sabato 29 luglio 2017

«Notte abissina» di Fabrizio Coscia a undici anni dalla pubblicazione

«Ricordava, mio padre, in quei giorni, la sua infanzia in Africa, le gite a cavallo, le feste spiate dal ballatoio del piano di sopra, il mito di Abebé Aregai?» dice Fabrizio Coscia nel suo «La bellezza che resta» (alla p. 31 e con riferimento a fatti esposti alle pp. 17-19). Spinto dalla curiosità in me suscitata da simili dettagli, ho deciso di leggere «Notte abissina» dello stesso autore, pubblicato nell'ormai lontano 2006 da Avagliano Editore. Già allora era peraltro una presenza forte nella vita del Coscia uomo e scrittore il padre, se è vero che il libro è dedicato a lui e dei suoi racconti - ascoltati da Fabrizio quand'era bambino - è nutrito. L'azione si sviluppa in ventiquattr'ore diluite nelle duecentosedici pagine che ci restituiscono il «ritratto dell'artista da giovane», cioè del Coscia alla lavorazione della sua opera prima. Il titolo joyciano è qui volutamente tirato in ballo non solo - lo vedremo più avanti - perché Fabrizio sembra un Dedalus che amava ascoltare i racconti del padre (ce lo ricorda anche nel già menzionato «La bellezza che resta»).

Il colonnello Domenico Meros (o Mimì, come spesso si lascia chiamare dalle figlie) vive nella residenza di un ras abissino ad Addis Abeba: una grande casa dotata di camere da letto, studio e bagno al piano superiore, di una notevole sala per ricevimenti al piano terreno, di uno splendido giardino maniacalmente curato da una delle figlie del colonnello. Sono in corso i preparativi per la festa dei diciott'anni di una di loro. A tali preparativi non partecipa la mamma che vive praticamente confinata nella sua camera da letto, in quanto affetta da una patologia mentale. Prima del trasferimento in Africa è addirittura rimasta ricoverata per ben cinque anni in una casa di cura ad Aversa.

Coscia procede in modo quasi circolare: dedica un lungo capitolo a ciascuno dei membri della famiglia (compreso il fratello spregiudicatamente donnaiolo di Domenico) a partire dal colonnello, narrando in prima persona secondo il punto di vista del singolo personaggio protagonista del capitolo, operazione implicante anche un costante e impegnativo adeguamento linguistico. Un trattamento diverso viene riservato ad Ester, la moglie mentalmente instabile di Mimì: tra un capitolo e l'altro s'inserisce appunto la donna con una sorta di volutamente monotono contrappunto - quasi uno stasimo da tragedia greca - che assume la forma di un flusso di coscienza (il pensiero corre a Molly Bloom. Del resto si è detto che il mio richiamo joyciano non riguardava soltanto il titolo dell'opera sopra menzionata). Tuttavia in tali flussi di coscienza una logica quantomeno tematica c'è: Ester sembra infatti costituire l'unica voce autonoma e lucida fra quelle cui Coscia dà consistenza; i suoi deliri, nutriti di espressioni bibliche (anzi proprio apocalittiche), sembrano il prodotto di un'ineffabile percezione non solo della tragedia che le pretese imperialistiche del regime fascista sono destinate a subire, ma anche del dramma personale che - in modo completamente inconsapevole, con menti anestetizzate, dormienti, appannate - alcuni componenti della famiglia si avviano a vivere.

I destini, i pensieri, le ansie, i desideri, i capricci, i giochi dei membri della famiglia Meros si integrano, in un dinamico quadro d'insieme, nell'ultimo lungo capitolo. Qui Coscia, da narratore onnisciente, racconta la festa (ma attenzione al finale in cui torna il colonnello che del resto ha aperto la serie dei capitoli). E lo fa con tono e stilemi che ci fanno pensare a certe grandi scene corali di stampo tolstojano o lampedusiano: si pensi, per esempio, alla cura quasi didascalica con cui vengono sciorinati i nomi francesi dei numeri e delle figure del ballo, al piglio con cui vengono riportati i dialoghi, ai dettagli dell'abbigliamento delle signore. Del resto, se si torna indietro di alcune pagine, si nota che i passatempi in comitiva dei giovani Meros evocano certe parti de «Il giardino dei Finzi-Contini» di Giorgio Bassani, se non addirittura alcune scene dell'omonimo film diretto da De Sica nel 1970. E nelle caotiche riflessioni di Ester appare pure il «latte nero»: chiara citazione da un noto testo di Paul Célan; anche la giustapposizione di alcune immagini verbali prodotte dalla lucidamente dissennata mente di Ester sembra ispirata a quella dello stesso componimento del problematico e affascinante poeta.

Sul retro di copertina alcune righe di Erri De Luca che sembrano (ahimè) scritte più per se stesso che per il pubblico dei lettori, sebbene lusinghiere. Conclusa la lettura, ho la sensazione che «Notte abissina» sia un esperimento molto interessante (sono veramente lieto d'averlo letto): di certo lontanissimo dai più recenti «Soli eravamo» e «La bellezza che resta» (e non solo perché afferente a un genere completamente altro), ma appassionante, orchestrato con rigore ferreo e soprattutto scritto con grande perizia linguistica. Non so se l'autore sia contento del fatto che un lettore curioso abbia riesumato la sua opera prima. Ma io parto dal presupposto che Fabrizio Coscia sappia bene che «una volta che sia stato scritto, ogni discorso circola ovunque» (Platone, «Fedro», 275). Non me ne vorrà sicuramente.

Ivo Flavio Abela

N.B. Su questo stesso blog sono presenti le mie recensioni relative a «Soli eravamo» (http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2015/07/soli-eravamo-di-fabrizio-coscia.html) e a «La bellezza che resta» (http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2017/04/familiarizzarsi-con-la-morte-la.html e ancora http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2017/06/studio-n-2-su-la-bellezza-che-resta-di.html).

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