«Qualcosa di più dell'amore» (Neri Pozza, 2012. Titolo originale «Just send me word») narra una vicenda ricostruita mediante un carteggio di circa millecinquecento lettere. Rimaste negli archivi del KGB, furono ritrovate da Orlando Figes all'interno di tre bauli consegnati al Memoriale. Lo studioso è riuscito a ricostruire anche gli antefatti e a rintracciare i protagonisti.
È il 1935. Lev Miščenko e Svetlana Ivanov (o Sveta, come Lev preferisce chiamarla) s'incontrano nel cortile dell'Università di Mosca. Entrambi frequentano la Facoltà di Fisica. Sveta è una delle pochissime donne - solo sei - ammesse alla frequenza dei corsi. È dotata di una bellezza discreta, di una grande intelligenza e di una bella voce (canta anche nel coro studentesco). Lev ha un viso adolescenziale da cui emergono gli occhi chiari e la bocca carnosa. I due iniziano a darsi appuntamento sempre più spesso e condividono speranze e passioni. Il loro rapporto cresce al punto che Lev finisce per frequentare abitualmente la famiglia di Sveta. Gli Ivanov vivono in una casa quasi bella: «Un appartamento a se stante con due ampie camere e una cucina, un lusso quasi sconosciuto nella Mosca di Stalin, dove gli appartamenti comuni con una famiglia per stanza e una cucina e un bagno condivisi erano la norma [...] Con i suoi soffitti alti e i mobili antichi, casa Ivanov era come una minuscola isola della vecchia intelligencija russa nella capitale proletaria».
Lev, del resto, si affeziona sempre più agli Ivanov: trova in loro quel calore che gli è mancato presto, avendo perduto entrambi i genitori quando era bambino. Prima di morire erano stati arrestati dai bolscevichi poiché ritenuti collaboratori dei Bianchi. Lev era stato portato dalla nonna a far visita ad entrambi. Narra Figes a proposito delle visite alla mamma: «Andò a trovarla due volte. L'ultima volta lei gli offrì una ciotola di panna acida e zucchero che aveva acquistato dalle guardie per rendere quella visita memorabile». Non l'avrebbe più rivista neanche morta, per quanto presente al suo funerale: «Seduto su uno sgabello davanti alla bara aperta, Lev era troppo in basso per guardare dentro alla cassa e vedere il volto della madre [...] Ricorda (allora. N.d.r.) di aver pensato che il volto della Madre di Dio era uguale a quello di sua madre» (sembra quasi un'immagine "achmatoviana"). Pochi giorni dopo viene condotto dalla nonna nella stessa chiesa in cui s'è celebrato l'addio alla madre. Davanti all'iconostasi sono allineate le bare contenenti i cadaveri di dieci uomini uccisi dai bolscevichi, tra cui il padre di Lev. Il disorientamento del bambino, taciuto dall'autore ma ugualmente desumibile, richiama quello di un altro bambino posseduto da «un dolore muto», che afferra la camicia del padre defunto per difendersi dagli sguardi dei presenti e di cui ci parla Andrej Platonov in uno struggente passo del suo potente «Čevengur».
La Russia viene attaccata dalla Germania e Lev si arruola, ma cade prigioniero dei Tedeschi che lo internano a Buchenwald. Viene poi liberato e rientra in Russia, ma lo si accusa ingiustamente di tradimento a favore della Germania. Condannato a morte, la pena gli viene commutata in dieci anni di lavori forzati in Siberia, a Pečora, all'interno di uno di quei gulag che costituiscono il metaforico arcipelago. La vita nel gulag, dove d'inverno la temperatura raggiunge i -47°, viene efficacemente ricostruita attraverso i racconti di Lev che menziona anche una serie di interessanti personaggi. Di uno colpisce il cognome, cioè Preobraženskij: esisteva anche un Reggimento chiamato così. Ma il primo Preobraženskij al quale tutti pensiamo è forse il medico andrologo e ginecologo, proprietario di Pallino in «Cuore di cane» di Bulgakov. E poi Strelkov, uomo dotato di un'anima grande quanto la sua malattia. Una delle immagini che compaiono nel libro lo raffigura insieme al suo gatto sullo sfondo di una riproduzione del celebre «Gli alatori del Volga» di Il'ja Repin, che il regime sovietico aveva reinterpretato come simbolo dell'oppressione zarista.
