A Fiesole, nella casa di famiglia, è appena morto un personaggio di grande rilievo: una sorta di JFK locale. I suoi tre figli presenziano ai riti funebri e alla sepoltura indossando tre maschere: J quella di un lupo bianco che gli si attaglia con precisione al capo («Vuoi vedere che la domestica che papà mi mandava a sue spese, per rendere casa mia più vivibile, ha forse pure preso le misure del mio cranio, magari mentre io ero assopito?»), Sara la maschera di una giraffa marrone, Riccardo (il grassoccio di famiglia) quella di un colibrì. Non si è invece presentato Federico, il quarto figlio del defunto, avuto da un'altra donna, che vive ormai in Giappone dove s'è sposato e ha messo al mondo un esserino dagli occhi presumibilmente a mandorla. Ma è pur vero che Federico è l'unico che ha avuto il coraggio di salvarsi mediante la fuga.
Le tre maschere sono state progettate e fatte realizzare dal defunto. Il suo testamento, del resto, è stato chiaro: ben poco o quasi per nulla centrato sull'eredità, ordinava ai figli l'uso delle maschere per l'estremo saluto. Una strategia atta a controllare ossessivamente i figli anche in morte? Forse sì. Ma anche finalizzata a metterli in ridicolo al cospetto delle tante persone che avrebbero reso omaggio al cadavere, peraltro tappandosi le orecchie. Già: perché, attraverso un rictus ovale sulla bocca, il morto non ha mai smesso di emettere un sibilo sardonicamente disturbante che ha costretto addirittura i figli, già in ambasce per l'assurdo travestimento loro imposto, ad usare i tappi per le orecchie. Finalmente la sepoltura ha risolto il problema: dopo la scena madre che ha visto protagonista Sara, decisa a interpretare il ruolo della figlia straziata dal dolore, urlante per lo sconforto, addirittura piegata con tutto il suo corpo in due a ridosso della bara (Riccardo ha invece ripiegato su un rito apotropaicamente più liberatorio: sputare contro tutti dal finestrino della vecchia Mercedes di famiglia), il sibilo è andato gradualmente riducendosi man mano che la bara veniva - «finalmente» sarebbe il caso di dire - occultata. E proprio quella morte che s'insinua subdolamente nella vita della famiglia di J sembra avere l'ultima parola: prima si manifesta attraverso l'ormai inflazionata sigla RIP (costituita da R e P, iniziali del nome e del cognome che Riccardo da bambino aveva impresso sulla pelle della Mercedes, proprio ai lati di una cucitura verticale della pelle stessa che, in tal modo, finiva per fungere da I), poi attraverso gli oggetti di famiglia destinati ad essere custoditi dal narratore in quella necro-fissità tipica dei contesti familiari asfittici (perché una cogente figura paterna ne ha combusto tutto l'ossigeno possibile).
Ecco il contenuto del primo dei dieci racconti che costituiscono la raccolta «Il grande regno dell'emergenza» (LiberAria Editrice, 2016). E non è forse un caso che proprio «I nostri oggetti paterni» sia posto ad incipit del florilegio e che ad esso rimandino le stilizzate e graziose immagini di copertina di Vincenza Peschechera. In verità i dieci testi, scritti fra il 2009 e il 2015, erano già apparsi sulla pagina fiorentina del «Corriere della Sera», sull'edizione toscana di «Repubblica», su «Nazione indiana», ed erano stati accolti in un paio di antologie.
Le citazioni finora discusse appaiono coerenti con il tema dell'emergenza che del resto sembra tenere uniti i dieci racconti: è emergenza quella in cui ci si trova quando, in seguito alla morte di una persona a noi legata, viviamo la necessità di gestire fatti compiuti e situazioni imposteci; quella del fronteggiare la vita in comune con una compagna della quale nulla o poco si sa; è emergenza il cambio di abitazione, il terremoto (soprattutto se fa tremare una scuola piena di ragazzini, tra cui la dodicenne per la quale prova un trasporto erotico un uomo adulto. E sarebbe emergenza davvero terribile se ciò diventasse palese in società).
