mercoledì 14 dicembre 2011

Gli eMuli di Mariastella

Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 288 del 12 dicembre 2011 il Decreto relativo al TFA, cioè al Tirocinio Formativo Attivo per gli aspiranti docenti del futuro (quale? Non ancora pervenuto, ma c'è tempo): un concentrato di tratti distintivi dell'italiano neostandard (ovvero di quella "koinè" panitaliana nata dall'interazione fra l'italiano standard e gli italiani regionali). Basti leggere l'articolo 9 del Decreto.

«Il test preliminare e' costituito da 60 quesiti, ciascuno formulato con quattro opzioni di risposta, fra le quali il candidato ne deve individuare l'unica esatta. Un numero pari a 10 quesiti sono volti a verificare le competenze in lingua italiana, anche attraverso quesiti inerenti la comprensione di uno o piu' testi scritti. Gli altri quesiti sono inerenti alle discipline oggetto di insegnamento della classe di concorso».

A parte l'uso di e non accentato, ma accompagnato dal segno d'elisione (come accade anche in piu'), si noti il ne ridondante e pleonastico rispetto a fra le quali, che s'inserisce in un meccanismo di topicalizzazione tipico del parlato (una sorta di dislocazione a sinistra rispetto peraltro a una formula grammaticale, cioè appunto fra le quali, e non a una parola piena: risultato ancora più grave e più animalesco). Si noti ancora Un numero pari a 10 quesiti sono volti: tipico caso di concordanza a senso (soggetto singolare, predicato plurale). E dimenticavo: si veda l'oscillazione fra inerenti la comprensione e inerenti alle discipline, denunciante la crassa ignoranza di chi non ha dimestichezza alcuna con un uso quantomeno decoroso della lingua italiana, se non riesce a padroneggiare certe reggenze.

E tutto ciò (ironia della sorte) proprio nell'articolo in cui vengono menzionate le famigerate competenze in lingua italiana: il bue che dice all'asino "Cornuto!".

Ivo Flavio Abela

venerdì 11 novembre 2011

"Hic" (il "nunc" non importa)

Giancarlo Montelli (illustratore)
"Il cavaliere inesistente"
«Tutto questo che ora contrassegno con righine ondulate è il mare, anzi l'Oceano. Ora disegno la nave su cui Agilulfo compie il suo viaggio, e più in qua disegno un'enorme balena, con il cartiglio e la scritta 'Mare Oceano'. Questa freccia indica il percorso della nave. Posso fare pure un'altra freccia che indichi il percorso della balena; to': s'incontrano. In questo punto dell'Oceano dunque avverrà lo scontro della balena con la nave, e siccome la balena l'ho disegnata più grossa, la nave avrà la peggio. Disegno ora tante frecce incrociate in tutte le direzioni per significare che in questo punto tra la balena e la nave si svolge un'accanita battaglia. Agilulfo si batte da suo pari e infligge la sua lancia in un fianco del cetaceo. Un getto nausenate d'olio di balena lo investe, che io rappresento con queste linee divergenti» (Italo Calvino, «Il cavaliere inesistente», I edizione Oscar grandi classici maggio 1996, cap. IX, p. 385).

