mercoledì 3 luglio 2013

Quando Bulgakov vendette l'anima al diavolo

Dalla metà degli anni Venti del Novecento la Russia registra una produzione di narrazioni storiche che inizia con i romanzi di Jurij Tynjanov e s’infittisce sotto Stalin, quando viene assecondata, strumentalizzata politicamente e usata per celebrare grandi personaggi che si distaccano dalle masse, surclassandole. Tale produzione veicola una concezione della Storia intesa come complesso di azioni compiute solo da grandi uomini. Le masse vi restano a fare da sottofondo non necessario e trasfuso occasionalmente in una sorta di voce impersonale dal timbro monocorde e indistinto.

È un passo indietro, se si considerano le vette raggiunte dalla narrazione storica nel secolo precedente in particolare con «Guerra e pace» di Tolstoj (che devo ancora una volta citare su questo blog): trattato storiografico (ancor più che romanzo) sulla spedizione napoleonica in Russia, dal quale si evince peraltro che il progetto di Napoleone fallì perché il Bonaparte fu annientato da un’anima russa incarnata in tutti i figli della Santa Madre Russia – a prescindere dalla loro estrazione sociale – capaci di opporre una consapevole e corale resistenza.

George Dawe
«Ritratto di Alexander P. Kutúzov»
Hermitage Museum
Per certi versi – semmai – la Storia presovietica può anche fare a meno delle grandi personalità. Per fare un esempio, a proposito del generale Kutúzov lo stesso Tolstoj racconta che – ad onta delle cause ipotizzate dagli storiografi – egli «non capiva che cosa volessero dire l'Europa, l'equilibrio, Napoleone. Non lo poteva capire. Al rappresentante del popolo russo ora che il nemico era stato distrutto, la Russia liberata e posta al massimo della gloria, al russo come russo non restava più nulla da fare. Al rappresentante della guerra nazionale non restava altro che la morte. Ed egli morì» («Guerra e pace», Einaudi, 1955, II, 577). La Storia non aveva più bisogno di lui.

Michail Bulgakov, contemporaneo di Jurij Tynjanov, aderisce (forse inconsapevolmente?) all’idea di una Storia fatta da grandi personalità. Ma lo fa in modo profondamente originale. Il “grande uomo” del suo capolavoro («Il maestro e Margherita») non è – per usare un gioco di parole – un uomo, ma una creatura che domina un mondo oscuro e soprannaturale: Satana. Perché Satana è Stalin. Bulgakov impiega dodici anni per scrivere il romanzo e non arriva neanche a vederne la pubblicazione. Detesta Mosca: un microcosmo in cui dominano la corruzione, l’intolleranza, l’assenza di libertà (d'espressione innanzitutto), specchio di una Russia vessata dal regime stalinista che procede a forza di epurazioni (quelle stesse epurazioni che nel romanzo Bulgakov trasforma in scomparse improvvise, misteriose e inspiegabili), di divieti, di minacce, complici in fondo (sebbene si tratti di complicità dettata spesso dalla necessità) le delazioni perpetrate dagli stessi russi a danno dei propri simili per sottrarre loro un alloggio (lo stesso Stalin-Satana del romanzo ricorre all’imbroglio per stabilirsi nell’appartamento del defunto Berlioz. In «Cuore di cane» il “comitato dei condomini” fa del resto di tutto per sottrarre qualche camera al dottor Preobrazenskij, proprietario dell'appartamento dove avvengono le due metamorfosi di Poligraf Poligrafovic, l’uomo-cane). Ed è una Mosca intrisa di vigliaccheria: quella stessa che Bulgakov ravvisa in Ponzio Pilato (le cui azioni permeano uno dei due piani narrativi che s’intrecciano nel romanzo «Il maestro e Margherita»). A Mosca Bulgakov è un emarginato: vi diviene oggetto di spietate e crudeli attacchi (v’è chi addirittura ne stigmatizza il sentire da neoborghese, la cui testa andrebbe sbattuta contro la tazza del cesso). Tutti i critici conniventi col regime di Stalin lo stroncano e gli impediscono di fare l’unica cosa che egli ritiene di sapere fare bene: scrivere.

Bulgakov arriva a inviare una lettera a Stalin. Nella lettera spiega al dittatore che per lui è impossibile vivere a Mosca come un reietto. La sua richiesta è chiara: «Esiliami oppure – se proprio non vuoi – lascia che io viva dignitosamente qui, permettendomi di lavorare presso il Teatro» (il Teatro dell’Arte). Stalin – contro ogni previsione – gli telefona e gli promette che egli lavorerà in quel Teatro. Bulgakov scende insomma a patti col diavolo: un diavolo che toglie e che dà secondo i propri capricci, un dittatore “generoso” per calcolo proprio come quel Satana che accetta di concedere al Maestro e a Margherita – nel romanzo – una pace borghese.

Il dramma vero di Bulgakov nasce dunque nel momento in cui egli si rende conto del fatto che la Storia – quasi fisiologicamente – è fatta da tutti: dai grandi uomini come da quelli più insignificanti. E alla Storia nessuno può sottrarsi al punto da scegliere il male minore (vendere l’anima al diavolo) pur di potere collocarvisi senza patire. Scrivere diviene esigenza ancora più pressante (e più frustrato è chi si vede condannato a non poterlo fare): è un atto liberatorio, risarcitorio, capace addirittura di ricomporre i più lancinanti e millenari dissidi, quali quello fra Cristo e Ponzio Pilato.

Ivo Flavio Abela

Michail Afanas'evič Bulgakov

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