César Vallejo |
«L'uomo è un abominevole mammifero che si pettina» si legge in esergo. La citazione è tratta da César Vallejo, amatissimo da chi scrive il presente testo, reputato da Thomas Merton «il più grande poeta universale dopo Dante», morto a Parigi nel 1938 e sepolto a Montparnasse. Fu amatissimo pure dalla sinistra ispanofona, da José Augustín Goytisolo, da Pasolini (e pure da Enrique Irazoqui, il protagonista del «Vangelo secondo Matteo»), anche per quella continua ricerca della felicità - di base ideologica pure quando assumeva la forma di una ricerca esistenziale - che traspare dai suoi versi, felicità che gli era stata negata in terra peruviana (si pensi alla celebre «Oggi vorrei esser felice volentieri»). I rimandi e le citazioni in un testo non sono mai dati neutri, ma ci restituiscono anche il substrato "formativo" dell'autore. Non mi sembra dunque casuale il fatto che siano stati chiamati in causa Vallejo e altre personalità, come quella di Ron Mueck, autore di gigantesche, iperrealistiche sculture in polivinile e in resina destinate a fissare, come in un'istantanea terribilmente concreta, il titanismo spirante anche dalla più banale espressione, dal più corrivo gesto, dal tratto più ordinario di ogni essere umano. Sembrano assumere la consistenza delle opere di Mueck gli esseri pullulanti in un'afosa Firenze, le cui epidermidi degenerano fino a far sì che essi appaiano (con uno sguardo a volo d'uccello) «sbucciati dal sole» nel secondo racconto, cioè in «Romanzo da spiaggia». Ed allora più inafferrabile e straniante/straniata appare anche la protagonista del racconto: una guida turistica con trascorsi di studio e di lavoro nel mondo anglosassone, che adesso ha scelto di convivere all'interno di una tenda, in riva all'Arno, con Andrea (nome sessualmente più ambiguo non avrebbe potuto scegliere Raveggi, al punto che inizialmente il lettore pensa si tratti di un uomo).
José Emilio Pacheco |
I richiami non finiscono. Nell'esergo del terzo racconto («Qualcosa nell'oscurità») si leggono le parole di José Emilio Pacheco (che del resto scrisse versi - a parere di chi sta vergando queste righe - adattissimi anche alla protagonista del racconto «Romanzo da spiaggia». Pensiamo ai seguenti: «Anche se uno esiste per gli altri / (senza di loro è inesistente), / conta soltanto la solitudine / per dirle tutto e fare i conti»). L'ultima raccolta poetica di Pacheco fu data alle stampe nel 2009, ovvero cinque prima della morte avvenuta nel 2014. In essa il poeta manifestava anche il dissidio interiore dell'uomo condannato a vivere in una terra che non gli appartiene (o meglio, a cui egli non appartiene): la stessa condizione in cui versa il protagonista proprio del terzo racconto, che addirittura sceglie - con un cinismo deciso, ancorché non conclamato - di affidare a una famiglia di tedeschi il cane che ha tenuto con sé per qualche mese. Ed è proprio la condizione del cane che risulta simbolica di quella dell'uomo il quale, sradicato dal proprio contesto, s'adatta a vivere in un luogo o in un altro, accontentandosi delle metaforiche carezze che gli offrono quanti incontra lungo la propria strada. E sempre a proposito di riferimenti, ve n'è pure uno a Lucio Cabañas Barrientos (1938 - 1974), per il quale fu composto un corrido (ovvero un canto sullo schema della ballata tradizionale messicana) dopo il suo suicidio compiuto il 2 dicembre 1974, allo scopo di non cadere nelle mani delle forze militari governative a Técpan de Galeada, dove s'era imboscato insieme ad alcuni membri del Partido de los pobres da lui fondato. Nello stesso racconto viene operata una singolare sostituzione tra lui ed Eugenio Montale (sebbene quest'ultimo risulti vincente).
Una scultura di Ron Muech |
Hanno risvolti emergenziali il profluvio di libri di giovani scrittori destinati a decomporsi nell'oblio (quello degli aspetti deteriori di ciò che ruota attorno all'odierna editoria sembra, del resto, tema che inizia ad essere affrontato in modo sempre più diretto: si pensi al bellissimo «La Magnifica» di Arnaldo Colasanti), le pretese di un'ex moglie che vuole portare definitivamente via il figlio all'ex marito, paradossalmente anche la «molta fame» degli Alleati che liberano una Firenze bombardata, la presenza di una donna con addosso un «vestito che rivela un seno cadente e vizzo, le insenature del suo ventre ancora coperto di macchie, che diventano, prosciugandosi, fasce azzurrognole sul pube femminile incanutito» (tanto più che questo singolare personaggio assume, nell'ottica del narratore, l'identità della Parca che forse è giunta per recidere il filo della sua vita).
E tutto ciò viene trattato mediante una lingua fortemente cerebrale, chirurgica, a tratti artatamente calcolata e densa di cervellotici traslati. Ci troviamo insomma al cospetto di dieci narrazioni brevi (per un totale di centotrentasei pagine, indice compreso), ma ciò non significa che leggerle sia esattamente un'operazione ludica o spensierata, se anche un atto come la minzione - ammesso che ad essa alluda l'autore con espressioni ambiguamente criptiche che più criptiche non si può - diventa una «proiezione liberante, senza additivi o barbiturici, tenendosi le meningi come i superuomini, che cambiano in un vortice mentale le crepe della vita», peraltro compiuta «in un angolo piastrellato di rivincita personale». Ovviamente absit iniuria verbis.
Ivo Flavio Abela
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