Il professore Salvatore Nicosia, che si è prodotto nella seconda relazione in programma, ha dunque insistito sull’equivalenza che “esistere” e “resistere” assumono nella parabola esistenziale di Ritsos, se si considerano le più tristi vicende della sua vita: le sofferenze dell’infanzia e della prima giovinezza, conseguenti alla morte della madre e del fratello, nonché ai disagi psichici del padre, ma soprattutto le persecuzioni cui Yannis stesso venne sottoposto, tanto simboliche quanto reali, a partire dal rogo pubblico sotto le colonne di Adriano ad Atene, nel 1936, del suo poema «Epitafios», ispirato all’uccisione di un giovane attivista (del quale ancora oggi è possibile reperire la foto che lo ritrae appena ammazzato, mentre la madre lo piange) sotto la dittatura di Metaxàs.
La relazione successiva, del prof. Sebastiano Amato, ha invece insistito sul rapporto dialettico fra Ritsos e il mito classico. Ritsos sembra collocarsi tra il classicismo di Kavafis e la resa suggestiva di molte delle immagini poetiche di Yorgos Seferis. Il mito classico viene reinterpretato, in maniera quasi euripidea, con spirito profondamente laico, forse anche materialista, se si considera l’esempio di Aiace: in Ritsos egli non è più un eroe, ma al pari dell'Ulisse joyciano, appare vinto dalla vita e incapace addirittura di sollevare un solo granello di sabbia. Ed in tale prospettiva si collocano anche i personaggi femminili del mito: le donne, nella poesia di Ritsos, non sono più ribelli come un tempo furono Antigone, Medea, Fedra, solo per citarne alcune, ma tendono a rendere se stesse paghe del grigiore della quotidianità. Eppure, in tale piegarsi alla routine rassicurante di una normalità quasi piccolo-borghese, riescono a sovvertire comunque l’ordine del mondo proprio perché lo rendono pure banale, ripetitivo, incolore. L’esempio più significativo risulta quello di Crisòtemi: Ritsos la colloca sulle proprie pagine creando per lei una nuova vita (della Crisòtemi del mito antico poco o nulla sappiamo, nella misura in cui essa è una donna nota soltanto perché membro della famiglia degli Atridi. Sicuramente brillava molto di più la sorella Elettra). Ma è anche vero che tale personaggio è circondato da altri esseri umani che non parlano: sono letteralmente muti. E ciò significa, da parte di Ritsos, rivoluzionare in maniera estrema il teatro classico ateniese che era invece teatro di parola. Crisòtemi vede nella natura un sistema di segni e giunge a considerare se stessa uno di questi segni. Perciò ella accetta ciò che la quotidianità le offre: il giornaliero ripetersi vano delle azioni, ormai prive del loro senso. Perché il senso della vita è assenza di ogni senso (è questo non è certo un gioco di parole). Ed ecco che le vicende degli Atridi vengono ridotte a banali storie di famiglia. Al cospetto di Crisòtemi, Elettra stessa sembra una folle. Ma ciò che più colpisce dei versi di Ritsos – anche di quelli dedicati alle figure femminili – è il profluvio di aggettivi e sostantivi riferentisi ai colori: la paletta pittorica è infinita perché numerosissime sono le sfumature cromatiche e luministiche che la riempiono. E così anche la fine di Ifigenia si riduce (con un’immagine che sembra scolpita nel gesso più fine e leggero) solo al «fluttuare azzurro di un velo bianco».
Il prof. Aldo Gerbino ha poi evidenziato come l’accumulazione di parole (aggettivi soprattutto) nella poesia di Ritsos non abbia alcunché di esornativo: ogni parola – anche quando pensiamo di trovarci al cospetto di un elenco di sinonimi – ha una sua specifica caratterizzazione semantica, proprio poiché Ritsos credeva nel potere della parola stessa (in tal senso egli viene avvicinato al nostro Pasolini). Rilevanti infine i due interventi di Georgia Kalogirou e soprattutto di Eri Ritsou, figlia del poeta, la quale ha rinunciato a prodursi nella disamina critico-letteraria della produzione del poeta, per ripiegare su una coinvolgente rassegna di ricordi relativi al Ritsos uomo e padre: la tenerezza, ma anche le intemperanze, non ultima quella che lo spinse a bruciare, convinto di dover morire di cancro entro pochi mesi (cosa che poi non avvenne), un’enorme mole di propri scritti, compreso un romanzo di parecchie centinaia di pagine. I due interventi pomeridiani sono stati comunicati in lingua neogreca, ma tradotti in simultanea, con efficace naturalezza e sicura padronanza, dalla professoressa Maria Rosa Caracausi.