In realtà il capitolo IX di quello che è il terzo (ma che Calvino stesso considerò ora il primo, ora il terzo) romanzo della cosiddetta "trilogia araldica" andrebbe letto per intero. È infatti il capitolo in cui si condensa il potenziale iconico (anzi cartografico) della scrittura. Com'è ben noto, Calvino narra per bocca (o per mano) di una monaca (di cui solo alla fine si scoprirà la vera identità), costretta a scrivere dalla sua superiora. La monaca sostiene in più d'un luogo che scrivere (narrare) è difficile e dunque, verso la conclusione del romanzo, è esausta e "abdica" in favore di una rappresentazione "cartografica" (pongo il termine fra virgolette alte in quanto lo uso in accezione connotata e non letterale): ne viene fuori un testo "ossimoricamente" verbo-visivo in quanto è visivo pur non contenendo alcuna immagine (infatti è realizzato in linguaggio verbale). Quella calviniana sembra qui una visione piuttosto strutturalista e desaussuriana del linguaggio verbale: De Saussure diceva che nella nostra mente si creano immagini acustiche quando sentiamo una parola. Ma noi potremmo aggiungere che si creano immagini visive quando la leggiamo, com'è il caso di chi legge un romanzo. Calvino va ancora più in profondità: crea la figura dello scrittore (non il pittore, il fotografo, ecc. ecc., ma lo scrittore) che si esprime per immagini verbali. Penso sia uno dei casi più eclatanti di "fusione" fra codici.

E per libera associazione mentale penso all'«Atlante di filosofia» pubblicato nel 2009 da Einaudi (http://www.einaudi.it/libri/libro/elmar-holenstein/atlante-di-filosofia/978880619825): un enorme rappresentazione cartografica del pensiero e della sua evoluzione, in cui (finalmente) domina lo spazio e dunque domina la simultaneità, non più il tempo, come nelle tradizionali storie del pensiero filosofico (cui si affiancano quelle della letteratura, dell'arte, della musica, ecc. ecc.). Ciascuno adesso può scegliere il proprio percorso.

Ivo Flavio Abela

giovedì 5 maggio 2011

Vergheide

La Provvidenza in vizziniano ponto,
Tra 'l Capo de' Mulini e i faraglioni,
Inabissossi (roba da coglioni),
Quale Argo pagante ai ghiacci il conto.

E 'l Verga rusticano appare tonto,
Se carica il vasel non con milioni
Di rare gemme o di decapodoni,
Ma di leguminose sanza sconto.

E 'l Verga sol di nespole s'intende,
Di zappa e vanga e non di vela o fiocco:
I marinai trezzan son contadini.

Per lui però carriera il volo prende:
Negli atenei di premi v'è trabocco.
Non lo guardar, se cerchi masculini.

Ivo Flavio Abela


È la ricodifica sottoforma di sonetto (e in una lingua che prova a fare il verso a quella di noti poeti italiani) del seguente commento pubblicato dal prof. Tino Vittorio sulla sua pagina facebookiana (echeggiato peraltro nel suo libro: «Storia del mare. Questione meridionale come questione mediterranea»):

«Il mare di Vizzini dove per fare una bracciata (da Acitrezza a Capomulini) la Provvidenza s'inabissò come il Titanic tra i ghiacci. Il tutto per un carico di lupini che non erano aragoste né diamanti di contrabbando, ma alimento per porci che non valeva nulla. I marinai di Verga sono dei cretini o Verga è/era un cretino fertilissimo che produce cattedre, riconoscimenti universitari, stipendi e ... professori veri, anzi veristi! E 'na masculina in tutto quel romanzo non si vede!».

venerdì 11 febbraio 2011

Le rane e la Storia. Un binomio inedito

Possiate perire, progenie di Malocchio funesta: da ora con l'arte
[giudicate] la poesia, e non con lo scheno persiano.
E non cercate da me che un canto molto rimbombante
produca. Tuonare non spetta a me, spetta a Zeus!

Callimaco, fr. 1, 17-20 Pfeiffer.


E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor dell'acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana;
livide, insin là dove appar vergogna
eran l'ombre dolenti nella ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.

Dante Alighieri, «Divina Commedia»
«Inferno» XXXII, 31-36.


Tu su la bruna valle alta sfavilli,
Barga, coi cento lumi tuoi. Rimane
l'ombra del pianto fra un gridìo di grilli
e un interrotto gracidar di rane.

Giovanni Pascoli, da «Primi poemetti»
«Il soldato di S. Piero in Campo» VI.


