Nell'estate 2010 mi fu chiesto di scrivere la recensione al romanzo di un autore catanese emergente. Sarebbe stata pubblicata non posso dire dove. La scrissi. La inviai alla committente la quale divenne prima ipocritamente reticente. Poi sparì. Le ragioni della scomparsa sono rimaste ignote. Salvo attribuire lo strano comportamento a turbe psichiche e ad acidità d'animo. O più semplicemente a un malcelato complesso d'inferiorità, come qualche malalingua – poi non tanto mala – mi riferì. Nei miei ritagli di tempo ho riletto il romanzo. La seconda lettura mi ha portato a guardarne i difetti più di quanto non avessi fatto durante la prima (quando ero incalzato dall'urgenza della "consegna" della recensione). Ho ritrovato la recensione stessa e ne ho ritoccato qualche punto così da rendere maggiormente ragione delle manchevolezze da me riscontrate. E mi sono detto che in fondo il mio blog avrebbe potuto bene accoglierla.
«Il rosso e il nero». No. Non è il romanzo di Stendhal. Ma potrebbe essere il titolo alternativo per «Una raggiante Catania» di Domenico Trischitta, in cui i due colori non richiamano il sangue e la morte, ma il fascismo e il comunismo (non si fraintenda: il richiamo stendhaliano riguarda solo il titolo. Non certo le qualità letterarie del romanzo in esame). Con un netto prevalere del rosso in quegli anni ‘70 in cui si colloca l’incipit della parabola esistenziale del protagonista-autore e della sua educazione sentimentale. Sullo sfondo di una città dilaniata da scontri proprio fra neri e rossi. Sullo sfondo di un quartiere, il nuovo San Berillo, popolato da «neodeportati che devono inventarsi un futuro, strada criminale o schiena spaccata ad allevare figli», violentato anch’esso da scontri di ragazzi che, implotonati in bande fanciullescamente organizzate, s’impegnano in un singolare apprendistato per diventare ciò che saranno: i protagonisti della malavita che insanguinerà la città nel decennio successivo.
In principio erano Don Mimì e Don Saro. Perché da loro prende le mosse l’autore: Don Mimì, il nonno paterno, ucciso mentre si trova col figlio Saro al mulino di Mascalucia, presso il quale s’è recato per procurarsi la farina «anche se là ci sono molti tedeschi»; Don Saro, figlio di Don Mimì e padre di Turi, che da bambino vive il duplice trauma dell’abbandono e della morte del genitore e che sembra trovare un tenero e umanissimo riscatto solo quando la Madonna del Rosario viene portata in processione nel suo quartiere. Fato e necessità, quasi inscritti nel codice genetico dei maschi di casa Tringali, finiscono così per caratterizzare anche la vita di Turi, nella misura in cui Turi stesso li combatterà per non fare la fine cui sono destinati gli amici di adolescenza, sorretto peraltro da un «carattere volitivo» che ne fa la «fotocopia» della madre e da un egoismo «preoccupante», maturato anche a contatto con un fratello gemello, «irrimediabilmente segnato per tutta la vita» da problemi fisici generatisi alla nascita.
La menzione del padre e del nonno sembra sovrapporsi a quella del primo completo atto autoerotico di un Turi dodicenne, come a sottolineare quanto le pulsioni sessuali agiscano nella vita di un uomo, assolvendo quasi a un ruolo terapeutico. La naturalezza e la precisione con cui vengono narrate fin nei dettagli le esperienze sessuali successive si alimentano anche di un linguaggio fortemente realistico che fotografa edonisticamente la realtà sessuale per quella che è. Ma sono anche terribilmente esagerate. Alla lunga diventano quasi stucchevoli e stancano (tanto varrebbe guardare un film hard). L'autore si compiace delle proprie gesta erotiche (che però non sono – ahimè – quelle di Squaw Pelle di Luna), dando l'impressione di non riuscire a sottrarsi al gallismo siculo («Vadda quantu sugnu masculu!» sembra dire). Il lettore esperto se la ridacchia. E giunge magari a sospettare che quelle esperienze l'autore-protagonista le abbia vissute solo nella sua arrapata fantasia (e mi si perdoni la dislocazione a sinistra).
