venerdì 19 aprile 2013

«Miscendo humana divinis». Per il compleanno di Roma (21 aprile 2013)


Il filo conduttore di cui Tito Livio si serve per tessere la narrazione della storia romana in «Ab Urbe condita» è squisitamente polibiano: Roma è un organismo politico che si è sviluppato a un tale grado di «magnitudo» da soffrirne («laboret» è il termine usato nella «Praefatio») e da rischiare di rimanerne schiacciata. Simile visione sembra attinta «a una concezione organicistica, biologica della storia, che è, in prima istanza, di marca greca, cosa che equivale a sistemazione e concettualizzazione, da parte greca, di un'idea centrale nella concezione romana autentica, quella dell'imperium» (Domenico Musti, «Il pensiero storico romano», in «Lo spazio letterario di Roma antica», I, 177-240, Roma, Salerno Editrice, 1989, p. 209).

Nel contempo Livio cerca di superare la suggestione polibiana o quantomeno ciò che di troppo razionalistico, meccanicistico ed evoluzionistico è in essa insito: la grandezza di Roma è in qualche modo predestinata, quasi tutta la storia di Roma rientrasse in un disegno provvidenziale che l'avrebbe portata a diventare «caput mundi». Non solo dunque le virtù umane: anche il volere divino – specificamente Marte, padre di Romolo e del popolo da lui originato – avrebbe giocato un ruolo fondamentale aiutando Roma e mettendola fortemente alla prova per farne emergere più platealmente il valore: «Et adeo varia fortuna belli ancepsque Mars fuit, ut propius periculum fuerint, qui vicerunt», ovvero «e furono di esito talmente dubbio le vicende della guerra e tanto ambiguo fu Marte che si trovarono più vicini al pericolo quanti poi vinsero», dice del resto Livio accingendosi a narrare la guerra annibalica nella «Praefatio» al IV libro. Anzi è probabile che Livio volesse sottilmente polemizzare proprio contro quel razionalismo greco-ellenistico che aveva in Polibio il maggiore pensatore (con le sue teorie dell'anaciclosi e della costituzione mista).

L'Augusto di Prima Porta
L'elemento soprannaturale permea la storia liviana opponendo apparentemente Livio anche alla "scientificità" ravvisabile nella storiografia greca a partire da Tucidide. Livio infatti dichiara apertamente di non volere né accettare né respingere gli eventi relativi ai primordi di Roma. Ne riconosce peraltro la natura ancora nella «Praefatio» al libro I: «magis decora fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis» («ornamenti più adatti alle favole dei poeti che a un incorrotto monumento di imprese»). In sostanza egli collega la sfera umana a quella divina realizzando, in un'opera storiografica, lo stesso principio su cui si basa il mito. Anzi la storia di Roma è senz'altro mito: non esiste altro popolo che possa arrogarsi, in nome della propria gloria militare, il diritto di rendere i propri «primordia […] augustiora [...] miscendo humana divinis» («le proprie origini […] più auguste [...] mescolando gli eventi umani a quelli divini»), diritto riconosciuto da tutte le genti che, già tollerando la propria sottomissione al popolo romano, possono anche sopportare il fatto che esso «suum conditorisque sui parentem Martem potissimus ferat» («consideri con convinzione Marte padre di se stesso e del suo fondatore»).

Non manca in Livio una certa autoesaltazione. «Immensi operis» e «tantum operis» sono espressioni con cui lo storico definisce nella «Praefatio» il suo «opus», salvo smorzare il tono autoapologetico con formule di modestia atte a realizzare una sommessa forma di «captatio benevolentiae». Ma che in Livio tutto sia grande e solenne (Augusto, l'Impero, le origini di Roma), che egli consideri grande il suo lavoro e voglia renderlo letterariamente ancora più grande, è testimoniato dall'attacco cantabile della stessa «Praefatio»: «Facturusne operae pretium sim», in cui già Quintiliano (9, 4, 74) riconosceva un tetrametro dattilico funzionalizzato a dotare di respiro poetico il ritmo fisiologicamente piano della prosa. Del resto Livio conclude la «Praefatio» stessa augurandosi di poter disporre della medesima ispirazione dei poeti.

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Stralcio dell'introduzione a un mio vecchio studio sulla «Praefatio» al libro IV di «Ab Urbe condita» (per una volta posso autocitarmi...). Acerbo e frettoloso (ricordo che lo scrissi di corsa, ma ciò non mi impedì di occuparmi anche di «patavinitas»). Ma tant'è: è uno studio cui sono molto legato perché, se non fossi Ivo, vorrei essere Tito Livio. E buon compleanno, Roma!

Ivo Flavio Abela

Il rilievo della Tellus (Ara Pacis Augustae, Roma)

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