Il giovane Simeone è affetto da distrofia muscolare: è condannato a stare su una sedia a rotelle e a dipendere da chi è costretto ad aiutarlo, prima fra tutti la madre, Elide. La donna vive con costernazione la malattia del figlio, combattuta fra l'amore e la gelosia nei suoi confronti e l'ansia di non sentirsi a quell'altezza altruistica che un compito talmente delicato richiede. Attorno a loro ruotano personaggi strani come Pierotta, incostante, umorale al pari di molti bipolari, vicina a Simeone solo nei momenti in cui stargli accanto non aggrava il proprio stato depressivo; Filippo, professore universitario di Fisica che finisce per costituire un punto di riferimento prezioso per Simeone, ma non riuscirà (non vorrà in verità) prendere il posto di suo padre; il siriano Thomas, padre di Simeone, che lascia la moglie e il figlio e torna in Siria per difendere i cristiani perseguitati dall'Isis; Lea, famosa cantante lirica che inizia a fare i conti con una voce imprevedibile e trova in Simeone la strana ragione di una porzione della propria vita.
Se agli inizi della lettura avevo pensato che la condizione di Simeone fosse l'ipostasi dei limiti che sono fisiologicamente tipici dell'essere umano, mi sono poi accorto, invece, del fatto che la sua malattia è solo una delle tante gabbie, uno dei poliedrici tormenti, ai quali può sentirsi realmente condannato l'uomo. La scelta della distrofia da parte dell'autore, paradossalmente, non sarebbe potuta risultare più felice ed emblematica, se si considera che tale malattia può portare ad una morte che rasserena, pacifica, libera, e che tutto rende realizzabile. Nel momento in cui si riesce ad amare i propri limiti fino ad avere il coraggio di guardare in faccia alla morte e di abbracciarla, le «cose di prima» non contano più e si può realizzare anche il desiderio più pressante.
Scattai io stesso questa fotografia durante il mio viaggio in Israele |
Qual è il momento migliore per morire? È necessario vivere più o meno a lungo per affrontare la morte? Che cos'è, in fondo, una vita breve e che cosa una vita lunga? Ma quale senso ha definire lunga o breve una vita? Sono questi gli interrogativi verso cui l'attenzione del lettore viene attratta tra le righe. Nel momento in cui, però, scopriamo che la vita e la morte sono parte di quello stesso meccanismo quantistico che fa da controcanto a tutto il libro, simili domande si dileguano perché non hanno più senso. Savarese istituisce infatti un parallelismo continuo tra il macrocosmo universale e il microcosmo della vita del protagonista, per poi far sì che il secondo risulti ontologicamente riassorbito nel primo. Non è un caso che la riflessione fisica si concentri, verso il finale, sui buchi neri: come questi ultimi sono ciò che rimane dopo la morte di una stella e hanno il potere di attrarre qualunque corpo passi loro accanto, così anche la scomparsa della stella di Simeone, cioè di suo padre Thomas, sembra avere lasciato un grande buco nero in cui Simeone è stato attratto. E come non si sa che cosa possa avvenire all'interno dei buchi neri quando un corpo sia stato attratto in uno di loro finendovi dentro, così non dovremmo essere in grado di sapere che cosa stia avvenendo dopo che Simeone è stato risucchiato dentro il buco nero lasciato dalla scomparsa di suo padre (e non credo possa essere casuale il fatto che Savarese indichi in un «risucchio vorticoso», avvertito da Simeone tra i polmoni, il momento supremo della vita/morte del giovane). Però Savarese ce lo dice: all'interno del buco nero paterno Simeone ritrova Thomas in una luminosa esplosione dell'amore più bello e puro. E francamente a me piace tanto questo giovane distrofico che ci insegna a vivere bene e a morire meglio. Ma mi piace anche quel padre che quasi accetta di riunirsi finalmente al figlio solo nella dimensione più pura e luminosa che è l'eternità.
A volte penso che il caso non esista. L'ho pensato leggendo questo libro che - ne sono sicuro - riuscirà a parlare a ciascun lettore in modo individualmente mirato. L'ho pensato perché a causa di una serie di circostanze sono riuscito a completarne la lettura nel periodo natalizio (che ha un rilievo centrale nel libro). L'ho pensato perché la menzione dei luoghi più evocativi di Israele mi tocca, avendoli io stesso visitati alcuni anni fa: ho rivissuto l'atmosfera che io stesso respirai, sebbene non in dicembre ma una mattina d'agosto, nella Basilica della Natività e nell'angusta cappella costruita sopra al luogo reputato dalla tradizione quello in cui Cristo vide la luce; ho rivissuto quel caos mistico, prodotto di "cristianesimi" diversi, da me respirato quello stesso giorno e che del resto mi riporta alla narrazione che Nikos Kazantzakis fa della cerimonia dell'accensione automatica della Santa Luce nel suo "Rapporto al Greco". Ecco: quei toni eccessivi ed esagitati con cui la folla testimonia la propria fede, nel racconto di Kazantzakis, spirano pure dalle righe di Savarese.
Conclusa la lettura, si rimane poeticamente spiazzati dalla bellezza e dall'umanità che Eduardo ha trasfuso a pennellate larghe e abbondanti nel suo libro, ma senza mai cadere nell'eccesso, nell'affettazione, nella meccanicità (si pensi anche all'elegante candore con cui viene descritto il primo contatto carnale tra Simeone e Lea). E mi si lasci dire che «Le cose di prima» è un libro terapeutico soprattutto per chi è o si sente tormentato.
Ivo Flavio Abela
Ivo Flavio Abela
Forma, contenuti, impostazione. Elocutio, dispositio, inventio: non manca nulla in questo bel pezzo che iniziando in fase "acutamente critica" si sviluppa con cenni sulla trama e ritona nell'alveo delle riflessioni conclusive. I miei piu' sinceri complimenti - per quel che valgano - all'Autore, Ivo Flavio Abela, e un sentito ringraziamento per averla resa nota anche su FB.
RispondiEliminaLa sua recensione relativa al libro "Le cose di prima" mi rende orgogliosa di essere siciliana!
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