mercoledì 6 ottobre 2010

«Sull’utilità e il danno della storia per la vita» di Friedrich Nietzsche

«Del resto mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività». Sono parole tratte da una lettera che Goethe scrisse a Schiller il 19 dicembre 1798. Friedrich Nietzsche ne fa l’incipit della sua considerazione «sul valore e la mancanza di valore della storia» in Sull’utilità e il danno della storia per la vita.

Della storia abbiamo bisogno. Non certo come l’«ozioso raffinato», ovvero il sedicente sapiente. Egli prova una smodata, implacabile, vana soddisfazione nel contemplare il suo bagaglio di sapere che continuamente s’accresce. Egli – egoista – si ritira «nel giardino del sapere» sottraendosi alla vita e all’azione. A noi invece la storia serve proprio «per la vita e per l’azione». Se così non fosse, essa si ridurrebbe a ciò cui l’hanno declassata i Tedeschi, affetti da una «febbre storica divorante» e dotati di una «virtù ipertrofica», entrambe definibili ‘storicismo’. «Se da un secolo i tedeschi hanno atteso particolarmente agli studi storici, ciò mostra che essi, nel movimento del mondo moderno, rappresentano la forza trattenente, ritardante, calmante: […] sintomo pericoloso», avrebbe affermato del resto Nietzsche in un altro celebre scritto (Richard Wagner a Bayreuth, precedente la “rottura” col compositore tedesco, implicita in due scritti successivi: Il caso Wagner e Nietzsche contro Wagner. Nietzsche vi afferma peraltro che Wagner costituisce un caso raro, essendo riuscito ad occuparsi di storia «per l’azione rinnovatrice»). Inattuale è dunque la considerazione nietzschiana: anacronistica e controcorrente, anzi controstoricista, come «inattuali» sono definiti, in Richard Wagner a Bayreuth, gli uomini che celebrano la festa bayreuthiana: «Essi hanno la loro patria altrove che nell’epoca e trovano altrove tanto la loro spiegazione quanto la loro giustificazione».

Della storia abbiamo bisogno, si è detto. Ma ‘storia’ è ‘memoria’. ‘Memoria’ è ‘sofferenza’. Lo suggerisce il quadro – per così dire leopardiano con cui Nietzsche inizia ad argomentare. L’uomo invidia la condizione dell’animale che non si tedia e non soffre perché vive in modo non storico, nella misura in cui dimentica. L’uomo vorrebbe sconoscere il tedio e il dolore, ma la sua congenita e fisiologica incapacità-impossibilità di dimenticare glielo impedisce. E così egli vive perennemente diviso fra l’impossibilità di fermare ed “eternare” l’istante (che assume subito l’identità di ‘passato’ smettendo di essere ‘vita’) e quella di dimenticare: il passato non può che essere ricordato. L’uomo soffre perché non può fare a meno di vivere in modo storico.

Tuttavia «ciò che è non storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo e di una civiltà». Qualsiasi grande azione nasce infatti in un’atmosfera assolutamente non storica (ovvero, in qualche modo, un’atmosfera intrisa di assenza di consapevolezza). Chi riuscisse a respirare una tale atmosfera, si eleverebbe a un punto di vista sovrastorico: non si sentirebbe più motivato a vivere oltre e «a collaborare alla formazione della storia». Comprenderebbe cioè che ogni azione che possa dirsi realmente grande affonda le sue radici nella «cecità» e nell’inconsapevolezza di chi l’ha compiuta, forse anche in una certa casualità, in una certa mancanza di ordine, in un ambito insomma non storicamente “passato al setaccio” e quindi “codificato”. Sovrastorico è dunque l’uomo che smette di vivere in modo storico perché supera la storia stessa dopo averne compreso – inizialmente in modo intuitivo, poi in modo sempre più consapevole – il meccanismo.

