Possiate perire, progenie di Malocchio funesta: da ora con l'arte
[giudicate] la poesia, e non con lo scheno persiano.
E non cercate da me che un canto molto rimbombante
produca. Tuonare non spetta a me, spetta a Zeus!
Callimaco, fr. 1, 17-20 Pfeiffer.
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor dell'acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana;
livide, insin là dove appar vergogna
eran l'ombre dolenti nella ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Dante Alighieri, «Divina Commedia»
«Inferno» XXXII, 31-36.
Tu su la bruna valle alta sfavilli,
Barga, coi cento lumi tuoi. Rimane
l'ombra del pianto fra un gridìo di grilli
e un interrotto gracidar di rane.
Giovanni Pascoli, da «Primi poemetti»
«Il soldato di S. Piero in Campo» VI.
Un giorno come tanti cerco qualcosa su Google. M'imbatto casualmente in quest'immagine. Istintivamente passo avanti perché non è ovviamente ciò che cerco. Ma torno indietro: la fotografia mi sussurra interiormente qualcosa. Il soggetto ha un'aria familiare (unheimlich). Mi dico: «Io questa qui l'ho già vista!». Poi mi chiedo dove. Ritorno a fissare l'immagine. Quella bocca larga. Ma sì: l'ho già vista. La conosco. Quegli occhi vagamente sornioni che in verità nascondono chissà quali terribili pensieri e quali profondi dissidi interiori. Ma certo che li ho visti! Pure quel mento che fa tutt'uno col collo. Ma sicuro che l'ho già visto! E pure quello strano incarnato olivastro.
Non mi do pace. Cerco di concentrarmi. Concepisco istintivamente l'idea che debba essere passato almeno un decennio. Perché la concepisco? Non so. Cerco allora di lasciare che una rete di libere associazioni prenda forma. Che cosa facevo e dove mi trovavo dieci anni fa? Dieci anni fa collaboravo con un noto Dipartimento di un Ateneo della gloriosa Repubblica dell'Italia Unita. E allora? Come potrebbe tutto ciò ricondurmi a quell'essere riprodotto nell'immagine? Provo a ricordare: forse in uno dei cortili della sede di quella Facoltà di Lettere esisteva uno stagno? No. Non mi risulta. Chiamo un vecchio collega. «Ricordi quando si lavorava in Dipartimento? Ricordi se c'era uno stagno in Facoltà?». «Certo. E tu ci sguazzavi dentro tutte le mattine». Chiudo il telefono, ma non mi do pace. E poiché ho altro da fare, abbandono l'idea di ricordare, confidando in Freud per il quale il deja vu altro non è che qualcosa che appartiene al nostro inconscio e che solo occasionalmente e spontaneamente riemerge sul filo della coscienza. Continuo la ricerca.
Intermezzo. Le rane, i ranocchi, i rospi, i girini mi fanno schifo. Tutto ciò che è viscido mi fa schifo: mi provoca nausea. Lucertole, gechi, serpenti. Tutto ciò che è viscido mi provoca ribrezzo. Non potrei toccare neanche un'anguilla.
È notte. Cerco di addormentarmi. Non mi va di stare al computer. Non mi va di leggere. Non mi va di ascoltare musica. Al buio inizio a pensare che sarebbe bene contare le pecore. No. Anzi: sarebbe meglio contare le rane. Le rane! Perché proprio le rane? Già: mi torna in mente la rana della foto. Istintivamente mi alzo e mi reco verso una libreria, su uno scaffale della quale ingoia avidamente polvere la mia tesi di laurea. Ma che cosa potrebbe mai accomunare una Provincia romana ad una rana? Sfoglio la tesi. Mi soffermo sul catalogo dei circa venticinque siti (più o meno urbani) di cui ho ricostruito le vicende attraverso il vaglio delle fonti letterarie, di quelle numismatiche, di quelle epigrafiche, delle emergenze monumentali. Che cosa possono avere Ancyra, Tavium, Pessinous, The pilgrim's road, le lettere di San Paolo, la prosopografia, gli spostamenti di confine del territorio provinciale, Costantino, il magister militum per Orientem e quello per Armeniam con una rana? Ripenso alle giornate trascorse all'École Française de Rome, al Deutsche Archäologische Institut ancora a Roma, all'Augustinianum proprio vicino al colonnato di piazza San Pietro (a mezzogiorno il campanone di San Pietro si metteva a suonare e le vibrazioni facevano tremare il tavolo su cui adagiavo i libri). Ma in quei luoghi non c'erano rane. E comunque la tesi di laurea mi riporterebbe indietro ben oltre il decennio da me inizialmente ipotizzato per istinto. Ripongo la tesi. Torno a letto. Stavolta mi addormento all'istante.