La storia di Turi viene narrata in forma di massiccio climax che muove da una folla di ricordi eterogenei: il quartiere, gli scontri fra i suoi giovani abitanti, la dura vita dei «deportati», le primissime scoperte musicali, alcune scene – gustose, ma dall’amaro retrogusto – quali quella del funerale di Fimminedda, il travestito morto a causa – beffardo contrappasso – di un tumore ai testicoli. Tende dunque, gradino dopo gradino, a sconfinare in una ricomposizione finale.
Difficile stabilire quale fil rouge permetta ai ricordi di integrarsi mentre si procede nella lettura. Forse l’iperpresente io narrante che fa di «Una raggiante Catania» un romanzo in parte autobiografico. Esso rimane persistente anche quando viene abbandonata la narrazione in prima persona e adottata quella in terza (che avviene presumibilmente quando l’autore percepisce certi ruoli, assunti suo malgrado, come estranei al soddisfacimento delle proprie esigenze). Quell’io narrante diviene poi ancora più tangibile verso la conclusione del romanzo, allorché la riflessione assume la forma di un intimismo a tratti nostalgico, a tratti esistenziale (in particolare dopo il lungo episodio della permanenza in Germania).
O quel fil rouge è forse Catania stessa che abbandona gradualmente le tinte noir dei suoi anni ‘70, colorandosi occasionalmente di rosso, per conseguire il luminoso splendore della metà degli anni ‘90, quando si riempie della luce dei megaconcerti rock, della «cantantessa» Carmen Consoli, del sodalizio artistico di Battiato e Sgalambro: l’epoca dell’amministrazione di Enzo Bianco, sotto cui Catania può a buon diritto fregiarsi del titolo di capitale culturale del Mezzogiorno d’Italia.
Eppure l’intimismo autobiografico assume una consistenza maggiore proprio quando la città diventa raggiante. Sembrerebbe un Turi pessimista quello del finale. Forse perché egli conosce l’oscurità nella quale Catania è caduta nel decennio successivo, di cui non fa appositamente menzione. Ad ogni culmine – sembra esprimere il silenzio dell’autore sulla Catania del III millennio – segue la decadenza.
Lindi e concreti lo stile e il linguaggio, entrambi sostenuti da un tentativo di ricerca estetica. Tuttavia in alcuni punti sembra che l'autore voglia anacronisticamente imitare la prosa verista (si legga ad esempio quanto segue: «Quando gli sparavano il fuoco, a Don Saro gli si squagliava il sangue per l’emozione […] perché la Santa patrona di Catania […] gli aveva portato la sua Madonna a casa». Sembra di rileggere «Rosso Malpelo»). Il risultato puzza scolasticamente di muffa. Il romanzo – comunque – rappresenta nel complesso una prova dignitosa. Ma deve ancora passare un bel po' d'acqua sotto i ponti.
Ivo Flavio Abela
«Il rosso e il nero». No. Non è il romanzo di Stendhal. Ma potrebbe essere il titolo alternativo per «Una raggiante Catania» di Domenico Trischitta, in cui i due colori non richiamano il sangue e la morte, ma il fascismo e il comunismo (non si fraintenda: il richiamo stendhaliano riguarda solo il titolo. Non certo le qualità letterarie del romanzo in esame). Con un netto prevalere del rosso in quegli anni ‘70 in cui si colloca l’incipit della parabola esistenziale del protagonista-autore e della sua educazione sentimentale. Sullo sfondo di una città dilaniata da scontri proprio fra neri e rossi. Sullo sfondo di un quartiere, il nuovo San Berillo, popolato da «neodeportati che devono inventarsi un futuro, strada criminale o schiena spaccata ad allevare figli», violentato anch’esso da scontri di ragazzi che, implotonati in bande fanciullescamente organizzate, s’impegnano in un singolare apprendistato per diventare ciò che saranno: i protagonisti della malavita che insanguinerà la città nel decennio successivo.
