giovedì 4 aprile 2013

La bellezza delle icone ortodosse


Secondo il racconto leggendario della «scelta della fede»,
Vladimir, principe di Kiev,
per scegliere la migliore religione
avrebbe inviato degli emissari presso i Musulmani, gli Ebrei, i Latini e i Greci.
Il rapporto, che questi gli fecero su ciò che avevano vissuto a Costantinopoli,
lo avrebbe deciso senza alcuna esitazione in favore del cristianesimo nella forma bizantina.
Essi dicevano:
«Noi non sapevamo se eravamo in cielo o sulla terra,
perché sulla terra non si trova simile bellezza».
Non si trattò della sola impressione estetica,
perché il racconto la supera infinitamente:
«Perciò non sappiamo che cosa dire,
ma una cosa sola sappiamo: là Dio dimora con gli uomini… ».
Ciò che è bello è la presenza di Dio tra gli uomini;
essa rapisce gli animi e li trasporta.

Pavel Nikolaevič Evdokimov, «Teologia della bellezza», Roma, 1981, p. 36

Andrej Rublëv
Icona della «Trinità»
L’icona viene realizzata da maestri che usano materiali poverissimi (il substrato è costituito dal legno. Si aggiungono poi la tela, il collante, i pigmenti, le vernici), ma è in grado di veicolare significati molto complessi, diventando una summa theologiae (per usare un’espressione cara all’aquinate Tommaso) e una guida per chi la contempla. È bella. La sua bellezza è salvifica in quanto l’icona è spazio visibile dell’Invisibile, cioè del vero Bello. Non soltanto essa esaurisce il senso della kalokagathìa di ascendenza classica, ma è anche privilegiato veicolo della fusione di etica, estetica e contemplazione (quest’ultima intesa come esperienza mistica). Essa viene sì realizzata nel laboratorio dell’iconografo, ma tale laboratorio trova la sua ideale collocazione nel monastero (in termini storici), dove il laboratorio stesso si spoglia dei propri connotati puramente tecnici e di bottega per diventare il luogo in cui l’artista smette di essere tale (egli è solo un tramite infatti perché l’artista è Dio) e agisce da uomo che costruisce se stesso come immagine vivente dell’Invisibile. L’icona ha una funzione soprattutto liturgica in quanto immagine conduttrice: contemplarla durante il rito significa ricavarne l’ispirazione che rende efficace la partecipazione al rito stesso. Ma è anche immagine conduttrice nella vita quotidiana e familiare, se inserita in un angolo domestico che – non a caso – nella tradizione slava viene definito «Angolo della Bellezza» («non è nella natura in se stessa che si situa la vera Bellezza, bensì nell’epifania del Trascendente che fa della natura il legame cosmico del suo irradiamento, un “roveto ardente”» secondo Pavel Evdokimov alla pagina 48 del libro citato in esergo).

Due testi sono fondamentali per capire l’essenza dell’icona: «Teologia della bellezza» di Pavel Nikolaevič Evdokimov (Edizioni Paoline, Roma, 1981, già citato e non solo in esergo) e «L'icona, immagine dell'invisibile. Elementi di teologia, estetica e tecnica» di Egon Sendler (Edizioni Paoline, Roma, 1983): datati (senza dubbio), ma ancora validissimi capisaldi. E sono due testi che possono essere letti “insieme” in quanto si integrano a vicenda: nel primo prevale la riflessione teologica, nel secondo prevalgono quella storica e quella pratica (pratica in quanto Sendler spiega meticolosamente come un’icona debba essere realizzata). Tuttavia mi sembra opportuno dedicare una riflessione al primo dei due a causa appunto del suo carattere spiccatamente teologico.

Evdokimov insiste sul senso liturgico dell’icona, stigmatizzando (ora tra le righe, ora platealmente) la cultura e la Chiesa d’Occidente che avrebbero smarrito la loro dimensiona ieratica, di cui il rispetto della liturgia sarebbe componente fondamentale. Secondo lo studioso, la teologia occidentale infatti ha sempre «manifestato una certa indifferenza dogmatica rispetto alla portata spirituale dell’arte sacra, a quella iconografica che, malgrado il suo lungo martirologio, è così venerata in Oriente. Tuttavia, provvidenzialmente, l’arte occidentale fu in ritardo sul pensiero teologico e, fino al secolo XII, resta fedele alla tradizione comune tanto all’Oriente che all’Occidente. Questa tradizione unica vive pienamente nella magnifica arte romanica, nel miracolo della cattedrale di Chartres, nella pittura italiana che coltiva ancora la maniera bizantina» (p. 89).