Sogno. Mi trovo in una sorta di ufficio avente come tetto una grande volta. Il pavimento è costituito da piastrelle di argilla cotta (esagonali oppure ottagonali). Mi vedo seduto ad una scrivania con una bozza della mia tesi di laurea in mano (evidentemente devo davvero regredire ben oltre il decennio). Qualcuno sta dall'altra parte della scrivania. Non capisco bene chi sia: il viso sembra nebuloso. Ma ha una stranissima mano palmata di colore verdastro. Con quella mano regge una matita. Con quella matita pone alcuni segni sulla mia bozza. Ne sento la voce. Non è voce umana. Gracida. Sì: gracida. Gracida scusandosi.
Mi gracida che mi ha buttato fuori strada. Mi gracida che le circa seicento pagine di saggi e articoli che mi ha fornito affinché io ne traessi idee utili per la redazione dell'introduzione alla mia tesi non erano adeguate. «Grrrr grrrr gra gra ti ho buttato fuori strada gra gra grrrr grrrr». Mi dice che ha scelto male. Aggiunge che dovrò riscrivere tutta l'introduzione vagliando i testi di una nota studiosa (fino a quel momento mai menzionata da lei neanche di striscio). Io ricordo a quello strano essere dalla verdastra mano palmata che manca appena una settimana alla consegna della tesi in segreteria, che non c'è più tempo. Alzo istintivamente il tono della voce e aggiungo in tono perentorio che non mi si può fare lavorare tre mesi su testi simili per poi liquidarmi dicendo che è stato un errore e che in una settimana non si possono riscrivere trenta pagine di introduzione vagliando altri saggi per centinaia di pagine. Ma lei incalza col suo vano, sdegnante e orribile gracidare: «Grrrr gra gra dobbiamo per forza. Devi per forza grrrrrrrrrrrrrrr!». Rispondo dicendo che deve ancora essere perfezionato pure il capitolo conclusivo della tesi, sulla base di ben centoventi pagine (delle circa trecento già redatte) che io le ho consegnato sei mesi prima, ma che lei non si è mai degnata di leggere. Lei incalza: «Grrrrrrrrrr graaaaaaa graaaaaaa bugiardo! Io ho letto e corretto tutto! Graaaaaaaa bugiardo!». «No. Non mi ha mai ridato indietro quelle pagine». Mi alzo e me ne vado lanciandole un'occhiata piena di disprezzo, pronto (se necessario) a saltare la seduta di laurea o a presentarmi a quella imminente anche senza relatore.
Il sogno continua. Sento un telefono squillare. È lei: «Graaa graa gra... ho trovato a casa mia le tue pagine. Avevi ragione. Me ne ero dimenticata. Vieni domattina e te le restituisco, ma non so se farò in tempo a correggerle tutte entro stasera gra graa graaa». «Poco m'importa» rispondo.
