martedì 17 agosto 2010

Su Antonio Canova

Il presente testo campeggiava fra le note facebookiane di un mio vecchio account. È dedicato a una pregevole monografia su Antonio Canova scritta dal professore Aldo Scibona e voleva costituire una sorta di recensione ad uso di quanti, fra gli amici presenti nella mia lista di contatti, mi avevano chiesto via mail informazioni sul valore, il senso e i contenuti del libro sciboniano, sapendo che avevo avuto l’immeritato onore di presentarlo. Mi sembrava il modo più pratico e proficuo non solo di fornire una risposta, ma anche di offrire un tributo alla memoria dell’artista neoclassico.

Poiché il caldo estivo (avevo pubblicato la nota nel corso dell’estate 2009) ottundeva alquanto le mie capacità di cogitazione (a dire il vero poco efficaci anche in altre e meno aggressive stagioni), avevo preferito costruire la recensione saccheggiando ampiamente il canovaccio da me redatto in vista della presentazione. Sicché se qualcuno dei potenziali lettori v’avesse assistito, avrebbe riconosciuto sicuramente alcuni luoghi da me già verbalizzati in quella sede.

È doveroso ricordare che l’inquadramento del neoclassicismo proposto ad incipit della recensione (peraltro alquanto sviluppato in sede di esecuzione) è nelle linee generali liberissimamente ispirato a quello proposto da Nicolò Mineo in «Vincenzo Monti. La ricerca del sublime e il tempo della rivoluzione», Giardini Editori e Stampatori in Pisa, 1992. Arduo e complesso era stato tuttavia operare una funzionale contaminatio fra alcune smaccatamente accademiche suggestioni offerte dal testo di Mineo (peraltro riguardanti un Monti che di neoclassico ebbe solo l’etichetta e non l’identità) e le vivaci suggestioni sciboniane (per di più riguardanti un Canova che di neoclassico ebbe tanto l’una quanto, pienamente, l’altra).


Antonio Canova inventore della bellezza
secondo Aldo Scibona

Rigore filologico, onestà intellettuale, competenza testuale caratterizzano uno studio che contribuisce al riscatto di uno dei più grandi cantori del Neoclassicismo, troppo spesso liquidato come autore di “svarioni cimiteriali”.

Jacques Louis David, Il giuramento degli Orazi, 1784 
Nel 1785 viene esposto a Roma «Il giuramento degli Orazi» di Jacques Louis David. In esso la virtù degli antichi romani è esaltata attraverso forme classiche. Il contenuto è però permeato di romanesimo repubblicano (il cui potenziale “eversivo” sembrerebbe ispirare in ogni paese i rivoluzionari dal 1789 in poi). In esso Marx individua una “resurrezione dei morti”, atta a «magnificare le nuove lotte, non a parodiare le antiche; […] a ritrovare lo spirito della rivoluzione, non a rimetterne in circolazione il fantasma» («Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte», in «Rivoluzione e reazione in Francia», trad. ital., Torino, Einaudi, 1976, pp. 172-174). È il consolidarsi della cosiddetta «linea romana» del neoclassicismo. Antonio Canova (1757 – 1822), che fin dal 1781 si è stabilito a Roma, resuscita pure i morti (greci in particolare). Tale resurrezione di morti egli finalizza a «magnificare le nuove forme artistiche, non a parodiare le antiche; […] a ritrovare lo spirito dell’arte e della bellezza, non a rimetterne in circolazione il fantasma», per usare i moduli espressivi di Marx. Canova si distingue così da molti intellettuali e letterati italiani a lui contemporanei che non riescono a discernere il punto di rottura fra il classicismo e il neoclassicismo. Egli è un vero neoclassico in accezione etimologica. È anzi moderno.

