Non riesco ad allinearmi alle posizioni di quanti, spinti magari dalle più oneste ragioni, difendono a spada tratta l’Unità d’Italia. Quanto segue è il frutto della tessitura di estemporanee e libere riflessioni.
Quella della possibilità di unificare l’Italia era un’idea non idea. Come fa un’idea ad essere contemporaneamente una non idea? Come fa un’idea ad essere l’opposto di se stessa? Chiarisco allora: «idea non idea» è soltanto un eufemistico calembour da me usato per dire che l’Italia è esistita solo nell’immaginazione di quanti si sono fermati a considerare che le Alpi separassero una penisola dal resto d’Europa. Non hanno però notato che in Italia i concetti di regione culturale e regione geografica e amministrativa non coincidono.
Le Alpi costituiscono in realtà un confine paradossalmente fittizio (anche se fisicamente reale) perché ciò che è contenuto a Sud di esse è culturalmente eterogeneo: a sud delle Alpi esistono altre barriere molto marcate (più subdole e insormontabili di una catena montuosa) che ci si ostina a non volere vedere, presi da una romantica quanto giocosa vena neo-risorgimentale e da una visione tanto deterministica quanto superata alla Le Roy Ladurie (sono rimasto perplesso alcuni anni fa dalla lettura di «Tempo di festa, tempo di carestia», della quale condividevo soltanto, e per giunta relativamente, la riflessione sugli effetti deterministici del clima). Proprio quelle barriere che non vediamo separano i cittadini italiani e li portano ad essere “antropologicamente” individualisti.
I linguisti sono soliti individuare cinque aree macroregionali nel territorio italiano, a ciascuna delle quali corrisponde una specifica varietà regionale di italiano (aree che diventano addirittura sei nell’analisi di chi suddivide ulteriormente quella settentrionale in nord-occidentale e in nord-orientale). Se la lingua rispecchia anche le matrici culturali secondo le quali la realtà viene elaborata (e ogni varietà regionale è una lingua a tutti gli effetti, sebbene abbia istituzionalmente come lingua-tetto l’italiano standard della tradizione letteraria e della grammatica ufficiale), ne uscirebbe confermata l’eterogeneità culturale di esseri umani che si vedono costretti a vivere nella stessa regione geografico-amministrativa. E la convivenza fra culture diverse è sempre difficile.
E che cosa hanno fatto quanti non si sono curati di prendere in considerazione quelle subdole barriere? Hanno pensato che una lingua letteraria (mai parlata di fatto da nessuno) potesse costituire un elemento di unificazione. Una lingua letteraria e non una lingua di comunicazione: follia. Follia ancora maggiore se si considera che l’italiano medio, geneticamente paraderetano e accidioso, ha sempre badato al proprio particulare.
Non può certo cambiare la sostanza delle cose il fatto che quella lingua fosse il fiorentino di Dante Alighieri. Vero è che quel fiorentino risultava lingua meno marcata delle altre. Ma sempre lingua imposta letterariamente era. E le lingue non possono essere imposte. Quando poi arrivò Galileo Galilei, il problema si ripropose: per denominare le invenzioni che cosa fare? Usare le tipologie linguistiche da arsenale (tutte diverse fra loro per motivi di diatopia)? Galilei scelse di risemantizzare vocaboli comuni della lingua fiorentina, gettando così le basi della lingua della prosa scientifica italiana. Ma tale azione aggiunse artificialità ad artificialità. Del resto perché in Europa non ha mai funzionato l’esperanto? Perché qualsiasi lingua imposta a tavolino non funziona. Perché una lingua imposta a tavolino presuppone contenuti da veicolare pure scelti a tavolino. Perché una lingua imposta a tavolino frena artificiosamente il flusso vitale tipico di ogni lingua naturale. Ma Galilei la ebbe vinta comunque perché l’imposizione continuava ad essere forte. Si voleva creare l’Italia così?
Oggi ci si lamenta perché i nostri allievi (tanto a scuola quanto all’università) non sanno scrivere. Ci si lamenta contemporaneamente del fatto che i dialetti si perdono (anche se il loro stato di salute non è poi così grave).
I dialetti si perdono a favore di una koiné che altro non sarebbe se non un compromesso fra una base fortemente regionalizzata (in cui i geosinonimi la fanno da padroni) e una sovrastruttura derivata dalla ristandardizzazione a fini comunicativi della lingua letteraria (di cui sono moderni campioni Maria De Filippi e tanti altri individui di dubbio spessore culturale). E tale variante neostandard è l’esito linguistico (triste) di una unità nazionale imposta a suo tempo, che oggi si tenta di fare uscire dalla porta (ciascuno per specifiche convinzioni variabili da persona a persona), ma che chi ripiega sul passato vuole maldestramente fare rientrare dalla finestra.
