sabato 27 aprile 2013

«La morte di Ivan Il'ič»


«II principe Andréj non soltanto sapeva di dover morire, ma si sentiva morire, sentiva d'esser già morto a metà. Egli aveva la coscienza di essere estraneo ad ogni cosa terrena e di sperimentare una lieta e strana facilità ad esistere». Così Tolstoj nell'incipit di una delle più belle pagine della Letteratura di tutti i tempi: quella in cui vengono narrati i momenti precedenti il compiersi «del semplice e solenne mistero della morte» di uno dei personaggi più interessanti e meno "terreni" di «Guerra e pace». Sposato con una donna per la quale nutre poco interesse, quindi vedovo (la principessa muore a causa di un parto complesso), poi fidanzato di Nataša Rostova, tradito da lei per quel delinquente di Anatolij Kuraghin, ferito due volte sul campo di battaglia (la seconda rovinosamente), non gli rimaneva che morire. Sconfitte le armate napoleoniche, non diversamente al generale Kutuzov, incapace di capire che cosa fosse quell'Europa in cui la Russia si trovava di colpo proiettata come potenza ancora olezzante degli allori appena mietuti, «non restava altro che la morte. Ed egli morì».

Appare a maggior ragione priva di logica la morte di Ivan Il'ič: un uomo legato alla vita, capace di costruirsi una carriera in ambito forense fino a diventare giudice, amante del proprio lavoro che costituisce anche lo strumento per sfuggire alle grane di una vita coniugale costellata di liti e di ripicche, pago della casa che riesce a procurarsi e che arreda con mobili, tappezzerie e tendaggi costosi e apparentemente raffinati, fiero di riuscire a gestire rapporti professionali e sociali con estrema correttezza (cioè con la decenza e il perbenismo che lo fanno sentire giusto e magnanimo).

Un giorno, mentre si trova su una scala sulla quale è salito per mostrare al tappezziere come disporre un panneggio, Ivan cade urtando col fianco la maniglia di una finestra: un incidente domestico di poco conto che egli stesso narra in seguito con amplificata e compiaciuta sufficienza ai suoi familiari, quando essi lo raggiungono a San Pietroburgo. Ma quell'incidente segna l'inizio di una malattia apparentemente inspiegabile che consuma gradualmente Ivan fino a procurarne la morte all'età di soli quarantacinque anni, con soddisfazione dei colleghi «giacché a morire era stato lui e non loro» e visto che ciò si traduce in un vantaggioso rimpasto di assegnazioni di cariche. Ma anche con loro disappunto, dal momento che devono affrontare «noiosissimi convenevoli ... il funerale, la visita di condoglianze alla vedova», la vista del defunto ricomposto ed esposto nella sala col viso giallo e cereo e col naso prominente, il lezzo di cadavere. Per fortuna il morto non può rovinare ai colleghi l'usuale partita di whist che si svolgerà solo a sera, cioè a cerimonia funebre avvenuta. E prima della cerimonia funebre del resto anche la vedova va alla ricerca della propria soddisfazione, prendendo informazioni sul modo più vantaggioso di spillare allo Stato quella che oggi definiremmo una (congrua) pensione di reversibilità (dopo avere del resto pure desiderato, durante la malattia del marito, che questi morisse, salvo poi rinunciare a un simile desiderio «perché, in tal caso, sarebbe venuto a mancare lo stipendio»).

Quella che Ivan ha amato è dunque una vita infarcita di ipocrisia. Ecco dunque la ragione per cui "può" morire come sono morti Andréj e il generale. L'ipocrisia si trasforma in pura menzogna durante la sua malattia, quando tutti prendono a trattarlo come un uomo semplicemente malato (e non destinato a morire) cui limitarsi a fare buon viso come se ogni difficoltà potesse prima o poi essere appianata: la moglie che si lascia andare a parole (e a qualche bacio) di circostanza, la figlia che vede nella sofferenza del padre una minaccia alla propria spensieratezza di giovane che vive il suo primo amore, il cognato, gli amici, i medici. Ivan si sente allora sempre più solo e finisce per detestare quanti lo circondano. Odia tutti. Eccetto il figlio ginnasiale (di cui Tolstoj mette a nudo quasi sfacciatamente  sebbene tra le righe  la tenera sensibilità) e Gerasim che è un servo giovane e schietto di origini contadine (e non può essere un caso se l'autore della storia è Tolstoj): l'unico che si fa carico delle sofferenze di Ivan. Anche fisicamente. L'unico che gli parla della fine imminente.

Vjačeslav Tichonov: il principe Andréj Bolkonskij
«Guerra e pace» (regia di Sergéj Bondarčuk, 1967)
Ivan è ormai prigioniero della solitudine. Inizia lentamente a ravvisare i frutti dell'opera distruttrice della morte nella consunzione del proprio corpo («Possibile che lei sia la verità?»). Arriva a pensare di stare scontando la colpa di avere condotto una vita sbagliata. Si chiude sempre di più in se stesso fino a giacere sul divano col viso rivolto verso il muro lungo cui il divano stesso è disposto. Ma la morte non gli dà pace ed egli inizia a subire una sorta di rigor mortis prima del tempo: assume definitivamente una posizione supina, prefigurazione di quella che dovrà assumere nella bara (che il lettore conosce già perché l'ha "vista" nel primo capitolo).


«Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il suo corpo sfinito sussultava. Poi il gorgoglio e il rantolo si fecero più rari.
"È finita!" pronunciò qualcuno sopra di lui.
Egli udì quelle parole e le ripeté nel proprio animo. "Finita la morte" disse a se stesso. "Non c'è più".
Trasse un sospiro, si fermò a metà, si distese e morì».

Non è "miracolo" la morte di Ivan Il'ič. Non è «solenne mistero». Non lo è quanto quella di Andréj Bolkonskij. Ma se la morte del principe di «Guerra e pace» è la morte di chi ha imparato per tempo a lasciare il mondo e con facilità riesce dunque a lasciarlo, quella di Ivan è la fine (paradossalmente più vera, più umana, ma anche più sconcertante) di chi del mondo ha capito poco al punto di non riuscire a liberarsene se non quando è troppo tardi.

Ivo Flavio Abela

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