Già dal momento in cui Lev s'è arruolato la comunicazione con Sveta è diventata problematica fino ad interrompersi. Un giorno Lev, dopo cinque anni dall'ultimo contatto con Svetlana, scrive dal confino alla zia nella speranza che quest'ultima riesca a procurarsi - e dunque a trasmettergli - alcune notizie su Sveta e gli Ivanov. Gli viene risposto che la ragazza sta bene e continua a vivere a Mosca. Lev teme che Sveta abbia conosciuto qualcun altro e dunque non vuole che la zia riveli a Sveta che egli è vivo: teme di rovinare la presunta serenità della donna. Ma Sveta è rimasta sempre fedele a Lev poiché non ha mai smesso di sperare di potere un giorno rivederlo. S'intreccia dunque fra i due una fittissima corrispondenza che coprirà gli anni fra il 1946 e il 1954: otto anni di parole - spesso in codice per ingannare la censura - che tengono in vita la speranza di riunirsi, sposarsi e mettere al mondo un figlio. Otto anni di paziente ed eroica attesa per entrambi. Ma Svetlana non s'accontenta di sapere che Lev è in vita e di leggerne le lettere. Approfittando dell'annuale viaggio di ricerca presso una fabbrica di pneumatici, riesce ad allungare il percorso in treno per raggiungere Pečora ed entrare clandestinamente nel campo di lavoro. I due riescono a trascorrere insieme poche ore. Gli incontri, sempre brevi, si ripeteranno una volta all'anno per tutto il periodo della detenzione di Lev, con una sola eccezione.
Che Orlando Figes fosse uno straordinario conoscitore della Russia in tutte le sue sfaccettature, ci era già noto soprattutto grazie a quel suo corposo saggio dal titolo «La danza di Nataša» (Einaudi, 2008). In esso Figes aveva coniugato la profondità e il rigore del ricercatore con un felice e accattivante piglio da narratore che si estrinsecava in inserti fluidi e intriganti (a titolo esemplificativo valgano quelli dedicati alle due più importanti famiglie aristocratiche russe dopo i Romanov: gli Šeremetev e i Volkonskij. Non a caso il suo saggio era stato definito «il romanzo della cultura russa»). L'avvincente «Qualcosa di più dell'amore» conferma la bravura di Figes: la voce del narratore si mescola alle righe vergate dai due tenaci protagonisti in un saggio storiografico abilmente mascherato da romanzo.
Ivo Flavio Abela
È il 1935. Lev Miščenko e Svetlana Ivanov (o Sveta, come Lev preferisce chiamarla) s'incontrano nel cortile dell'Università di Mosca. Entrambi frequentano la Facoltà di Fisica. Sveta è una delle pochissime donne - solo sei - ammesse alla frequenza dei corsi. È dotata di una bellezza discreta, di una grande intelligenza e di una bella voce (canta anche nel coro studentesco). Lev ha un viso adolescenziale da cui emergono gli occhi chiari e la bocca carnosa. I due iniziano a darsi appuntamento sempre più spesso e condividono speranze e passioni. Il loro rapporto cresce al punto che Lev finisce per frequentare abitualmente la famiglia di Sveta. Gli Ivanov vivono in una casa quasi bella: «Un appartamento a se stante con due ampie camere e una cucina, un lusso quasi sconosciuto nella Mosca di Stalin, dove gli appartamenti comuni con una famiglia per stanza e una cucina e un bagno condivisi erano la norma [...] Con i suoi soffitti alti e i mobili antichi, casa Ivanov era come una minuscola isola della vecchia intelligencija russa nella capitale proletaria».