Teofilo Cretese
«Crocifissione» (1567)
Successivamente l’adozione della prospettiva e la resa del chiaroscuro indirizzano
l’artista lungo una strada che è quella dell’illusoria resa fotografica di una corporeità che nulla ha da spartire con l’impalpabilità del Trascendente (l’impalpabilità che l’iconografo d’Oriente rende mantenendosi consapevolmente entro i binari della bidimensionalità e della prospettiva inversa). Emblematico è il caso della rappresentazione del Cristo crocifisso: un ortodosso vi vede «il re», il trionfatore, il vincitore della morte attraverso la morte; un occidentale vi ravvisa solo l’uomo dei dolori, sconfitto, abbandonato dal proprio Padre. In altri termini l’ortodosso partecipa del trionfo insito nella crocifissione, l’occidentale si angoscia e si sente in colpa (e inizia a praticare il culto delle Sacre Piaghe, degli strumenti della passione, ecc.).

Gradualmente l’arte occidentale si spoglia di ogni implicazione liturgica. Umanizza e rende corporee le creature celesti accogliendo la terza dimensione: sotto i loro abiti gli angeli e i santi hanno carne e sangue e il racconto biblico viene usato dall’artista per esplicitare le proprie doti («quando un crocifisso, in forza del suo realismo voluto, colpisce il sistema nervoso, il mistero indicibile della Croce perde la sua potenza segreta, scompare. Quando l’arte dimentica la forza sacra dei simboli e delle presenze e tratta plasticamente i “soggetti religiosi”, il soffio del trascendente non l’attraversa più» scrive Evdokimov alla pagina 90). Insomma l’arte occidentale è splendida, ma non ha alcunché di sacro e i suoi luoghi di culto esprimono soltanto il sentimento religioso di chi li realizza e di chi li frequenta, ma non esprimono la divinità («Si può dire che, misticamente, il Medio Evo si spegne precisamente quando scompaiono gli angeli, quando l’icona cede il posto all’immagine allegorica e didattica e il pensiero indiretto al pensiero diretto. È la fine dell’arte romanica, arte essenzialmente iconografica, ed è qui che l’Occidente si distacca dall’Oriente», p. 173).

Un monaco ortodosso pittore di icone
In simile prospettiva va contestualizzata la simpatia di Evdokimov per l’arte astratta in quanto «sopprime ogni supporto ontologico negando l’oggetto concreto» (p. 95). Simpatia che avrebbero forse condiviso gli iconoclasti, sebbene per motivi diversi: avvezzi a una concezione ritrattistica dell’arte intesa come pura imitazione, essi negavano la possibilità che l’icona potesse contenere la presenza dell’Invisibile in quanto l’Invisibile non sarebbe rappresentabile (in ciò confermando quanto espresso nel Vecchio Testamento e in seno all’Islam). Essi, negando la rappresentabilità dell’Invisibile, negavano il mistero stesso dell’incarnazione. Ma l’icona può rappresentare l’Invisibile in quanto quest’ultimo si è incarnato. E – incarnandosi – si è reso visibile (è del resto l’opinione espressa da Giovanni Damasceno nel trattato «Adversus eos qui sacras imagines abiciunt », PG 94, 1239). Il Cristianesimo appare del resto l'unica confessione secondo cui Dio si è incarnato: dunque non l'uomo ha antropomorfizzato Dio, ma Dio s'è antropomorfizzato da sé. Ancora di più: solo nel cristianesimo Dio si fa, prima ancora che carne, Verbo (motivo che nasce addirittura prima dell'avvento di Cristo: è già nel giudaismo). E basta leggere il testo di qualsiasi Padre dell'Ortodossia per comprendere che soltanto pronunciare la parola «Dio» equivarrebbe a testimoniarne l'essenza e l'esistenza. I testi dei Padri dell’Ortodossia ci forniscono così (se vogliamo portare le riflessioni di Evdokimov alle estreme conseguenze) un’efficace anticipazione di ciò che avrebbero affermato i pragmatisti del linguaggio tanti secoli dopo (pensiamo a Austin e al suo «How to do things with words») e in fondo anche gli strutturalisti. E tutto ciò senza entrare necessariamente nelle pastoie dei vincoli ontologici esistenti fra il significante e il significato nel segno o in quelle del rapporto (necessario o arbitrario che sia) fra il segno e il referente del segno.

Icona del «Trionfo dell'Ortodossia»
L’icona rappresenta dunque la parte visibile dell’Invisibile e va venerata non in quanto essa è l’Invisibile, ma perché ce lo ricorda e a all’Invisibile ci rimanda: in nome, cioè, della sua somiglianza col Prototipo (essa è «deuterótypos del protótypos»). Sulla base di tali assunti, il Concilio di Costantinopoli (843) ristabilì la venerazione delle icone, inaugurando la festa del «Trionfo dell’ortodossia».

Consiglierei la lettura del libro di Evdokimov a chiunque si senta attratto dall'iconografia ortodossa e dalla cultura greco-russa (insieme ovviamente a quella del testo di Sendler).

Ivo Flavio Abela

Dal film «Andrej Rublëv» di Andréj Tarkovskij (1966)


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