venerdì 9 marzo 2012

«Il Principe fulvo» di Salvatore Silvano Nigro e l'ultima danza del Gattopardo



Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Alessandra Wolff
Nel 1967 una troupe televisiva si presentò a Lucio, Casimiro e Agata Giovanna Piccolo nella loro residenza di Capo D'Orlando. Era guidata da Vanni Ronsisvalle. Lucio "cavalcava" una cassapanca barocca e ferrata. Il vecchio mobile conteneva le lettere che Tomasi aveva inviato ai cugini Piccolo dall'estero (soprattutto dall'Inghilterra e dalla Germania). Lucio raccontò che avrebbe voluto pubblicarle (sebbene ritenesse che poche fossero le lettere davvero pubblicabili), ma l'idea di doversi consultare con un'«orsa baltica» («imponente e irsuta, e tanto più temibile in quanto addestrata nei circhi massimi della psicanalisi») quale la vedova Lampedusa, cioè Alessandra Wolff, l'aveva fatto desistere. Meglio confinarle a Solicchiata, sulla fiumara di Naso, dove sarebbero state custodite dalle fate che abitavano la «casa ispirata». Ma le fate si rivelarono pessime guardiane e un giorno (molto vicino ai nostri) le lettere sarebbero state pubblicate in Inghilterra, rivelando non solo le due probabili fonti di ispirazione (gli stendhaliani «Mémoires d'un touriste» e le «Lettere scritte dall'Inghilterra» di Foscolo), ma anche i sulfurei strali sbeffeggianti scagliati da Tomasi contro lo stesso Lucio e contro le tendenze occultistiche dei Piccolo.

Lucio Piccolo
Quella di non potere bypassare l'eventuale autorizzazione dell'orsa baltica era forse una scusa: Lucio voleva solo nascondere «le lettere che lo riguardavano», nelle quali appariva pure nelle vesti di «Poeta peccatore, diviso fra le muscolosità portuali e le blasonature degli "esteti" ("eufemismo" a sua volta per indicare cose peggiori, effeminati e debosciati, nel racconto I gattini ciechi)». Più clemente era Tomasi nei confronti di Casimiro (dedito alla pittura), salvo ritenerlo un «Brachettone», cioè un seguace di Davide Ricciarelli: colui «che mise le brache ai nudi del Giudizio universale di Michelangelo».

Questo sulfureo e beffardo (ma anche irredimibilmente aristocratico e redimibilmente fascista e antisemita) Tomasi di Lampedusa, che si firma pure «Mostro», è il protagonista de «Il Principe fulvo» di Salvatore Silvano Nigro (Sellerio, 2012): il racconto di un romanzo («Il Gattopardo» ovviamente), ma anche dei «Racconti brevi» e – come dovrebbe essere ormai chiaro – dell'epistolario, nonché una biografia attraverso la quale Nigro ripercorre la "storia interna" del Lampedusa. Il libro fu fortemente voluto – come dichiara l'Autore – da Elvira Sellerio che non ebbe tuttavia il tempo di vederlo concluso. Nigro possiede la stessa sconfinata conoscenza bibliografica e artistica di Tomasi e ne fa tesoro costruendo un testo che è il trionfo del genio dell'esegeta, del ricercatore e del tessitore di trame, del linguista raffinato, dello stilista leggero capace di infondere orgasmiche gioie intellettuali.

Iniziamo dunque a familiarizzare con questo Lampedusa nigriano che ritiene il fascismo l'antidoto contro le «perversioni dei bolscevichi» (come già pare avesse fatto sua madre). E ai bolscevichi vengono assimilati i pederasti. Ma per fortuna l'Italia ha Mussolini che Tomasi crede pure di vedere in sogno, fiero peraltro di riceverne l'invito a dargli del "tu". Il Lampedusa odia del resto gli Ebrei («la inverosimile "grascia" dei lunghi cappotti verdi, il sudore che scorreva sotto i riccioli impomatati; il puzzo caprino») al punto da giustificare «i periodici massacri eseguiti, proprio a Kauno, dai saggissimi Russi». Maschere letterarie? Forse. Se si considera che dal 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali, Tomasi lavora alla sofferta palinodia del Fascismo, finendo per attribuire al Minculpop la responsabilità di certo appiattimento dell'informazione e ponendosi dalla parte di una coppia di amici Ebrei costretti a fuggire. Della palinodia è testimone il romanzo, in cui il principe Fabrizio muore nel 1883, lo stesso anno in cui a Predappio nasce Benito Mussolini: «i Gattopardi, i Leoni» appaiono così destinati ad essere soppiantati da creature meschine come «gli sciacalletti, le iene» e i «formiconi fascisti».

