna di Claudio – l’imperatore di cui Messalina sarebbe diventata terza moglie e che regnò dal 41 al 54 – e sorella di Ottaviano Augusto. Quando giunse alle nozze, intorno al 40, Messalina era ancora lungi dal compiere vent’anni. Con Claudio ebbe due figli: Ottavia e Britannico. Le fonti lasciano intendere che Messalina s’improvvisò “censore” della moralità pubblica, concluse loschi affari pur di ottenere elevati profitti, fece togliere la cittadinanza ai propri nemici personali per darla ad altri. Tuttavia non esistono prove che abbia fatto tutto ciò, né del fatto che, del tutto depilata, con gli occhi pesantemente truccati mediante l’antimonio, le labbra dipinte lascivamente di un rosso vivo e i seni cosparsi di polvere dorata che finiva per ricoprire del tutto i capezzoli, amasse prostituirsi nei lupanari dell’Urbe, concedendosi a gladiatori e soldati. Claudio non la dotò mai di alcun titolo: nemmeno di quello di Augusta che pure, in quanto consorte dell’imperatore, le sarebbe spettato. Eppure giunse il tempo in cui Messalina fu costretta a rifugiarsi con la madre nei giardini di Lucullo e invitata a darsi la morte: giunse a ferirsi il seno e il collo, ma non ebbe il coraggio di infliggersi quel colpo fatale, che le avrebbe poi assestato un tribuno inviato dal liberto Narciso su ordine di Claudio. Ciò avvenne nel 48 d.C. Svetonio narra pure che l’imperatore, sdraiatosi un giorno per consumare le abbondanti e succulente portate preparate per il banchetto, avesse chiesto come mai la signora – Messalina appunto – non fosse ancora giunta. Un liberto gli ricordò allora che il sole aveva illuminato Roma per due volte da quando Messalina era stata trafitta a morte per suo ordine. Ma come giunse l’imperatore a fare sopprimere Messalina?

S’è già detto che la donna frequentava i postriboli dell’Urbe, ma anche gli angoli più loschi delle strade romane, pur di procurarsi gli uomini per i quali nutriva un’attrazione fortissima. Un giorno conobbe colui che Tacito avrebbe definito «il più bel giovane di Roma», cioè il console Caio Silio: guai a se stessa se l’avesse lasciato scappare. La moglie del prescelto, Giulia Silana, era pure nota per i tradimenti perpetrati ai danni del console, per cui non costituiva un ostacolo. Semmai ciò avrebbe spinto a maggior ragione il console tra le braccia di Messalina. Caio Silio, poi, aveva ottime ragioni per nutrire rancore verso la famiglia imperiale: l’omonimo padre era stato costretto ad ammazzarsi da Tiberio, zio di Claudio e imperatore dal 14 al 37. Inoltre il console lamentava il fatto che Claudio non l’avesse mai considerato, nonostante gli anni di servizio militare condotti con onore e la vittoria riportata su Sacroviro. Anche Claudio aveva motivi per detestare Silio. In particolare lo odiava da quando il console si era prodotto in una battuta contro di lui: profondendosi Claudio, in senato, in uno dei suoi soliti discorsi, citò alcune parole del poeta Orazio relative alle limpide acque del fiume Xanthus, in cui «Apollo amava intingere le chiome». Era poi passato a parlare del melmoso fiume Rodano. Silio aveva allora aggiunto, ricordando un celeberrimo bagno cui Claudio era stato in modo umiliante costretto da Caligola nello stesso fiume, le parole «in cui ama intingere la chioma Claudio». La sortita aveva fatto esplodere in sonore risate i senatori: per Claudio fu una ferita narcisistica inguaribile.

Messalina sedusse Silio e lo fece divorziare dalla moglie. Silio era attratto da Messalina, ma sapeva pure che, se mai si fosse sottratto alla sua corte, sarebbe stato eliminato mediante una condanna a morte per futili motivi. Messalina intendeva inoltre passare a nuove nozze con Silio dopo avere divorziato dal proprio coniuge, ma avrebbe continuato a tenere sott’occhio il trono, l’avrebbe sottratto a Claudio, facendo sì che imperatore diventasse Silio. Ma come realizzare tutto ciò?

Una mattina Messalina disse a Claudio di avere sognato cose terribili e di essersi rivolta agli indovini. Essi le avevano riferito che l’uomo a lei legato mediante il vincolo del matrimonio sarebbe perito di morte violenta entro un mese. La soluzione – diceva Messalina – era la seguente: Claudio avrebbe dovuto ripudiare Messalina e tenerla lontana da sé finché non fosse passato il mese previsto dagli indovini. Quindi l’avrebbe risposata. Claudio le ricordò che la legge matrimoniale impediva a un uomo di risposare la moglie che aveva prima ripudiato, a meno che la donna non avesse intanto contratto un altro matrimonio e poi divorziato. «Ma dove sta il problema?» disse lei. «Troverò un uomo che, dopo il tuo ripudio, mi sposi e resti mio marito per il tempo necessario. Quindi divorzierò da lui ed io e te potremo risposarci». Claudio approvò la soluzione e iniziò a proporre alcuni probabili nuovi sposi, ma per Messalina l’unico nome plausibile fu quello di Caio Silio. Ella si finse vittima sacrificale: avrebbe immolato se stessa in quel rito tragicomico, dal quale la sua fama sarebbe uscita certo disonorata. Ma per salvare il suo Claudio questo ed altro.

