lunedì 20 novembre 2017

Uomini e oggetti secondo Hans Erich Nossack nel suo «La fine. Amburgo 1943»

«La fine. Amburgo 1943» di Hans Erich Nossack (1901 - 1977) fu originariamente pubblicato nel 1948. È poi apparso a più riprese anche in Italia (l'edizione alla quale mi rifaccio è quella del 2005, compresa nella collana Intersezioni del Mulino) ed è una delle più toccanti e intense testimonianze di chi assistette alla distruzione di Amburgo operata dagli Alleati.

Avendo deciso di tenere sotto pressione la popolazione tedesca per far sì che essa si ponesse apertamente contro il governo nazista e lo costringesse a proclamare la resa, essi iniziano a lanciare a più riprese centinaia di volantini: vogliono convincere i tedeschi del fatto che qualsiasi resistenza da parte loro è ormai inutile. Quindi passano ai bengala che si limitano ad illuminare gli obiettivi da colpire. Questi ultimi devono essere nevralgici così che la loro distruzione possa avere conseguenze nefaste, impedendo lo svolgimento della normale vita quotidiana. Vengono quindi sganciati missili esplosivi ed incendiari: Amburgo deve essere del tutto rasa al suolo. Ciò che non viene distrutto dai missili è divorato dalle fiamme che si generano per autocombustione, a causa dell'elevatissima temperatura raggiunta nei cortili e nelle piccole vie che si trasformano in autentici forni crematori, consumando innanzitutto gli abiti, quindi la pelle delle vittime (lo scenario è talmente apocalittico da richiamare alla memoria - sebbene in termini di pure assonanza - le modalità in cui perirono le vittime della colata piroplastica vesuviana del 79 d.C.). Quattro giorni e quattro notti di bombardamenti. Sessantamila morti. E ciò che più impressiona, in seno a quella che viene definita «Operazione Gomorra» (sulla scorta del destino della città biblica cui si riferisce il XIX capitolo della «Genesi») è il fatto che le vittime civili vengano reputate soltanto un inevitabile effetto collaterale dei bombardamenti stessi.

Anche la casa di Hans viene distrutta, ma egli riesce casualmente a salvare la propria vita insieme a quella della sorella. Poco prima dell'inizio dei bombardamenti i due hanno deciso infatti di concedersi alcuni giorni di vacanza nella campagna a Sud di Amburgo. Hanno dunque preso in affitto una piccola casa. Quando gli aerei degli Alleati iniziano ad attraversare i cieli di Amburgo, essi si trovano già fuori città, cosa che comunque non impedisce all'autore di vedere tutto ciò che accade, lasciando talvolta la sorella al sicuro nella cantina della casa affittata.

Al ritorno ad Amburgo i due si trovano al cospetto di una superstite umanità ridotta a un groviglio di esseri senz'anima. I sopravvissuti non appaiono neanche disperati. Semmai preferiscono starsene in silenzio, in disparte, quasi a prendere le distanze da tutto e da tutti. Coloro i quali sono riusciti a procurarsi o a salvare qualcosa diventano oggetto di invidia, vengono odiati da quegli altri sopravvissuti che hanno perduto ogni cosa, nonostante il fatto che siano stati colpiti dalla stessa tragedia. È l'apoteosi della totale disumanizzazione dei sopravvissuti, se è vero che essi giungono al paradosso di non riconoscere il proprio simile e di individuarvi semmai un nemico, talvolta solo a causa del fortunato possesso di un oggetto: «La corsa affannosa per comprare un piatto di terraglia. E quella gioia toccante, infantile sui volti quando uno tornava a casa con un pacchetto sotto al braccio, quasi avesse strappato qualcosa al destino. E quelli che lo vedevano chiedevano pieni di invidia e curiosità: Dove c'è da comprarne? Eppure non si trattava che di un oggetto, così poco dignitoso per forma e materiale che un tempo le persone ne avrebbero provato vergogna» (p. 98). La vita senza gli oggetti sembra impossibile.

Del resto è impossibile la vita degli oggetti senza di noi. In un altro passo terribile per forza evocativa Nossack racconta infatti che, mentre le case bruciavano durante quelle notti terribili, insieme ad esse ardevano e si consumavano anche tanti oggetti che erano appartenuti a chi in quelle stesse case era vissuto fino a quel momento. Tra le fiamme si potevano talora scorgere una fotografia sbiadita, una bambola, un'opera d'arte: tutti oggetti il cui valore - ci avverte Nossack - non può essere quantificato in cifre. Poiché non è stimabile il valore di oggetti che hanno riempito la nostra vita e che noi abbiamo caricato della nostra memoria e dei nostri vissuti. Quegli oggetti - dice Nossack - chiedevano ai loro proprietari di non abbandonarli tra le fiamme. Perché se ci sono stati utili, anche noi abbiamo contratto un debito nei loro confronti: hanno bisogno di noi per vivere, «assorbono in sé il nostro calore e lo custodiscono con gratitudine, per poi restituircelo arricchendoci con esso nei tempi bui». Non è un caso che questa "teoria degli oggetti" venga chiamata in causa quando ci si riferisce ai cosiddetti bio-oggetti del teatro di Tadeusz Kantor, cioè a quella sorta di oggetti-totem che egli collocava sulla scena e il cui compito era stimolare nell'attore l'emersione e la verbalizzazione di vissuti, emozioni, sensazioni.

Ivo Flavio Abela


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