L’uomo storico invece guarda al passato per proiettarsi verso il futuro. È dotato di un certo ottimismo. Spera infatti che quanto di buono traluce dagli eventi passati possa tornare a verificarsi. Egli crede «che il senso dell’esistenza verrà sempre più alla luce nel corso del suo processo». Eppure anch’egli – paradossalmente – pensa e agisce in modo non storico perché la sua indagine è al servizio della vita. Se la storia serve la vita, serve implicitamente una forza non storica e dunque non potrà e non dovrà mai diventare una scienza (tutto ciò che è scienza è fissato, ha un suo statuto epistemologico preciso e spesso rigido: è morto). È fondamentale dunque limitare la storia.

In tre modi la storia serve all’uomo. Egli infatti è attivo e dotato di aspirazioni, preserva e venera, soffre e ha bisogno di liberazione. Tre sono le forme che la storia assume in base al suo modo di servire all’uomo: storia monumentale, storia antiquaria, storia critica. In dettaglio

  • Storia monumentale. L’uomo attivo e dotato di aspirazioni non trova nel presente «modelli, maestri e consolatori». Li cerca nel passato e non può di certo trovarli nelle “micrologie”. Solo la storia monumentale gli offre «modelli, maestri e consolatori» capaci di indicare le strategie finalizzate al soddisfacimento delle sue grandi aspirazioni o tali da condurlo ad evitare potenziali errori. Chi guarda alla storia monumentale è inoltre stimolato da ambizioni che poco o nulla hanno di personale e di individuale: egli vuole soddisfare un popolo, se non l’intera umanità (vero è comunque che nel citato scritto filo-wagneriano Nietzsche afferma che rende grande un’azione non solo chi la compie, ma anche il «grande animo di coloro che vi prenderanno parte», altrimenti la grande azione rimane sterile). Vuole egli stesso far parte della storia e diventare a sua volta modello. La storia monumentale è grande e permette di pensare che se ciò che è grande fu una volta possibile, può e potrà esserlo ancora. È eterna (forse solo perché ciò che è grande è comunemente identificato con ciò che è eterno). Eternamente insegna. La storia monumentale può però generare confusione e favorire la falsificazione: «Ci sono epoche che non sono affatto capaci di distinguere fra un passato monumentale e un’invenzione mitica, perché da uno di questi mondi possono essere esattamente tratti gli stessi impulsi che dall’altro» (e sembra di risentire Tito Livio che in modo lucido, consapevole e tendenzioso, aveva affermato nella Praefatio ad Ab urbe condita: «Datur haec venia antiquitati ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat»). La storia monumentale – continua Nietzsche – fa emergere soprattutto alcune parti del passato, gettando oblio o fango su altre («Di per sé nessun avvenimento ha grandezza, e per quanto intere costellazioni scompaiano, popoli periscano, estesi Stati vengono fondati e guerre condotte con enormi forze e perdite: su molte cose del genere il soffio della storia passa come se si trattasse di fiocchi»: sono parole tratte ancora da Richard Wagner a Bayreuth). Inganna con le analogie. Può conseguentemente spingere a compiere clamorosi ed epocali errori (genocidi, omicidi illustri, ecc.), soprattutto quando cade nelle mani di esseri egoisti e spregevoli.
  • Storia antiquaria. Chi preserva e venera, preserva e venera le proprie radici – ciò da cui proviene e da cui è divenuto – pagando il debito per la propria esistenza. Tutto quello che è piccolo e invecchiato riceve dignità perché diventa il nido in cui l’uomo si rifugia. La storia della sua città diventa la storia di se stesso. L’uomo arriva al punto di commuoversi e di sentirsi fiero ripensando alla modestia, alla semplicità, alla rozzezza delle condizioni in cui i suoi progenitori sono vissuti. Egli è posseduto da ciò che venera, ma sembra non rendersene conto. Vuole anzi tramandare il patrimonio di conoscenze antiquarie, rendendosi colpevole anche della perdita di libertà delle generazioni future. Del resto il senso antiquario ha un campo visivo molto limitato: l’uomo antiquario non si accorge di ciò che sta intorno alla propria realtà, non vede quanto produttive possano essere altre realtà che circondano la sua, non si confronta. Persiste insomma in una sorta di delirio che gli fa percepire (ma non vedere) le proprie radici come le uniche degne di considerazione. Se la storia antiquaria è tale, essa è capace solo di conservare, ma non di generare vita.
  • Storia critica. L’uomo soffre perché incatenato dal passato. Ha bisogno di liberarsene. Lo trascina davanti a un tribunale per interrogarlo minuziosamente e condannarlo, distruggendo implicitamente la violenza e la debolezza umane di cui la storia tiene vivo il ricordo. Ma chi vive distruggendo il passato – e illudendosi così di servire la vita – è pericoloso e in pericolo. Non basta distruggere, attraverso la critica, la memoria degli eventi per cancellare i traviamenti di chi ci ha preceduti. Dovremmo cancellare noi stessi: noi siamo figli di quei traviamenti.