Aldo Scibona, «Canova. La mano di Dio»
Treviso, Editing Edizioni, 2008
Aldo Scibona in «Canova. La mano di Dio» (Treviso, Editing Edizioni, dicembre 2008) porta alla luce proprio la modernità di Canova, artista che inventa una bellezza e non si limita a ricopiarla dai classici, anzi artista che – dice Scibona – esprime «un’intuizione moderna della bellezza». Scibona sviluppa il concetto rendendolo isotopia della sua opera, isotopia che percorre tutto il libro sotterraneamente, salvo emergere vistosamente in alcuni luoghi dei quali quattro (veri e propri snodi testuali dell’isotopia stessa) appaiono particolarmente significativi, a parere di chi scrive:

  • l’incipit di pagina 13. Il 1757 vi viene presentato come «un anno particolarmente fortunato per il futuro movimento neoclassico in Europa ed in Italia» per tre ragioni. L’architetto Jacques-Germain Soufflot a Parigi inizia i lavori di costruzione della Chiesa di Sainte Geneviève. Etienne Maurice Falconet scolpisce La bagnante del Louvre. Infine il 1° novembre nasce appunto Antonio Canova. La data di nascita di Canova risulta così inquadrata in un disegno – per così dire – provvidenzialistico, quasi di attesa messianica finalmente soddisfatta grazie alla natività del messia del neoclassicismo;
  • la pagina 29. Scibona vi ricorda quanto Canova, in occasione del suo primo soggiorno a Roma (1779), si riveli singolarmente insofferente nei confronti dell’ammirazione ivi tributata alla scultura antica;
  • la pagina 34. Scibona vi inserisce in particolare una testimonianza di Stendhal: «Il Canova ha avuto il coraggio di non copiare i greci e di inventare una bellezza, come avevano fatto i greci»;
  • le pagine 214-215, in cui Scibona riporta le parole scritte da Canova all’amico Quatremère de Quincy in occasione della permanenza a Londra, dove Canova vede i marmi del Partenone: «Se è vero che queste siano opere di Fidia, o ch’egli vi abbia posto mano per ultimarle, esse mostrano chiaramente che i grandi maestri erano i veri imitatori della bella natura […] Le opere dunque di Fidia sono vera carne, cioè bella natura. […] l’aver veduto queste cose ha sollecitato il mio amor proprio, perché sempre io sono stato del sentimento che i grandi maestri avessero dovuto operare in questo modo e non altrimenti […] perché sempre gli uomini sono stati composti di carne flessibile e non di bronzo».

Antonio Canova, Venere Italica
Ai quattro luoghi citati ne va però aggiunto un quinto: quello della prova tangibile di quanto fin qui affermato. Alle pagine 158-159 Scibona infatti sottolinea come l’ideale di bellezza moderna sia raggiunto da Canova nella Venere Italica, commissionata allo scultore per rimpiazzare l’ellenistica Venere de’ Medici degli Uffizi, trafugata in Francia da Napoleone. Nella sua Venere – dice Scibona – Canova rinnova il movimento della Venere de’ Medici. Ma compie il miracolo: la dea emana fascino umano. Foscolo afferma: «Se la Venere dei Medici è bellissima Dea, questa che io guardo e riguardo è bellissima donna: l’una mi faceva sperare il Paradiso fuori di questo mondo, e questa mi lusinga del Paradiso anche in questa valle di lagrime». Scibona sembra fargli il verso. Anzi rivendica alla Venere canoviana una sensualità che neanche le Tre Grazie possiedono (esprimendo esse «soltanto una leggiadria ed una purezza giovanile»). Che per Scibona tale Venere sia un capolavoro “completo” emerge anche dalla sua precisazione riguardo all’epiteto di ‘italica’: la Venere canoviana fu così chiamata non soltanto per distinguerla dalla Venere de’ Medici, ma anche perché espressione di un’italianità già prorompente, per quanto non ancora politicamente realizzata (quell’italianità che diventerà addirittura personificazione piangente dell’Italia nel monumento funebre a Vittorio Alfieri).