In principio erano Don Mimì e Don Saro. Perché da loro prende le mosse l’autore: Don Mimì, il nonno paterno, ucciso mentre si trova col figlio Saro al mulino di Mascalucia, presso il quale s’è recato per procurarsi la farina «anche se là ci sono molti tedeschi»; Don Saro, figlio di Don Mimì e padre di Turi, che da bambino vive il duplice trauma dell’abbandono e della morte del genitore e che sembra trovare un tenero e umanissimo riscatto solo quando la Madonna del Rosario viene portata in processione nel suo quartiere. Fato e necessità, quasi inscritti nel codice genetico dei maschi di casa Tringali, finiscono così per caratterizzare anche la vita di Turi, nella misura in cui Turi stesso li combatterà per non fare la fine cui sono destinati gli amici di adolescenza, sorretto peraltro da un «carattere volitivo» che ne fa la «fotocopia» della madre e da un egoismo «preoccupante», maturato anche a contatto con un fratello gemello, «irrimediabilmente segnato per tutta la vita» da problemi fisici generatisi alla nascita.
La menzione del padre e del nonno sembra sovrapporsi a quella del primo completo atto autoerotico di un Turi dodicenne, come a sottolineare quanto le pulsioni sessuali agiscano nella vita di un uomo, assolvendo quasi a un ruolo terapeutico. La naturalezza e la precisione con cui vengono narrate fin nei dettagli le esperienze sessuali successive si alimentano anche di un linguaggio fortemente realistico che fotografa edonisticamente la realtà sessuale per quella che è. Ma sono anche terribilmente esagerate. Alla lunga diventano quasi stucchevoli e stancano (tanto varrebbe guardare un film hard). L'autore si compiace delle proprie gesta erotiche (che però non sono – ahimè – quelle di Squaw Pelle di Luna), dando l'impressione di non riuscire a sottrarsi al gallismo siculo («Vadda quantu sugnu masculu!» sembra dire). Il lettore esperto se la ridacchia. E giunge magari a sospettare che quelle esperienze l'autore-protagonista le abbia vissute solo nella sua arrapata fantasia (e mi si perdoni la dislocazione a sinistra).
La storia di Turi viene narrata in forma di massiccio climax che muove da una folla di ricordi eterogenei: il quartiere, gli scontri fra i suoi giovani abitanti, la dura vita dei «deportati», le primissime scoperte musicali, alcune scene – gustose, ma dall’amaro retrogusto – quali quella del funerale di Fimminedda, il travestito morto a causa – beffardo contrappasso – di un tumore ai testicoli. Tende dunque, gradino dopo gradino, a sconfinare in una ricomposizione finale.
Difficile stabilire quale fil rouge permetta ai ricordi di integrarsi mentre si procede nella lettura. Forse l’iperpresente io narrante che fa di «Una raggiante Catania» un romanzo in parte autobiografico. Esso rimane persistente anche quando viene abbandonata la narrazione in prima persona e adottata quella in terza (che avviene presumibilmente quando l’autore percepisce certi ruoli, assunti suo malgrado, come estranei al soddisfacimento delle proprie esigenze). Quell’io narrante diviene poi ancora più tangibile verso la conclusione del romanzo, allorché la riflessione assume la forma di un intimismo a tratti nostalgico, a tratti esistenziale (in particolare dopo il lungo episodio della permanenza in Germania).
L'insopportabile Carmen Consoli: una cantante da acqua a linzolu o da fer'o luni (i catanesi comprenderanno) |
Eppure l’intimismo autobiografico assume una consistenza maggiore proprio quando la città diventa raggiante. Sembrerebbe un Turi pessimista quello del finale. Forse perché egli conosce l’oscurità nella quale Catania è caduta nel decennio successivo, di cui non fa appositamente menzione. Ad ogni culmine – sembra esprimere il silenzio dell’autore sulla Catania del III millennio – segue la decadenza.
Lindi e concreti lo stile e il linguaggio, entrambi sostenuti da un tentativo di ricerca estetica. Tuttavia in alcuni punti sembra che l'autore voglia anacronisticamente imitare la prosa verista (si legga ad esempio quanto segue: «Quando gli sparavano il fuoco, a Don Saro gli si squagliava il sangue per l’emozione […] perché la Santa patrona di Catania […] gli aveva portato la sua Madonna a casa». Sembra di rileggere «Rosso Malpelo»). Il risultato puzza scolasticamente di muffa. Il romanzo – comunque – rappresenta nel complesso una prova dignitosa. Ma deve ancora passare un bel po' d'acqua sotto i ponti.
Ivo Flavio Abela
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