Una parata militare fascista in una piazza di Torino
«Date e luoghi non sono semplici tacche nel tempo e nello spazio. Inclinano alle trame, piuttosto; e alle dilatazioni narrative» ci avverte Nigro: il 1938 è l'anno della scomparsa di Ettore Majorana da un piroscafo diretto a Napoli; Rosario La Ciura, protagonista di «Lighea» (uno dei «Racconti brevi» del Lampedusa), scompare proprio mentre si dirige a Napoli viaggiando sul Rex. Due misteriose scomparse che si richiamano ad una terza: quella di Ippolito Nievo la notte fra il 4 e il 5 marzo 1861 al largo della penisola sorrentina, insieme a tutto l'equipaggio del vapore Ercole. Insomma ancora una volta i vecchi leoni detentori di un'aristocraticità egotica e fiera di se stessa (La Ciura), viziata dal senso di inadeguatezza (Majorana), increspata da quello talvolta ingenuo del dovere (Nievo), sono destinati ad essere inghiottiti da quello che per l'essere umano è il nulla, ma che è presumibilmente un Olimpo in cui si diventa mito: il premio conferito da una morte eroticamente vagheggiata e lucrezianamente dispensatrice di rigenerazione. Un bel premio in fondo che – è lecito supporre – non potrà certo essere accordato ai fautori dell'Unità d'Italia, né ai Sedara (i ricchi borghesi e i parvenu che si distinguono pure per le «facciatine Impero», così kitsch rispetto alle nobili architetture barocche e rococò delle dimore degli aristocratici), né ai «formiconi fascisti» (i rappresentanti "veri" e deteriori di quell'Unità, come sembra potere essere inferito dalle due date topiche del 1883 e del 1938). E lei, la morte, è Venere: ora sirena che si dà a La Ciura (come a Nievo e a Majorana), ora stella vagheggiata dal principe Fabrizio e poi giovinetta in abito da viaggio che gli si concede transumanandolo.

Tre furono le figlie femmine di Fabrizio: Caterina, Carolina e Concetta. Quest'ultima fu il nervo scoperto della prole saliniana fin dal nome: «La rima isola Concetta» precisa Nigro. Perché a lei, aristocratica quanto il padre, Tomasi affida il compito di spazzare via una volta per tutte ciò che di Fabrizio rimane: Bendicò che è nome, stemma, casato. Proprio lei, che il padre volle preservare dall'ingresso in un mondo nel quale non si sarebbe mai integrata (non permettendole di amare Tancredi), lancia dalla finestra ciò che resta dell'alano. E nel corso di quel volo «au ralenti» per un istante la carcassa di Bendicò assume la forma del «Gattopardo araldico di casa Salina con il quale il Principe si era sempre identificato. Il quadrupede tiene sollevato "l'anteriore destro". Pare che imprechi. La visione è dantesca»: se Vanni Fucci nel canto XXIV dell'«Inferno» dantesco «fa le fiche con entrambe le mani alzate. Qui basta una zampa sola». È una conclusione densa di disperazione e di rabbia. Forse Fabrizio (come La Ciura) sta ormai godendo dell'immortalità donatagli da Venere, ma sulla terra si è immortali finché dura la «memoria attiva del casato». Concetta la cancella. Fabrizio muore definitivamente per la seconda volta dopo un ultimo cinematografico e fiero – ma disperato – tentativo di "danza araldica". Di questa morte avrebbe sicuramente gioito quel «cornuto» di Garibaldi.

Ivo Flavio Abela

Claudia Cardinale:
Angelica nel film "Il Gattopardo" di Luchino Visconti