Uno dei punti di forza del libro è l’attenta disamina di ognuno dei miti trattati da Canova. Scibona non si limita a descrivere le singole opere, ma scava nelle più recondite pieghe del mito alla ricerca di dati illuminanti per un’interpretazione quanto più verosimile possibile della singola realizzazione scultorea. Lo fa con l’onestà intellettuale tipica di chi sposa il modello dell’analisi filologica. Tre esempi valgano per tutti:

  • Venere e Adone. Scibona ricorda l’origine fenicia del mito, ma anche la tradizione femminile di realizzare i cosiddetti ‘giardini di Adone’ durante le Adonie (feste ateniesi della durata di otto giorni). E proprio come un giardino d’Adone Scibona interpreta l’opera;
  • Endimione dormiente. Scibona analizza il mito, ne spiega il significato, cita altre versioni del mito, infine individua nel «Dialogo 11» di Luciano di Samosata la fonte principale di Canova nelle parole con cui Selene parla di Endimione ad Afrodite (in particolare per i dettagli della clamide sulla roccia, della mano sinistra da cui scivolano le frecce, della destra piegata verso l’alto intorno al capo);
  • alcuni bassorilievi in gesso quali «La danza dei figli di Alcinoo» e «Le Troiane presentano il peplo a Pallade». Scibona ripercorre le vicende rispettivamente dei libri VI, VII, VIII dell’«Odissea» e del libro VI dell’«Iliade». Narra e descrive usando una prosa delicata quanto la materia in cui gli stessi bassorilievi sono realizzati. Crea gradevoli quadri che non si esagererebbe nel ritenere tali quali (per dirla desaussurianamente) le immagini acustiche probabilmente innescate nella mente dello stesso Canova, quando si faceva leggere quegli stessi racconti durante il lavoro.

Antonio Canova, La danza dei figli di Alcinoo

Antonio Canova, Maddalena penitente
Analogamente l’autore si regola analizzando quello che egli stesso definisce il «nervo scoperto» della produzione canoviana: Maddalena penitente (Museo di Sant’Agostino a Genova). Scibona l’interpreta alla luce del testo evangelico di Luca contenente i dettagli delle lacrime che bagnano i piedi di Cristo e dei capelli con cui la donna glieli asciuga. La descrive quindi minuziosamente insistendo sulla sublimazione dell’umano incarnata nel contrasto fra la bellezza del corpo e la sua mortificazione.

Dal testo di Scibona emerge inoltre un Canova profondamente consapevole della situazione storica del suo tempo. Sono le parti in cui Scibona diventa più “biografo”, delineando peraltro un ritratto di Canova quale «attento discepolo di Niccolò Machiavelli», dotato di «una raffinata consapevolezza della “ragion di Stato”».

Che il lavoro di Scibona assuma le caratteristiche di un’opera filologicamente onesta può emergere dall’uso di fonti “dirette” quali le epistole, il diario romano e l’«Abbozzo» di biografia redatti dallo stesso Canova, nonché la «Vita» di Antonio Canova del Missirini (1824).

Il registro sciboniano è generalmente elevato, ma mai incomprensibile, se mai immediato. E tale immediatezza emerge in particolare da alcuni luoghi in cui Scibona sembra derogare a tratti linguistici da parlato quasi prototipico (quelli caratteristici dell’italiano neostandard) quali, per esempio, certe topicalizzazioni come le dislocazioni a sinistra («La stessa valutazione problematica è possibile formularla per un’altra statua di marmo», p. 110), ‘lei’ soggetto («che lei gli ha inviato», p. 197), certi genericismi («la scelta che fa», p. 202), la deissi spaziale («In questo modo», p. 214, usato come vagamente “simoniano” incapsulatore di quanto appena affermato). Non ne risulta però affatto lesa la coerenza formale, semmai ne esce rafforzata l’efficacia comunicativa.

«Canova. La mano di Dio» è stato presentato il 19 dicembre 2008 presso il Museo Santa Caterina di Treviso a cura della Fondazione Canova di Possagno, paese natale dello scultore, e della Provincia di Treviso, nonché il 7 febbraio 2009 presso l’auditorium del Liceo Classico di Gela, paese natale di Aldo Scibona.

Ivo Flavio Abela

Il momento conclusivo della presentazione siciliana del libro:
la parola all’autore
(il sottoscritto appare parzialmente coperto dall'asta del microfono)

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