Un altro limite – più grave – si impone però alla storia tout court: l’intrusione della scienza fra essa e la vita, che porta ad una saturazione di storia. L’uomo moderno tende a divorare smodatamente le «pietre del sapere», a immagazzinarle e stratificarle in una dimensione che egli superbamente definisce ‘interiorità’. Essa è invero nient’altro che un caotico mondo interno dove le pietre del sapere, affastellate spesso senza criterio, rumoreggiano: «Con questo rumoreggiare si rivela la qualità più propria di quest’uomo moderno: lo strano contrasto di un interno a cui non corrisponde nessun esterno, e di un esterno a cui non corrisponde nessun interno, un contrasto che i popoli antichi non conoscono». Le pietre rimangono all’interno come contenuto privo di forma. L’assenza di forma non le rende percepibili all’esterno (salvo nei momenti in cui rumoreggiano). I Tedeschi costituiscono l’esempio più tangibile della contraddizione fra contenuto e forma, fra interiorità e convenzione (definita nello scritto filo-wagneriano come il «concordare in parole ed azioni ma non nel sentimento»). È necessario invece favorire l’unità fra contenuto e forma, se realmente si vuole promuovere la cultura di un popolo. Ma per farlo, bisogna porre un freno alla saturazione di storia.

La saturazione di storia infatti, accrescendo il divario fra esterno e interno, indebolisce la personalità umana impedendole di maturare, le fa credere di essere un frutto tardivo rispetto alla vecchiezza dell’umanità, spinge l’epoca presente a ritenersi depositaria della giustizia più a buon diritto di quanto non lo fossero altre epoche, la fa cadere nel pericoloso stato d’animo prima dell’ironia su se stessa, quindi di un cinico egoismo. Ma, cosa ancora peggiore, priva dell’arte le grandi azioni: impedisce di “trattenere” il sublime di cui esse sono foriere e da cui sono state originate: «Ancora non è finita la guerra, e essa è già convertita in carta stampata in centomila copie» (oggi alcuni sociologi della comunicazione e alcuni informatici stigmatizzano la cosiddetta società dell’informazione proprio a causa della febbricitante velocità con cui anche gli eventi più banali diventano notizia – spesso quando sono ancora in fieri – e vengono sottoposti ad estenuanti e improduttive analisi. Così come, secondo Nietzsche, l’eccesso di storia non serve la vita e non alimenta la cultura – quella vera e non il sapere intorno alla cultura – anche «l’informazione non necessariamente genera servizi e cultura». Proprio da questo assunto prende le mosse una ricerca, realizzata in seguito alla stipula di un accordo fra la Regione Toscana e il Dipartimento di Informatica dell’Università di Pisa, intitolata Visione della Società dell’Informazione).

Non serve storicizzare sempre e storicizzare tutto. A lungo andare accadrebbe ciò che accade nelle scienze naturali in cui si accumulano «esperimenti su esperimenti, quando già da gran tempo la legge può essere ricavata dal patrimonio di esperimenti esistente». La «febbre storica divorante» sfianca l’uomo: lo indebolisce, lo rende esitante e insicuro. Non gli resta altro che ripiegare sul proprio interno patrimonio di pietre del sapere – «l’erudizione che non diventa vita» – e indossare la maschera dell’uomo colto, dello scienziato, del poeta, del politico. In altre parole: rinunciare a vivere. Il senso storico incontrollato sradica inoltre il futuro perché distrugge le illusioni. ‘Analizzare storicamente’ equivale infatti a ‘distruggere’ e ‘uccidere’, a maggior ragione quando viene analiticamente sezionato ciò che non è ancora affatto esaurito.