Certo è che Manzoni fu profeta e vide bene quando fece il suo risciacquo in Arno. Dalla querelle con Isaia Graziadio Ascoli uscì perdente, ma la Storia della Lingua (che sempre Storia è) gli diede ragione, se è vero che la stragrande maggioranza dei tratti linguistici individuabili nella sua quarantana sono tali quali parte di quei trentacinque tratti che Sabatini codificò nel 1985 come tipici appunto della lingua italiana neostandard (cioè della koiné di cui sopra) e che tali si mantengono, nonostante la celoduristica invasione della Lega, ancora nel 2010.
Eppure quella koiné è incolpevole (e incolpevole è anche la comunità di parlanti che ne fa uso): è una lingua naturale a tutti gli effetti (naturale nell’accezione desaussuriana della parola), in quanto corrisponde all’esito naturale cui è pervenuta una lingua inizialmente imposta. Quella koiné non può essere frenata. Non dovremmo meravigliarci allora quando, negli elaborati dei giovani italiani, vediamo dominare i deittici, i lui e lei al posto di egli ed ella, gli imperfetti al posto dei corrispondenti tempi e modi normativi nel periodo ipotetico dell’irrealtà, e soprattutto quelle espressioni tendenti all’anacoluto che, nella loro formulazione più innocua, sono le dislocazioni a destra e a sinistra, il cosiddetto c’è presentativo e soprattutto le frasi scisse o frante. E chissà perché, se una lingua come il francese ha già elaborato e metabolizzato, attraverso la loro grammaticalizzazione, le frasi scisse, non dovrebbe farlo quella italiana. La moderna letteratura ne fa uso quanto i giovani. Qualche anno fa vinse lo Strega (uno dei premi in genere peggio assegnati) «Il viaggiatore notturno» di Maurizio Maggiani: il trionfo del neostandard. Esperimenti più linguisticamente ortodossi (quali, per esempio, quelli di Umberto Eco, di Isabella Santacroce e di Domenico Seminerio, per fare tre nomi che mi si presentano alla mente istintivamente) diventano irrilevanti nella deriva del neostandard. Non lamentiamoci se i nostri studenti usano tale lingua ristandardizzata: non è colpa loro, ma dell’Italia finalmente unita.
Un’Italia che fu unita a fucilate e non solo (per quanto concerne il Sud) contro i Borboni. Basti ricordare il triste caso di Bronte, narrato da Benedetto Radice nel suo «Nino Bixio a Bronte» per il quale Leonardo Sciascia scrisse un’illuminante e spietatamente lucida prefazione nel 1963 (mi riferisco al testo pubblicato dalle Edizioni Salvatore Sciascia di Caltanissetta). Radice fu mosso da «carità del natio loco, gratuitamente marchiato d’infamia dagli scrittori garibaldini, e dall’umana simpatia e pietà per quell’avvocato Lombardo che Bixio sbrigativamente aveva fatto fucilare come capo della rivolta». E perciò ancora più sincero fu il suo tentativo di fare emergere la verità contro la storiografia filogaribaldina ufficiale. Sciascia peraltro insiste sull’indignazione morale del Radice (quant’era spudorato Bixio la Belva! Al giovane che voleva portare le uova a Lombardo, il giorno prima dell’esecuzione, avrebbe detto: «Non ha bisogno di uova, domani avrà due palle in fronte»). Del resto che il Radice fosse un uomo di grandissima dignità morale è testimoniato anche dall’abnegazione con cui non si risparmiò durante il colera che colpì Bronte e buona parte della Sicilia.
In altri termini Radice agiva spinto da una morale sincera e profondamente impregnata di umanità: quella che dimostrò di non possedere lo stesso Verga quando sostituì il pazzo con il nano in «Libertà», facendosi paladino di una forma quasi machiavellica di mistificazione artistica. Non c’era moralità in Garibaldi e in Bixio. Non c’era soprattutto in Bixio che apprezzava moltissimo i privilegi garantitigli da Mrs. Nelson: colei che faceva pagare, come ricorda ancora Sciascia, ammende fino a 39 ducati (ciò che un bracciante non avrebbe mai guadagnato col lavoro di una vita) ai poveretti che rubacchiavano un po’ di legna dalle sue riserve boschive. Sciascia stesso dolorosamente ricorda come quella mistificazione fosse dettata da un ipocrita «sentimento della nazione». Alla Camera Bixio disse: «Potrei citare fatti dolorosi in cui mi son trovato nella necessità di far fucilare». Nauseante.