Claudio non era un bell’uomo. Era storpio e balbuziente.
Ma pare che la sua eloquenza fosse prodigiosa.
Per combattere i vuoti di memoria
che potevano presentarglisi nel mezzo di un discorso,
gli era stato consigliato di dire:
«Ahime! Non posso trovare parole per esprimere
la forza dei miei sentimenti su questo tema!».
Così guadagnava il tempo necessario per riposare la mente e
ricercare nella memoria ciò che avrebbe dovuto dire.
E le parole tornavano. Eppure peccava d’ingenuità
e Messalina, infatti, seppe approfittarne.
Anche in casa veniva deriso e, quando giungeva tardi per i banchetti,
lo si faceva girare più volte per la sala alla ricerca di un posto
che nessuno intendeva cedergli.
Eppure la recente critica storiografica tende a rivalutarlo
come abile amministratore e grande legislatore.
E del resto la conquista della Britannia avvenne sotto il suo comando.
Di certo era uno smemorato patologico:
più d’una volta inviò i servi in casa di un conoscente
per invitare quest’ultimo a un sontuoso banchetto,
dimenticando d’averlo fatto uccidere quella stessa mattina.
Quello stesso giorno Claudio ripudiò Messalina. Ella si gettò ai suoi piedi implorandolo di non rifiutarla: un’attrice consumata insomma. L’imperatore pronunciò uno dei suoi discorsi densi di magnifica eloquenza, parlando di amore che finisce, di giorni felici dei quali rimane infine solo la memoria. Compì pure un gesto di generosità inaudita: concesse a Messalina una lauta dote, in modo che ella accedesse al nuovo matrimonio con onore e sostanze. Messalina cominciò in cuor suo a progettare il passo successivo: avrebbe ordito uno stratagemma per indebolire il potere di Claudio, così da farne seguire l’ammutinamento di quanti, già da lei corrotti, avrebbero acclamato imperatore Caio Silio.

Claudio aveva promesso che sarebbe stato presente, come pontefice, alle nozze di Messalina e di Silio. Senonché, mentre si trovava ad Ostia per presenziare all’inaugurazione di un granaio, ricevette un messaggio da Calpurnia, la cortigiana che gli era più fedele. Gli riferiva che Messalina aveva preso marito senza attenderlo: aveva anticipato la data del matrimonio con Silio in modo che coincidesse con l’inaugurazione del granaio ostiense, per essere sicura che Claudio fosse lontano. Stando poi a Tacito, ella aveva sposato Silio nel modo più ritualmente regolare: alla presenza di un officiante, offrendo libagioni e sacrificando agli dèi. Aveva poi offerto un lauto banchetto ispirato ai più sfrenati costumi dionisiaci: attorno agli invitati quantità enormi di uva venivano messe ai torchi, il vino scorreva a fiumi e la stessa sposa, indossando una corta tunica che le lasciava scoperto il seno e agitando un tirso, s’era data alla frenesia delle danze orgiastiche, non dimenticando di abbracciare e baciare più volte il novello sposo. S’era poi ritirata con lui nell’alcova. Insomma quello era stato un matrimonio vero: altro che una pantomima per esorcizzare i risvolti tragici di un vaticinio.

Claudio inizialmente non vide nulla di strano in quelle nozze. Pensò d’avere memorizzato male la data del matrimonio di Messalina e Silio. Ma Narciso, un liberto che risiedeva presso Calpurnia e che aveva intuito i piani dell’imperatrice, riferì a Claudio che tutti a Roma sapevano che Messalina aveva contratto nozze legittime con Silio. Ciò avrebbe significato per Claudio uno scacco irreparabile agli occhi del popolo, che avrebbe cominciato a parteggiare per la nuova coppia. Gli occhi di Claudio si aprirono: nominò lo stesso Narciso comandante della propria guardia che in breve si trovò a Roma, dopo avere coperto a piedi le diciotto miglia che separano l’Urbe da Ostia.

Mentre ancora si svolgeva il dionisiaco banchetto nuziale, un invitato, Vezio Valente, salì sulla cima di un pino, dicendo che lì l’attendeva una Driade. Tutti, ridendo, gli rivolgevano battute licenziose. Ma egli rimase sconvolto perché dalla sommità dell’albero vide il luccicare delle corazze che arrivavano. Capì che quei soldati portavano la vendetta di Claudio e lanciò la voce: chi poteva fuggì all’istante e Silio si recò nel foro fingendo indifferenza. In un secondo tempo Messalina tentò di convincere Claudio che c’era stato un equivoco: che quello appena celebrato era il matrimonio finto e temporaneo. Ma Narciso rivelò a Claudio i nomi di tutti gli uomini con cui Messalina lo aveva tradito: erano centosessanta. Sebbene all’imperatore non fossero sfuggite certe scappatelle dell’ex moglie, portare sulla testa le corna di centosessanta uomini era davvero troppo. Messalina fuggì verso i giardini di Lucullo dove fu giustiziata. Fu ucciso pure il bel Caio Silio. Claudio, stanco di delusioni sentimentali e coniugali, disse che mai più avrebbe preso moglie, ma qualche mese dopo sposò Agrippina, madre del futuro imperatore Nerone. La saga della dinastia giulio-claudia, iniziata gloriosamente con Augusto, si avviava pian piano a concludersi in modo davvero tragico.

Ivo Flavio Abela