domenica 19 novembre 2017

«Il desiderio e la ricerca del tutto». Per Frederick Rolfe l'anima gemella esiste

Frederick Rolfe (1860 - 1913) fu un ironico, intelligente, colto scrittore inglese, innamorato dell'Italia e di Venezia. Cercò di diventare prete, ma l'impresa (perché tale si rivelò) gli fu resa quasi impossibile da chi reputava la sua condotta moralmente discutibile e non adeguata ad un ministro di Dio, a causa della sua non sempre occultata omosessualità. «Il desiderio e la ricerca del tutto» (Castelvecchi, 2014) è un romanzo che si potrebbe anche definire brillante per l'ironica verve narrativa di Rolfe. Il titolo è tratto da un passo del «Simposio» platonico (193): «Il desiderio e la ricerca del tutto è detto Amore», del resto posto in esergo ad apertura. E tale platonica scelta non è certo casuale: Nicholas e Gilda, i protagonisti, s'incontrano e le loro vite si saldano grazie ad un patto che i due stringono verbalmente. Ma l'incontro non sembra casuale: ciascuno di loro è la metà di un intero; essi sono la prova di quanto narrato da Aristofane nel citato dialogo platonico a proposito dell'invidia di Zeus che, indignato dallo stato di perfezione in cui l'essere umano viveva, lo spaccò in due, condannando ciascuna delle due parti così ottenute all'infelicità e alla talvolta perenne ricerca del proprio complemento. Solo ricongiungendosi con l'altra, ciascuna delle due metà può restaurare lo stato di beatitudine distrutto dall'intervento divino.

Nicholas, proprio come Rolfe, è uno scrittore che ha invano seguito la via del sacerdozio, ma da superiori e maestri è sempre stato ritenuto inadatto ad abbracciare tale ufficio. Ha dunque scelto di imporre a se stesso vent'anni di continuo esercizio del celibato per dimostrare di poter essere un ottimo prete. La narrazione prende cronologicamente le mosse dagli ultimi mesi di tale ventennio, cioè quando il limite del periodo di astensione dal matrimonio e dalle relazioni sentimentali sta per scadere (dettaglio che si rivela determinante anche per l'intero apparato drammaturgico del romanzo, come si noterà alla fine). Procuratosi un'imbarcazione definita nel gergo marinaresco «topo di mare» (dotata di una cabina posta al centro del ponte, di altri due piccoli corpi coperti e disposti alle estremità, uno dei quali funge da dispensa), salpato da Venezia, doppiate le coste meridionali della penisola, attraversa lo Stretto di Messina come una sorta di nuovo Ulisse (Rolfe è scrittore colto e indulge spesso a riferimenti mitologici, greci e latini. Nello specifico a Scilla e Cariddi).

Frederick Rolfe
Mentre il topo di mare è ancorato lungo la costa della Calabria, Nicholas sente che la barca viene di colpo sollevata, come se il mare stesse crescendo di livello; avverte quindi la nitida sensazione di sprofondare. Non sa ancora che quegli strani movimenti delle acque sono stati conseguenza del famigerato terremoto del 1908: insomma il maremoto, conseguente al sisma, che demolì, abbattendosi con forza contro di essa, la cosiddetta «palazzata» messinese (cioè la teoria di edifici residenziali magnifici esteticamente, ma strutturalmente fragili che si affacciava sul mare dalle parti dell'odierna Ganzirri). Disceso all'alba sulla terra ferma, Nicholas penetra nella casa di campagna di un'onesta famiglia i cui membri risultano tutti morti, eccetto uno che è soltanto privo di sensi: un giovane di circa sedici anni completamente nudo, di statura alta e slanciata, dalla struttura muscolare forte e vigorosa, dotato di una pelle bella e levigata. Il suo torace tornito sembra quello di qualsiasi sedicenne che non risparmia le proprie forze nel lavoro manuale. Però, a ben vedere, sembra formare due timidi seni di donna, magari non molto pronunciati, se è vero che possono essere scambiati per due pettorali piuttosto turgidi. E del resto un dettaglio denuncia che quello non è un ragazzo, ma una giovane donna.

Nicholas trascina faticosamente la giovane sulla barca, la colloca distesa sul proprio giaciglio, tira fuori alcuni indumenti puliti per lei ed esce dalla cabina deciso ad attendere pazientemente il risveglio di quella splendida creatura. La giovane si riprende, si alza, indossa gli indumenti, va incontro al suo salvatore. Di lei emergono subito l'intelligenza, la bontà, il senso di giustizia e di responsabilità, l'onestà. Nicholas, tuttavia, non vuole lasciarsi coinvolgere da momentanei cedimenti emotivi e invita la giovane a tornare sulla terra ferma (sa infatti che i soccorsi per le vittime del sisma stanno arrivando). La giovane si piega all'invito, ma - proprio quando meno Nicholas se l'aspetta - ella si ripresenta sulla sua barca e lo implora di concederle di rimanere con lui. Gli promette che lo servirà con fedeltà e che lo proteggerà da qualsiasi male. Nicholas accetta. In fondo quella rassicurante compagnia non gli dispiace. Pur valentissimo in qualità di scrittore, ha già patito perché i suoi meriti non sempre sono stati riconosciuti. E poi perché truffato da due avvocati che, impegnatisi ad amministrare i suoi beni e a gestire anche i proventi della vendita dei suoi libri, non hanno rispettato gli impegni e si sono pure resi irreperibili.