Oggi i nodi di un’Unità imposta agli incolpevoli abitanti di una terra soltanto geograficamente unitaria stanno apocalitticamente venendo al pettine in blocco.
Ivo Flavio Abela
Appendice
http://www.youtube.com/watch?v=7e2Hfg7oGhc&feature=player_embedded#! è il link ad un’intervista a Florestano Vancini, regista del film «Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato» (1972), ispirato alla citata novella verghiana «Libertà». Se il linguaggio usato da Visconti nel film «La terra trema» sarebbe un siciliano tanto artificiale al punto da risultare a tratti incomprensibile agli stessi siciliani, come Sciascia stesso rilevò, diversamente agì Florestano Vancini nel suo film. Alla sceneggiatura collaborò inizialmente lo stesso Sciascia intervenendo sulla costruzione delle scene, ma non sui dialoghi, la cui redazione fu invece realizzata tardivamente, quando la collaborazione con Sciascia era già cessata. Tuttavia l’intellettuale racalmutese approvò, uscito il film, il fatto che Vancini avesse usato alcune battute realmente verbalizzate da quanti parteciparono al processo, battute ricavate dai numerosissimi documenti raccolti da Benedetto Benedetti durante il suo viaggio di ricognizione a Bronte e a Catania.
Quella della possibilità di unificare l’Italia era un’idea non idea. Come fa un’idea ad essere contemporaneamente una non idea? Come fa un’idea ad essere l’opposto di se stessa? Chiarisco allora: «idea non idea» è soltanto un eufemistico calembour da me usato per dire che l’Italia è esistita solo nell’immaginazione di quanti si sono fermati a considerare che le Alpi separassero una penisola dal resto d’Europa. Non hanno però notato che in Italia i concetti di regione culturale e regione geografica e amministrativa non coincidono.
Le Alpi costituiscono in realtà un confine paradossalmente fittizio (anche se fisicamente reale) perché ciò che è contenuto a Sud di esse è culturalmente eterogeneo: a sud delle Alpi esistono altre barriere molto marcate (più subdole e insormontabili di una catena montuosa) che ci si ostina a non volere vedere, presi da una romantica quanto giocosa vena neo-risorgimentale e da una visione tanto deterministica quanto superata alla Le Roy Ladurie (sono rimasto perplesso alcuni anni fa dalla lettura di «Tempo di festa, tempo di carestia», della quale condividevo soltanto, e per giunta relativamente, la riflessione sugli effetti deterministici del clima). Proprio quelle barriere che non vediamo separano i cittadini italiani e li portano ad essere “antropologicamente” individualisti.
I linguisti sono soliti individuare cinque aree macroregionali nel territorio italiano, a ciascuna delle quali corrisponde una specifica varietà regionale di italiano (aree che diventano addirittura sei nell’analisi di chi suddivide ulteriormente quella settentrionale in nord-occidentale e in nord-orientale). Se la lingua rispecchia anche le matrici culturali secondo le quali la realtà viene elaborata (e ogni varietà regionale è una lingua a tutti gli effetti, sebbene abbia istituzionalmente come lingua-tetto l’italiano standard della tradizione letteraria e della grammatica ufficiale), ne uscirebbe confermata l’eterogeneità culturale di esseri umani che si vedono costretti a vivere nella stessa regione geografico-amministrativa. E la convivenza fra culture diverse è sempre difficile.
E che cosa hanno fatto quanti non si sono curati di prendere in considerazione quelle subdole barriere? Hanno pensato che una lingua letteraria (mai parlata di fatto da nessuno) potesse costituire un elemento di unificazione. Una lingua letteraria e non una lingua di comunicazione: follia. Follia ancora maggiore se si considera che l’italiano medio, geneticamente paraderetano e accidioso, ha sempre badato al proprio particulare.
Non può certo cambiare la sostanza delle cose il fatto che quella lingua fosse il fiorentino di Dante Alighieri. Vero è che quel fiorentino risultava lingua meno marcata delle altre. Ma sempre lingua imposta letterariamente era. E le lingue non possono essere imposte. Quando poi arrivò Galileo Galilei, il problema si ripropose: per denominare le invenzioni che cosa fare? Usare le tipologie linguistiche da arsenale (tutte diverse fra loro per motivi di diatopia)? Galilei scelse di risemantizzare vocaboli comuni della lingua fiorentina, gettando così le basi della lingua della prosa scientifica italiana. Ma tale azione aggiunse artificialità ad artificialità. Del resto perché in Europa non ha mai funzionato l’esperanto? Perché qualsiasi lingua imposta a tavolino non funziona. Perché una lingua imposta a tavolino presuppone contenuti da veicolare pure scelti a tavolino. Perché una lingua imposta a tavolino frena artificiosamente il flusso vitale tipico di ogni lingua naturale. Ma Galilei la ebbe vinta comunque perché l’imposizione continuava ad essere forte. Si voleva creare l’Italia così?