Eppure alla sua morte Ritsos ha lasciato ben più di ottomila versi, ma ha soprattutto donato alla posterità la testimonianza di un lavorìo interiore maturato a contatto con le devastanti vicende che hanno caratterizzato la storia novecentesca della Grecia. Desidero ricordare soprattutto il sodalizio con Mikis Theodorakis che ha musicato, con l’approvazione del poeta stesso, due tra i suoi più rappresentativi poemi: il già citato «Epitafios» e «Romiosini», autentici monumenti della grecità di tutti i tempi, al pari di quelli che l’antichità greca classico-bizantina ci ha lasciato.
Quanto fin qui riferito è una sintesi estrema e fisiologicamente imperfetta di ciò che è stato ascoltato nel corso della Giornata di Studi del 24 ottobre (attendiamo gli Atti). Ma desidero concludere con un omaggio al prof. Ignazio Buttitta, antropologo e docente presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo, amico carissimo, che non finirò mai di ringraziare perché gli devo la partecipazione all’evento. Del citato «Epitafios» rimangono particolarmente immortali i versi della madre cui il figlio è stato ucciso: «Figlio mio dolce, tu non ti sei perso, ohimè / Tu sei nelle mie vene. / Figlio mio, nelle vene di tutti / Entra profondamente e vivi» (ancora più suggestivi se ascoltati sulla musica di Theodorakis e interpretati dalla voce limpida e struggente di Meri Linda, grande cantante greca di un recente passato). Ed ancora: «Figlio, in quale destino era scritto, ohimè, | Quale aveva stabilito | Che tanto dolore, tanto fuoco | Nel mio petto dovesse scoppiare?». Sembra che siano parole pronunciate da un’antica madre sicula. Siffatta già notevole somiglianza tra l’ethos siculo e quello greco risultò rafforzata ai miei occhi quando lessi «Portella della ginestra», il dramma in quattro atti – ed insolitamente in lingua italiana – del noto poeta di Bagheria, autentico monumento della cultura siciliana, Ignazio Buttitta, morto nel 1997 (e nonno del citato professore). Qui il lamento materno viene espresso con la stessa intensità e con formule molto simili a quelle usate dal greco Ritsos. Lessi il libro di Buttitta la notte tra il 19 e il 20 giugno del 2014. Me l’aveva regalato il nipote. Al mattino gli inviai un messaggio per comunicargli le mie impressioni e dirgli che suo nonno mi aveva ricordato Ritsos. Ignazio era in macchina: stava viaggiando con il padre, altro monumento della cultura siciliana per ciò che riguarda l’antropologia e la semiotica, purtroppo mancato ai primi di febbraio del 2017, verso Matera per un convegno. Mi rispose che aveva girato al padre la mia riflessione e questi gli aveva risposto che il dato non lo meravigliava poiché il poeta Ignazio e Ritsos erano stati amici. Ricordo bene che il dettaglio, per chiunque altro forse insignificante come può talora rivelarsi un banale dato biografico, fu per me felice conferma della mia impressione.
Ivo Flavio Abela
Dati relativi alla Giornata
Mercoledì 24 ottobre 2018, ore 09:30-19:00
Palermo, Palazzo Chiaromonte Steri, Sala delle Capriate
Università degli Studi di Palermo, Dipartimento “Culture e società”, Organizzazione e Segreteria Prof.ssa Maria Rosa Caracausi
Il programma prevedeva tre Giornate di studi (23-25 ottobre). Gli alunni delle classi III A, III C e III D del Liceo Classico “Eschilo” hanno partecipato alla seconda giornata (24 ottobre) dopo essere stati da me preparati.
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