Un giorno come tanti cerco qualcosa su Google. M'imbatto casualmente in quest'immagine. Istintivamente passo avanti perché non è ovviamente ciò che cerco. Ma torno indietro: la fotografia mi sussurra interiormente qualcosa. Il soggetto ha un'aria familiare (unheimlich). Mi dico: «Io questa qui l'ho già vista!». Poi mi chiedo dove. Ritorno a fissare l'immagine. Quella bocca larga. Ma sì: l'ho già vista. La conosco. Quegli occhi vagamente sornioni che in verità nascondono chissà quali terribili pensieri e quali profondi dissidi interiori. Ma certo che li ho visti! Pure quel mento che fa tutt'uno col collo. Ma sicuro che l'ho già visto! E pure quello strano incarnato olivastro.

Non mi do pace. Cerco di concentrarmi. Concepisco istintivamente l'idea che debba essere passato almeno un decennio. Perché la concepisco? Non so. Cerco allora di lasciare che una rete di libere associazioni prenda forma. Che cosa facevo e dove mi trovavo dieci anni fa? Dieci anni fa collaboravo con un noto Dipartimento di un Ateneo della gloriosa Repubblica dell'Italia Unita. E allora? Come potrebbe tutto ciò ricondurmi a quell'essere riprodotto nell'immagine? Provo a ricordare: forse in uno dei cortili della sede di quella Facoltà di Lettere esisteva uno stagno? No. Non mi risulta. Chiamo un vecchio collega. «Ricordi quando si lavorava in Dipartimento? Ricordi se c'era uno stagno in Facoltà?». «Certo. E tu ci sguazzavi dentro tutte le mattine». Chiudo il telefono, ma non mi do pace. E poiché ho altro da fare, abbandono l'idea di ricordare, confidando in Freud per il quale il deja vu altro non è che qualcosa che appartiene al nostro inconscio e che solo occasionalmente e spontaneamente riemerge sul filo della coscienza. Continuo la ricerca.

Intermezzo. Le rane, i ranocchi, i rospi, i girini mi fanno schifo. Tutto ciò che è viscido mi fa schifo: mi provoca nausea. Lucertole, gechi, serpenti. Tutto ciò che è viscido mi provoca ribrezzo. Non potrei toccare neanche un'anguilla.

È notte. Cerco di addormentarmi. Non mi va di stare al computer. Non mi va di leggere. Non mi va di ascoltare musica. Al buio inizio a pensare che sarebbe bene contare le pecore. No. Anzi: sarebbe meglio contare le rane. Le rane! Perché proprio le rane? Già: mi torna in mente la rana della foto. Istintivamente mi alzo e mi reco verso una libreria, su uno scaffale della quale ingoia avidamente polvere la mia tesi di laurea. Ma che cosa potrebbe mai accomunare una Provincia romana ad una rana? Sfoglio la tesi. Mi soffermo sul catalogo dei circa venticinque siti (più o meno urbani) di cui ho ricostruito le vicende attraverso il vaglio delle fonti letterarie, di quelle numismatiche, di quelle epigrafiche, delle emergenze monumentali. Che cosa possono avere Ancyra, Tavium, Pessinous, The pilgrim's road, le lettere di San Paolo, la prosopografia, gli spostamenti di confine del territorio provinciale, Costantino, il magister militum per Orientem e quello per Armeniam con una rana? Ripenso alle giornate trascorse all'École Française de Rome, al Deutsche Archäologische Institut ancora a Roma, all'Augustinianum proprio vicino al colonnato di piazza San Pietro (a mezzogiorno il campanone di San Pietro si metteva a suonare e le vibrazioni facevano tremare il tavolo su cui adagiavo i libri). Ma in quei luoghi non c'erano rane. E comunque la tesi di laurea mi riporterebbe indietro ben oltre il decennio da me inizialmente ipotizzato per istinto. Ripongo la tesi. Torno a letto. Stavolta mi addormento all'istante.