Oggi ci si lamenta perché i nostri allievi (tanto a scuola quanto all’università) non sanno scrivere. Ci si lamenta contemporaneamente del fatto che i dialetti si perdono (anche se il loro stato di salute non è poi così grave).
I dialetti si perdono a favore di una koiné che altro non sarebbe se non un compromesso fra una base fortemente regionalizzata (in cui i geosinonimi la fanno da padroni) e una sovrastruttura derivata dalla ristandardizzazione a fini comunicativi della lingua letteraria (di cui sono moderni campioni Maria De Filippi e tanti altri individui di dubbio spessore culturale). E tale variante neostandard è l’esito linguistico (triste) di una unità nazionale imposta a suo tempo, che oggi si tenta di fare uscire dalla porta (ciascuno per specifiche convinzioni variabili da persona a persona), ma che chi ripiega sul passato vuole maldestramente fare rientrare dalla finestra.
Certo è che Manzoni fu profeta e vide bene quando fece il suo risciacquo in Arno. Dalla querelle con Isaia Graziadio Ascoli uscì perdente, ma la Storia della Lingua (che sempre Storia è) gli diede ragione, se è vero che la stragrande maggioranza dei tratti linguistici individuabili nella sua quarantana sono tali quali parte di quei trentacinque tratti che Sabatini codificò nel 1985 come tipici appunto della lingua italiana neostandard (cioè della koiné di cui sopra) e che tali si mantengono, nonostante la celoduristica invasione della Lega, ancora nel 2010.
Eppure quella koiné è incolpevole (e incolpevole è anche la comunità di parlanti che ne fa uso): è una lingua naturale a tutti gli effetti (naturale nell’accezione desaussuriana della parola), in quanto corrisponde all’esito naturale cui è pervenuta una lingua inizialmente imposta. Quella koiné non può essere frenata. Non dovremmo meravigliarci allora quando, negli elaborati dei giovani italiani, vediamo dominare i deittici, i lui e lei al posto di egli ed ella, gli imperfetti al posto dei corrispondenti tempi e modi normativi nel periodo ipotetico dell’irrealtà, e soprattutto quelle espressioni tendenti all’anacoluto che, nella loro formulazione più innocua, sono le dislocazioni a destra e a sinistra, il cosiddetto c’è presentativo e soprattutto le frasi scisse o frante. E chissà perché, se una lingua come il francese ha già elaborato e metabolizzato, attraverso la loro grammaticalizzazione, le frasi scisse, non dovrebbe farlo quella italiana. La moderna letteratura ne fa uso quanto i giovani. Qualche anno fa vinse lo Strega (uno dei premi in genere peggio assegnati) «Il viaggiatore notturno» di Maurizio Maggiani: il trionfo del neostandard. Esperimenti più linguisticamente ortodossi (quali, per esempio, quelli di Umberto Eco, di Isabella Santacroce e di Domenico Seminerio, per fare tre nomi che mi si presentano alla mente istintivamente) diventano irrilevanti nella deriva del neostandard. Non lamentiamoci se i nostri studenti usano tale lingua ristandardizzata: non è colpa loro, ma dell’Italia finalmente unita.
Benedetto Radice |
Dal film «Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato» di Florestano Vancini |
Oggi i nodi di un’Unità imposta agli incolpevoli abitanti di una terra soltanto geograficamente unitaria stanno apocalitticamente venendo al pettine in blocco.
Ivo Flavio Abela
Appendice
http://www.youtube.com/watch?v=7e2Hfg7oGhc&feature=player_embedded#! è il link ad un’intervista a Florestano Vancini, regista del film «Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato» (1972), ispirato alla citata novella verghiana «Libertà». Se il linguaggio usato da Visconti nel film «La terra trema» sarebbe un siciliano tanto artificiale al punto da risultare a tratti incomprensibile agli stessi siciliani, come Sciascia stesso rilevò, diversamente agì Florestano Vancini nel suo film. Alla sceneggiatura collaborò inizialmente lo stesso Sciascia intervenendo sulla costruzione delle scene, ma non sui dialoghi, la cui redazione fu invece realizzata tardivamente, quando la collaborazione con Sciascia era già cessata. Tuttavia l’intellettuale racalmutese approvò, uscito il film, il fatto che Vancini avesse usato alcune battute realmente verbalizzate da quanti parteciparono al processo, battute ricavate dai numerosissimi documenti raccolti da Benedetto Benedetti durante il suo viaggio di ricognizione a Bronte e a Catania.
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