Lev, del resto, si affeziona sempre più agli Ivanov: trova in loro quel calore che gli è mancato presto, avendo perduto entrambi i genitori quando era bambino. Prima di morire erano stati arrestati dai bolscevichi poiché ritenuti collaboratori dei Bianchi. Lev era stato portato dalla nonna a far visita ad entrambi. Narra Figes a proposito delle visite alla mamma: «Andò a trovarla due volte. L'ultima volta lei gli offrì una ciotola di panna acida e zucchero che aveva acquistato dalle guardie per rendere quella visita memorabile». Non l'avrebbe più rivista neanche morta, per quanto presente al suo funerale: «Seduto su uno sgabello davanti alla bara aperta, Lev era troppo in basso per guardare dentro alla cassa e vedere il volto della madre [...] Ricorda (allora. N.d.r.) di aver pensato che il volto della Madre di Dio era uguale a quello di sua madre» (sembra quasi un'immagine "achmatoviana"). Pochi giorni dopo viene condotto dalla nonna nella stessa chiesa in cui s'è celebrato l'addio alla madre. Davanti all'iconostasi sono allineate le bare contenenti i cadaveri di dieci uomini uccisi dai bolscevichi, tra cui il padre di Lev. Il disorientamento del bambino, taciuto dall'autore ma ugualmente desumibile, richiama quello di un altro bambino posseduto da «un dolore muto», che afferra la camicia del padre defunto per difendersi dagli sguardi dei presenti e di cui ci parla Andrej Platonov in uno struggente passo del suo potente «Čevengur».
Gli ormai anziani coniugi Lev e Svetlana Miščenko |
Già dal momento in cui Lev s'è arruolato la comunicazione con Sveta è diventata problematica fino ad interrompersi. Un giorno Lev, dopo cinque anni dall'ultimo contatto con Svetlana, scrive dal confino alla zia nella speranza che quest'ultima riesca a procurarsi - e dunque a trasmettergli - alcune notizie su Sveta e gli Ivanov. Gli viene risposto che la ragazza sta bene e continua a vivere a Mosca. Lev teme che Sveta abbia conosciuto qualcun altro e dunque non vuole che la zia riveli a Sveta che egli è vivo: teme di rovinare la presunta serenità della donna. Ma Sveta è rimasta sempre fedele a Lev poiché non ha mai smesso di sperare di potere un giorno rivederlo. S'intreccia dunque fra i due una fittissima corrispondenza che coprirà gli anni fra il 1946 e il 1954: otto anni di parole - spesso in codice per ingannare la censura - che tengono in vita la speranza di riunirsi, sposarsi e mettere al mondo un figlio. Otto anni di paziente ed eroica attesa per entrambi. Ma Svetlana non s'accontenta di sapere che Lev è in vita e di leggerne le lettere. Approfittando dell'annuale viaggio di ricerca presso una fabbrica di pneumatici, riesce ad allungare il percorso in treno per raggiungere Pečora ed entrare clandestinamente nel campo di lavoro. I due riescono a trascorrere insieme poche ore. Gli incontri, sempre brevi, si ripeteranno una volta all'anno per tutto il periodo della detenzione di Lev, con una sola eccezione.
Che Orlando Figes fosse uno straordinario conoscitore della Russia in tutte le sue sfaccettature, ci era già noto soprattutto grazie a quel suo corposo saggio dal titolo «La danza di Nataša» (Einaudi, 2008). In esso Figes aveva coniugato la profondità e il rigore del ricercatore con un felice e accattivante piglio da narratore che si estrinsecava in inserti fluidi e intriganti (a titolo esemplificativo valgano quelli dedicati alle due più importanti famiglie aristocratiche russe dopo i Romanov: gli Šeremetev e i Volkonskij. Non a caso il suo saggio era stato definito «il romanzo della cultura russa»). L'avvincente «Qualcosa di più dell'amore» conferma la bravura di Figes: la voce del narratore si mescola alle righe vergate dai due tenaci protagonisti in un saggio storiografico abilmente mascherato da romanzo.
Ivo Flavio Abela
La riproduzione di una pagina di «Qualcosa di più dell'amore». Bella testimonianza delle passioni di Lev e Svetlana: le lettere servivano a tenere vive pure queste |
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