venerdì 30 luglio 2010

«L'alfabeto di sabbia» di Fleur Jaeggy. Ovvero «Se chi ama i libri si riduce così, meglio smettere di leggere»

Sette anni sono passati da quando Fleur Jaeggy fu invitata a Venezia per la celebrazione dei vent'anni della Scuola per librai «Umberto e Elisabetta Mauri». Per l'occasione fu organizzato il convegno «Dentro l’irrealtà», al quale la Jeaggy volle partecipare leggendo, il 30 gennaio 2003, un suo racconto: «L'alfabeto di sabbia». Autrice di romanzi, saggi e traduzioni, vincitrice di premi (quali il Bagutta nel 1989 per «I beati anni del castigo», il Moravia e il Boccaccio Europa nel 1994 per «La paura del cielo» e il Donna Città di Roma nel 2001 per «Proleterka»), la nostra autrice avrebbe forse voluto insistere, con il suo racconto, sul rapporto fra lo scrittore e il lettore e (continuo a dire «forse») esaltare implicitamente la lettura. Senonché, dopo sette anni, la rilettura del racconto non traduce ancora quei «forse» in «sicuramente».

La protagonista del racconto, Regula, vive sola in una casa piena di libri: alcuni acquistati personalmente, moltissimi altri ereditati da una prozia di cui Regula conosce soltanto il soprannome, cioè 'mulatta'. «Ci sono libri che si comportano come persone», recita l’incipit del racconto. I libri, numerosissimi e quindi tendenti ad occupare tutto lo spazio libero nella casa di Regula, costituiscono infatti una moltitudine "umana" pressoché indomabile, disordinata, irragionevole, anarchica. Si spostano da soli, si nascondono, non rispondono ai richiami, improvvisano masochistici tentativi di autodistruzione, tornano ai loro posti quando sembra loro opportuno. Reagiscono insomma al comportamento maniacale di una proprietaria fortemente gelosa, possessiva e iperprotettiva: Regula ne tiene alcuni con il dorso contro il muro per evitare che ne possano essere individuati i titoli, li annota con un laconico «Non toccare», li marchia con strani e criptici segni grafici, li lascia alla luce durante le ore notturne come si fa con i bambini che vogliono la luce durante notte, li danneggia strappandone lembi di pagina per ricordare che una parte di loro contiene un'informazione importante.

Una categoria di libri è però difficilmente controllabile. I più maliziosi, i più dispettosi, sono i mistici: «I rabdomanti. [...] Alcuni insegnano il distacco. Altri che l'amore non concede favori, che la carità è violenta». In effetti sembra che Regula percepisca che quei libri mistici contengano preziose informazioni, ma ella ne opera e reitera ansiosamente e smodatamente un'acquisizione perlopiù fisica. Tale acquisizione non è insomma assimilazione e comprensione dei contenuti: operazioni, queste ultime, che si fermano al livello di semplice e inconsapevole tentativo. Non a caso, il libro che con maggiore autorevolezza si sottrae al maniacale gioco di Regula è una Bibbia nera. Essa torna al suo posto da sola ogni volta che Regula la apre: non ha bisogno di fare i capricci per sottrarsi al suo controllo semplicemente perché Regula non può possederla in toto. La protagonista giustifica l'anomalo comportamento della Bibbia nera pensando che il proprietario precedente la rivoglia indietro. In questo quadro, quello di Regula sembra assumere i tratti di un delirio di onnipotenza frustrato dallo scontro con una più efficace onnipotenza insita nelle tematiche escatologiche, nelle presunte verità dell’Essere.

Quando l’ansia, il controllo, l’iperprotezione nei confronti della materialità dei libri vengono meno, Regula coglie finalmente il senso vero dei testi. Quando fa a meno degli oggetti di cancelleria per l’apposizione dei segni ed evita addirittura di aprire i libri, insomma quando la sua lettura smette di essere “materiale”, i libri forniscono spontaneamente il loro vero messaggio. I contenuti fluiscono assumendo l’aspetto di magnifiche ombre, se non addirittura del loro stesso autore. In simili casi, ma per pochi minuti, Regula ascolta l’autore obbedendo al suo monito e rispettandone le intenzioni.

Forse la Jaeggy potrebbe volere farci intendere che il libro, una volta dato alle stampe, diventa bene del destinatario che può trarne contenuti e interpretarlo nel modo a lui più consono. E che l'autore continua subliminalmente ad esercitare la "patria potestà" sulla sua creatura cercando di sottrarla ad un uso e ad un'interpretazione impropri o completamente arbitrari.

Se tale era l'obiettivo, la Jaeggy l'ha centrato a fatica, producendosi in un apparato "argomentativo" traballante e ambiguo, se non addirittura fuorviante. Da una prima lettura del testo si dedurrebbe anzi che la Jaeggy voglia mettere in guardia il lettore dal leggere: in soggetti particolarmente insicuri e frustrati, l'amore per i libri e per la lettura potrebbe degenerare in una forma di possesso maniacale. Inoltre il presunto citato scopo emerge a fatica. Deve essere desunto da elementi criptici, che diventano leggermente più intellegibili soltanto quando il racconto volge alla fine. Dopo, cioè, che il lettore ha maturato una congrua dose di antipatia o di commiserazione (a seconda della propria sensibilità) nei confronti di una protagonista psicotica.

Torniamo a rileggere il vecchio Steiner («Vere presenze»): è meglio.

Ivo Flavio Abela

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