Eppure esistono storici che percepiscono l’assurdità insita nel credere che l’educazione di un popolo debba essere storica fino a tal punto. Essi dimostrano di possedere una coscienza ironica, ovvero un «fluttuante presentimento che qui non ci sia da esultare, una paura che forse presto sarà finita per ogni divertimento della conoscenza storica», forse perché credono che l’umanità sia vecchia (altrimenti non farebbero storia). Ma «entro questa paralizzante credenza in un’umanità che già appassisce, non si nasconde piuttosto il malinteso di una concezione cristiano-teologica ereditata dal Medioevo, il pensiero di una fine del mondo vicina, di un giudizio angosciosamente atteso?». La storia assume dunque i connotati di una teologia camuffata (nello scritto filo-wagneriano Nietzsche usa le parole «teodicea cristiana camuffata» che serve «allo scopo cui oggi essa è destinata, quello cioè di essere un oppio contro ogni elemento di rivoluzione e di rinnovamento». Su tale teodicea ripiegano – anche ironicamente – quanti pensano «che sia molto bene così, come ormai tutto è andato»), il cui memento mori ha resistito (e continua a resistere) al punto che ancora non è stato rimpiazzato dal memento vivere che avrebbe dovuto sostituirglisi dall’età convenzionalmente ritenuta moderna.

Paradossalmente il sapere deve poi risolvere il problema di se stesso: l’origine della cultura storica deve essa stessa essere riconosciuta storicamente. Talvolta pensare di essere epigoni di qualcosa che è stato grande (dopo aver con equilibrio riconosciuto e definito storicamente quel ‘quid che è stato grande’) «può garantire tanto all’individuo quanto a un popolo grandi risultati e un desiderio del futuro ricco di speranza». Quanti si ritengono epigoni potrebbero allora fondare una nuova generazione, trasformandosi da epigoni in anticipatori.

Fondare una nuova generazione è difficile. Si oppone a una tale operazione la citata coscienza ironica che non soltanto riconosce nella contemporaneità il crepuscolo del mondo (precludendosi la possibilità di pensare ancora al futuro e di lavorare per esso), ma finisce per affermare che quanto è accaduto non potrebbe mai essere accaduto in altro modo. L’ironia diventa cinismo. Il cinico infatti pratica «il pieno abbandono della personalità al processo del mondo», vedendolo superbamente compiuto in se stesso, quasi a dire «noi siamo la natura compiuta» (al pari dei Tedeschi che si ritengono discendenti ed epigoni della cultura classica).

Arthur Hacker RA (1858 - 1919),
Vae Victus! The Sack of Morrocco by the Almohades,
Woe to the Vanquished 1890
From http://www.brokenhill.net.au/bhart/collection.html
Dopodichè regnerà la nausea verso tutto, come osserverebbe acutamente Hartmann in Filosofia dell’inconscio, secondo l’interpretazione nietzschiana. In tale scritto Hartmann definisce i connotati di quella che chiama ‘età virile’: l’età a cui si avvicina l’essere umano moderno. In simile età «ci sarà ormai soltanto “solida mediocrità” e l’arte sarà ciò che “di sera è la farsa per l’agente di borsa berlinese”». Lo sviluppo sociale sarà giunto a quello stadio «in cui ogni lavoratore, “con un orario di lavoro che gli lascia ozio sufficiente per la sua formazione intellettuale, conduce una comoda esistenza”». L’uomo dell’età virile diventa progressivamente un vecchio: tale è chi abbandona la propria personalità al processo del mondo col pretesto che, alla fine, il mondo potrà essere redento. Simili vecchi tolgono il posto ai giovani. Sarebbe quindi auspicabile che il mondo se ne liberasse.

Nietzsche arriva dunque alla conclusione dichiarando di avere portato avanti una protesta contro l’educazione storica della gioventù del suo tempo. Si augura che prima o poi i Tedeschi si accorgano che la loro non è stata una cultura, ma un falso e superficiale sapere attorno alla cultura, se è vero che la cultura stessa può fiorire solo dalla vita e che l’uomo di scienza non è libero e non è neanche colto.