Insieme Nicholas e Zildo (così d'ora in avanti Rolfe chiama sempre la giovane, cioè col diminutivo veneziano di Ermenegilda, ma nella forma maschile, quasi a rendere più palpabile l'atmosfera di debordante ambiguità che la creatura riesce incolpevolmente a creare intorno a sé) raggiungono Venezia in treno. Nicholas ha infatti preferito pagare due uomini affinché portassero il topo di mare a Venezia, volendo finalmente rinunciare ai disagi di un lungo e stancante viaggio di ritorno per mare. Pervenuti a destinazione, i due raggiungono l'albergo in cui Nicholas è solito alloggiare quando si trova in città. Dopo una prima delusione dovuta al fatto che Nicholas trova già occupata la camera che gli è sempre stata riservata e deve dunque accontentarsi di una diversa soluzione, egli (spinto pure dall'ammirazione e dall'affetto che inizia a provare per Zildo) compra al "ragazzo" abiti da gondoliere, affitta un piccolo e dignitoso appartamento nel quale Zildo stesso potrà vivere, anzi anticipa per lui pure il pagamento dell'affitto di dodici mesi. Nicholas è in verità un uomo spigoloso, talvolta asociale, privo di diplomazia, ma solo perché nemico dell'ipocrisia e dei falsi cerimoniosi costumi sociali. Ma è buono ed è sempre pronto ad agire in difesa e a protezione dei più deboli. Zildo diventa del resto il gondoliere (nessuno riuscirà mai a sospettare che egli sia invece una ragazza) della nuova imbarcazione, simile a una gondola, che Nicholas decide di acquistare e che i veneziani chiamano «pupparìn». Zildo, del resto, finisce poi per conoscere una giovane e simpatica donna americana e la porta in giro per la laguna. La turista, colpita dalla disponibilità e dalla gentilezza di Zildo, gli dice che è disposta a ricompensarlo in qualsiasi modo egli voglia. Zildo si limita a chiederle la collana di perline che ella porta al collo. Ritiene infatti di essere in grado di realizzarne di simili. La donna gli regala la collana e Zildo inizia a procurarsi le perline di cristallo e tutto l'occorrente per realizzare collane, dopo averne disegnato i modelli su uno speciale tipo di carta quadrettata, una risma della quale gli è stata regalata dal padrone.

Dal canto suo lo scrittore si procura subito alcuni nemici: la sua totale assenza di ipocrisia, scambiata evidentemente per quella forma di altera superbia sprezzante che risulta agli occhi della società ancora più perniciosa e offensiva se esercitata nei confronti di chi conta, porta alcuni immorali individui che agiscono nell'ombra, pur dicendosi suoi amici, a volere vederlo sul lastrico. Nicholas perde tutto. Dunque prima lascia l'albergo, poi vive per un breve periodo in condizioni spaventosamente precarie in una casa prestatagli da una coppia di ipocriti e diabolici inglesi erastiani, infine si rassegna a dormire, facendo in modo che nessuno se n'accorga, sul fondo del pupparìn. Una notte Nicholas giunge a rischiare la vita. Siamo all'incirca all'ultima trentina delle quasi quattrocento pagine del libro (il lettore ha ormai l'impressione che la parabola terrena dell'infelice Nicholas stia per concludersi). Ma di colpo la scena narrativa si riaccende all'interno del piccolo appartamento che Nicholas ha preso in affitto per Zildo. Lo scrittore, perduti i sensi durante l'ennesima notte di stenti all'addiaccio, si risveglia in quella che dovrebbe essere la camera da letto di Zildo. La osserva e la trova ordinata, pulita, lustrata come se Zildo non l'avesse mai utilizzata, ma l'avesse curata con l'unico scopo di potervi ospitare il proprio padrone. Quest'ultimo, riuscito ad alzarsi, visita interamente il piccolo appartamento e raggiunge una cameretta molto angusta. Da alcuni incontrovertibili segni capisce che Zildo ha scelto come propria camera da letto quella specie di scomodo buco pur di non "contaminare" con la propria presenza la stanza che ha riservato al padrone. Nicholas è commosso e prova una strana felicità: quella che subentra quando ci si rende conto di avere trovato, in termini platonici, la propria metà.

Quando Zildo rientra in casa, avviene qualcosa di simile a un vicendevole riconoscimento. Peraltro Gilda (finalmente possiamo tornare a parlare di Zildo per ciò che è: una donna) non solo ha messo da parte qualche soldo grazie alla vendita delle collane che è diventata brava nel realizzare, ma è pure riuscita a rientrare in possesso di una cospicua quantità di sterline d'oro che aveva lasciato nascoste nel tronco di un albero cavo presso la casa in cui, vittima del terremoto, Nicholas l'aveva trovata. Ed è pure riuscita a entrare in possesso di una lettera inviata a Nicholas da prestigiosi e seri editori che si dicono disposti a pubblicarne i libri e s'impegnano a offrirgli il migliore trattamento economico possibile. Guarda caso, il ventennio di celibato è del resto scaduto.

Ivo Flavio Abela


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