Il sogno continua ancora. Mi rivedo nuovamente nella stanza con la grande volta: è una stanza della sede di Facoltà. Rivedo la scrivania. Rivedo anche un paio di giovani esseri difficilmente classificabili e seduti ad un'altra scrivania: sono marito e moglie e collaborano con l'essere gracidante. Li riconosco perché si sono sempre rivelati terribilmente ipocriti nei miei confronti. Li rivedo in tutto il loro viscidume. La moglie tace e fa finta di nulla. È sempre stata amorfa e tale rimarrà per saecula saeculorum. Occasionalmente stiracchia quelle sue gambette magre magre e bianche bianche sotto la scrivania. Protrude le labbra così poco carnose facendosi una fungia (come la si chiama in Sicilia) stretta come quella di una vergine timorata del Padreterno. Infonde al proprio sguardo una sorta di languida e oscillante concentrazione amebica e gelatinosa. Il risultato è l'artato acuirsi della compunzione implicita nella sua espressione facciale da vedova bianca (vedova del resto è come se fosse, ma dignum est sorvolare sui motivi presunti o reali). Il marito solleva occasionalmente lo sguardo per fissarmi con aria di pietosa superiorità, credendo di non essere scorto da me. Le sue gambe formano uno stranissimo chiasmo: l'essere in discussione tiene infatti le ginocchia unite e i piedi molto distanziati l'uno dall'altro. Ogni tanto appoggia alle cosce le proprie mani, facendo in modo che il palmo di entrambe aderisca perfettamente alla superficie delle cosce stesse: la mano destra sulla coscia destra, la mano sinistra sulla coscia sinistra, i gomiti distaccati dal tronco e leggermente sollevati. Se indossasse uno scialle e ponesse sulla testa un fazzoletto nero, sembrerebbe un'oleografica e anacronistica comare da cortile dell'entroterra siculo. Poi s'alza dalla sedia e attraversa la stanza per avvicinarsi a uno scaffale. Lo fa con liquida fretta: sembra una libellula che si libra leggera nell'aria agitando le sue braccia e rifunzionalizzandole quasi fossero ali (le sue gambette si danno contestualmente a un trotto contenuto). È affettatamente leggiadro. Quel pizzico di virilità (presunta) che possiede sembra diluirsi, fino a dissolversi del tutto, in quel muliebre, patetico e ridicolo frullo di ali fittizie. Dall'altra parte della scrivania presso cui io sono seduto però c'è ancora quell'essere dalla mano palmata. Il viso non è più nebuloso: è la rana della foto.
È lei: la mia relatrice. Colei che mi fece vagare per le biblioteche romane. Colei che urlava in preda a un inspiegabile delirio quando sottoponeva a noi laureandi le correzioni alle nostre bozze. Colei che una volta urlò, contorcendosi come una menade infoiata, perché un periodo da me usato risultava leggermente allungato, in quanto conteneva due proposizioni relative paratatticamente collegate mediante congiunzione coordinante (lei che nel suo libro dalla copertina color verde vomito usa periodi logorroici lunghi più di mezza pagina e gravidi di patologica e lussureggiante ipotassi). La donna con cui ebbi la folle idea di mettermi a collaborare dopo la laurea (fino appunto a un decennio or sono). Colei che durante gli esami scritti urlava come una tigre infuriata colorandosi di un singolare verde-rossastro e seminando gratuitamente il terrore fra gli studenti e l'imbarazzo fra noi collaboratori. Colei che quasi tutte le mattine giungeva in stanza agitatissima e che (giusto per risultare originale) continuava a urlare come una bestia perché era giunta per l'ennesima volta in ritardo. Colei che (colmo dei colmi) mi ritrovai in uno dei corsi di abilitazione all'insegnamento, quando già me l'ero data a gambe da tempo e avevo riacquistato la gioia di vivere lontano da quel luogo contaminato e da quegli ectoplasmi. Colei che, in tale sede, ebbe l'inspiegabilmente inedita idea di farci elaborare una ricognizione della storiografia dal II al VII secolo con appendici al IX-X, per poi risalire all'indietro fino alla logografia ionica (perché un insegnante di scuola superiore tutte le mattine entra in classe e dice ai propri alunni: «Oggi vi parlerò di Socrate, Sozomeno, Teodoreto con una puntatina fino a Paolo Diacono, ma darò a voi il compito di rintracciare i prodromi della loro storiografia in Erodoto»). Colei che all'esame d'abilitazione mi disse che avrei dovuto correggere il titolo «De Pascha computus», da me citato nella mia relazione finale, in «Paschae computus», ignorando evidentemente che nel latino tardo sono tantissimi i titoli costruiti con de e l'ablativo d'argomento (e dire che esistette un tempo in cui fu pure incaricata di Latino Medievale). Alla sua osservazione (riporto l'espressione dopo averla tradotta ed edulcorata, essendo quella originale realizzata in una strana lingua che ha tutte le caratteristiche di un idioletto) «Uno come te, che si occupa pure di editing, dovrebbe accertarsi della correttezza delle forme e delle reggenze prima di usarle» risposi: «Anche lei dovrebbe farlo prima di proporre le sue. Anzi prima di aprire semplicemente la bocca». La rana era lei.