Sogno. Mi trovo in una sorta di ufficio avente come tetto una grande volta. Il pavimento è costituito da piastrelle di argilla cotta (esagonali oppure ottagonali). Mi vedo seduto ad una scrivania con una bozza della mia tesi di laurea in mano (evidentemente devo davvero regredire ben oltre il decennio). Qualcuno sta dall'altra parte della scrivania. Non capisco bene chi sia: il viso sembra nebuloso. Ma ha una stranissima mano palmata di colore verdastro. Con quella mano regge una matita. Con quella matita pone alcuni segni sulla mia bozza. Ne sento la voce. Non è voce umana. Gracida. Sì: gracida. Gracida scusandosi.

Mi gracida che mi ha buttato fuori strada. Mi gracida che le circa seicento pagine di saggi e articoli che mi ha fornito affinché io ne traessi idee utili per la redazione dell'introduzione alla mia tesi non erano adeguate. «Grrrr grrrr gra gra ti ho buttato fuori strada gra gra grrrr grrrr». Mi dice che ha scelto male. Aggiunge che dovrò riscrivere tutta l'introduzione vagliando i testi di una nota studiosa (fino a quel momento mai menzionata da lei neanche di striscio). Io ricordo a quello strano essere dalla verdastra mano palmata che manca appena una settimana alla consegna della tesi in segreteria, che non c'è più tempo. Alzo istintivamente il tono della voce e aggiungo in tono perentorio che non mi si può fare lavorare tre mesi su testi simili per poi liquidarmi dicendo che è stato un errore e che in una settimana non si possono riscrivere trenta pagine di introduzione vagliando altri saggi per centinaia di pagine. Ma lei incalza col suo vano, sdegnante e orribile gracidare: «Grrrr gra gra dobbiamo per forza. Devi per forza grrrrrrrrrrrrrrr!». Rispondo dicendo che deve ancora essere perfezionato pure il capitolo conclusivo della tesi, sulla base di ben centoventi pagine (delle circa trecento già redatte) che io le ho consegnato sei mesi prima, ma che lei non si è mai degnata di leggere. Lei incalza: «Grrrrrrrrrr graaaaaaa graaaaaaa bugiardo! Io ho letto e corretto tutto! Graaaaaaaa bugiardo!». «No. Non mi ha mai ridato indietro quelle pagine». Mi alzo e me ne vado lanciandole un'occhiata piena di disprezzo, pronto (se necessario) a saltare la seduta di laurea o a presentarmi a quella imminente anche senza relatore.

Il sogno continua. Sento un telefono squillare. È lei: «Graaa graa gra... ho trovato a casa mia le tue pagine. Avevi ragione. Me ne ero dimenticata. Vieni domattina e te le restituisco, ma non so se farò in tempo a correggerle tutte entro stasera gra graa graaa». «Poco m'importa» rispondo.