«Che un’educazione con quella meta e con questo risultato sia un’educazione contro-natura, lo sente solo l’uomo che non si sia ancora appieno formato in essa, lo sente solo l’istinto della gioventù, perché essa ha ancora l’istinto della natura, che solo artificialmente e violentemente viene spezzato da quell’educazione. Ma chi vuole a sua volta spezzare quest’educazione, deve aiutare la gioventù a parlare. […] Ma come può raggiungere uno scopo così stupefacente?». Innanzitutto distruggendo qualsiasi operazione educativa finalizzata a creare l’uomo colto. Nietzsche allude polemicamente alla letteratura sull’istruzione superiore da cui si evincerebbe che il giovane inizia la sua formazione con un sapere intorno alla cultura, spacciato per sapere storico. Il giovane deve cioè innanzitutto apprendere che deve partire dalla vita e che il sapere storico, o spacciato per tale, è soltanto un sapere riflesso (veementi attacchi contro il ‘sapere intorno alla cultura’ possono essere anche letti in GEORGE STEINER, Vere presenze. Contro la cultura del commento, una difesa del significato dell’arte e della creazione poetica, Garzanti, 1999. Attacchi ancora più interessanti se letti alla luce di un’affermazione ricavabile dalla prefazione all’edizione italiana: «Io rifiuto totalmente l’anti-storicismo poststrutturalista e decostruzionista. Non credo che possa esistere una qualsiasi esperienza seria della letteratura che non sia radicata nel contesto storico-sociale […] dell’artista, poeta o compositore»).

Liberato dalle catene del sapere intorno alla cultura, il giovane non è ancora guarito: l’eccesso di storia ha infatti intaccato «la forza plastica della vita» rendendola incapace di servirsi del passato come di un valido nutrimento. Ma il giovane, proprio perché non ancora avvezzo a lasciarsi dilaniare dai morsi della divorante fame storica, conosce due rimedi: l’antistorico e il sovrastorico. ‘Antistorico’ è «la forza e l’arte di poter dimenticare e di rinchiudersi in un orizzonte limitato»; ‘sovrastorico’ quanto distoglie «lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile, all’arte e alla religione». La gioventù armata di antistorico e di sovrastorico può operare per la vita ed essere una generazione anticipatrice, proprio come furono i Greci. E guardare alla storia come i Greci guardavano al mito: «qualcosa su cui si forma e si poeta, con amore e con una certa timorosa devozione sì, ma anche col diritto di sovranità del creatore» (ancora da Richard Wagner a Bayreuth).

Un secolo dopo Eric J. Hobsbawm (Il secolo breve. 1914-1991, Milano, 1995) decide di tornare indietro e di costituire il contraltare di Nietzsche, affermando che la gioventù (ovviamente quella della fine del XX secolo) vive in una sorta di perenne presente. Lamenta che essa ha perduto il senso dei rapporti che legano il proprio presente al passato storico. Non la considera colpevole di superficialità o di noncuranza: piuttosto riterrà responsabili una società e una “cultura” che – passando da esperienze quali la fine dell’eurocentrismo, la globalizzazione, il confronto-scontro fra capitalismo e comunismo, e l’elenco potrebbe allungarsi – hanno distrutto i meccanismi sociali in grado di mantenere vivi i rapporti fra passato e presente. In un “desolato” quadro di tal fatta, il ruolo dello storico, per Hobsbawn, emerge più potentemente: egli non ha soltanto il compito di ricostruire il passato, ma anche quello (paragonabile a una missione) di ricordare ciò che i giovani non conoscono o hanno dimenticato. Il compito diventa allora ancora più necessario alla società di quanto non lo sia stato nei secoli precedenti. Esso deve essere assolto non soltanto attraverso la compilazione di memorie, ma attraverso un’azione che faccia emergere il senso e il potenziale educativo di quelle stesse memorie.

Ma è tardi: l’hacking nietzschiano ha ormai i suoi proseliti, me compreso.

Ivo Flavio Abela

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