Il sogno continua ancora. Mi rivedo nuovamente nella stanza con la grande volta: è una stanza della sede di Facoltà. Rivedo la scrivania. Rivedo anche un paio di giovani esseri difficilmente classificabili e seduti ad un'altra scrivania: sono marito e moglie e collaborano con l'essere gracidante. Li riconosco perché si sono sempre rivelati terribilmente ipocriti nei miei confronti. Li rivedo in tutto il loro viscidume. La moglie tace e fa finta di nulla. È sempre stata amorfa e tale rimarrà per saecula saeculorum. Occasionalmente stiracchia quelle sue gambette magre magre e bianche bianche sotto la scrivania. Protrude le labbra così poco carnose facendosi una fungia (come la si chiama in Sicilia) stretta come quella di una vergine timorata del Padreterno. Infonde al proprio sguardo una sorta di languida e oscillante concentrazione amebica e gelatinosa. Il risultato è l'artato acuirsi della compunzione implicita nella sua espressione facciale da vedova bianca (vedova del resto è come se fosse, ma dignum est sorvolare sui motivi presunti o reali). Il marito solleva occasionalmente lo sguardo per fissarmi con aria di pietosa superiorità, credendo di non essere scorto da me. Le sue gambe formano uno stranissimo chiasmo: l'essere in discussione tiene infatti le ginocchia unite e i piedi molto distanziati l'uno dall'altro. Ogni tanto appoggia alle cosce le proprie mani, facendo in modo che il palmo di entrambe aderisca perfettamente alla superficie delle cosce stesse: la mano destra sulla coscia destra, la mano sinistra sulla coscia sinistra, i gomiti distaccati dal tronco e leggermente sollevati. Se indossasse uno scialle e ponesse sulla testa un fazzoletto nero, sembrerebbe un'oleografica e anacronistica comare da cortile dell'entroterra siculo. Poi s'alza dalla sedia e attraversa la stanza per avvicinarsi a uno scaffale. Lo fa con liquida fretta: sembra una libellula che si libra leggera nell'aria agitando le sue braccia e rifunzionalizzandole quasi fossero ali (le sue gambette si danno contestualmente a un trotto contenuto). È affettatamente leggiadro. Quel pizzico di virilità (presunta) che possiede sembra diluirsi, fino a dissolversi del tutto, in quel muliebre, patetico e ridicolo frullo di ali fittizie. Dall'altra parte della scrivania presso cui io sono seduto però c'è ancora quell'essere dalla mano palmata. Il viso non è più nebuloso: è la rana della foto.

È lei: la mia relatrice. Colei che mi fece vagare per le biblioteche romane. Colei che urlava in preda a un inspiegabile delirio quando sottoponeva a noi laureandi le correzioni alle nostre bozze. Colei che una volta urlò, contorcendosi come una menade infoiata, perché un periodo da me usato risultava leggermente allungato, in quanto conteneva due proposizioni relative paratatticamente collegate mediante congiunzione coordinante (lei che nel suo libro dalla copertina color verde vomito usa periodi logorroici lunghi più di mezza pagina e gravidi di patologica e lussureggiante ipotassi). La donna con cui ebbi la folle idea di mettermi a collaborare dopo la laurea (fino appunto a un decennio or sono). Colei che durante gli esami scritti urlava come una tigre infuriata colorandosi di un singolare verde-rossastro e seminando gratuitamente il terrore fra gli studenti e l'imbarazzo fra noi collaboratori. Colei che quasi tutte le mattine giungeva in stanza agitatissima e che (giusto per risultare originale) continuava a urlare come una bestia perché era giunta per l'ennesima volta in ritardo. Colei che (colmo dei colmi) mi ritrovai in uno dei corsi di abilitazione all'insegnamento, quando già me l'ero data a gambe da tempo e avevo riacquistato la gioia di vivere lontano da quel luogo contaminato e da quegli ectoplasmi. Colei che, in tale sede, ebbe l'inspiegabilmente inedita idea di farci elaborare una ricognizione della storiografia dal II al VII secolo con appendici al IX-X, per poi risalire all'indietro fino alla logografia ionica (perché un insegnante di scuola superiore tutte le mattine entra in classe e dice ai propri alunni: «Oggi vi parlerò di Socrate, Sozomeno, Teodoreto con una puntatina fino a Paolo Diacono, ma darò a voi il compito di rintracciare i prodromi della loro storiografia in Erodoto»). Colei che all'esame d'abilitazione mi disse che avrei dovuto correggere il titolo «De Pascha computus», da me citato nella mia relazione finale, in «Paschae computus», ignorando evidentemente che nel latino tardo sono tantissimi i titoli costruiti con de e l'ablativo d'argomento (e dire che esistette un tempo in cui fu pure incaricata di Latino Medievale). Alla sua osservazione (riporto l'espressione dopo averla tradotta ed edulcorata, essendo quella originale realizzata in una strana lingua che ha tutte le caratteristiche di un idioletto) «Uno come te, che si occupa pure di editing, dovrebbe accertarsi della correttezza delle forme e delle reggenze prima di usarle» risposi: «Anche lei dovrebbe farlo prima di proporre le sue. Anzi prima di aprire semplicemente la bocca». La rana era lei.

domenica 6 febbraio 2011

L'inflazione del postmoderno

Il postmoderno lyotardiano mi sembra un abusato contenitore in cui viene posto tutto ciò che sembra non riducibile ad altra categoria, tutto ciò che sfugge alla possibilità di lasciarsi definire, compreso tutto ciò che appare nuovo e "perturbante" (già: "unheimlich". Sapevate che ognuno può costruire un'intera carriera sulla continua rifunzionalizzazione del concetto di 'unheimlich'?).

"Frammentazione" è la parola d'ordine. Bene. Vero è che la frammentazione è tipica della società dell'informazione basata sui nuovi (ormai relativamente nuovi) media. Ma non c'è mai stata frammentazione prima della fine del II millennio? Quanto avvenne (per fare un esempio) nell'Ellenismo non fu frammentazione? E quanto avvenne in quella che fu definita Tarda Antichità non lo fu a maggior ragione?

L'arte tardoromana era arte moderna a tutti gli effetti (Franz Wickhoff docet) e l'alta richiesta d'arte in quell'epoca fa parlare gli studiosi della Scuola Viennese di «Industria artistica tardoromana» (Alois Riegl docet ancora di più con un magnifico volume "omonimo", la cui parte più interessante è dedicata alla massiccia produzione di fibule). Se l'arte tardoantica fu moderna (compresi i rilievi degli archi di trionfo, di qualche colonna coclide e dei sarcofagi), se il passo successivo fu l'annullamento della terza dimensione - vedasi il fondo aureo nelle produzioni iconografiche bizantine (la quale abolizione significava anche abdicazione della corporeità dell'io) - se il passo ancora successivo fu il "postmoderno" dell'arte figurativa di Cimabue, perché dire che il postmoderno vero sia solo quello attuale? Solo in nome della infinita riproducibilità dell'informazione? Solo in nome della velocità imposta alla vita dai nuovi mezzi di comunicazione?

E perché non dire che Platone stesso ha già del postmoderno quando nel «Fedro» si scaglia contro la scrittura che porta il proprio prodotto testuale a rotolare lontano da sé, a non potere più garantirgli un'univocità interpretativa, a non potere più garantire quella sua integrità di significato e d'uso quale solo l'autore gli può garantire? Non è implicita in simile discorso la paura della riduzione del proprio io creante a favore dell'invasione di una molteplicità di io interpretanti? L'io unico e garante dell'autore si frammenta nella molteplicità degli io interpretanti.

E non è postmoderno il "symbolon" platonico (un essere che vive a metà: scisso, fratturato)? E l'androgino platonico? In quanto pago di se stesso, non tendente ad alcunché, ecc. ecc., non è allora postmoderno, se dovessimo stare a Lyotard. L'androgino (così "integro") è un tipico personaggio da grande narrazione metafisica (qualcosa mi dice che starebbe bene nell'idealismo, tipico di chi si pasce pago di osservare soltanto la propria pancia e di ragionare con il proprio ombelico): insomma è moderno e nulla più.

Capisco che forse ho banalizzato troppo e che ho volutamente ignorato (usando come schermo il capzioso quanto tendezioso richiamo alla Scuola Viennese) che il termine 'postmoderno' è stato coniato sulla base delle questioni cronologiche e terminologiche relative alle periodizzazioni tradizionali in cui viene - lana caprina o no? - suddivisa la Storia. Ma tale è stata la riflessione partorita da un input lanciato da un brillante intellettuale mio conoscente proprio a proposito dell'androgino platonico.

Ivo Flavio Abela

Giambattista Gigola, «Il simposio platonico».
Ca. 1790, Musei Civici di Arte e Storia, Brescia.