mercoledì 27 ottobre 2010

Non s'aveva da fare

Non riesco ad allinearmi alle posizioni di quanti, spinti magari dalle più oneste ragioni, difendono a spada tratta l’Unità d’Italia. Quanto segue è il frutto della tessitura di estemporanee e libere riflessioni.

Quella della possibilità di unificare l’Italia era un’idea non idea. Come fa un’idea ad essere contemporaneamente una non idea? Come fa un’idea ad essere l’opposto di se stessa? Chiarisco allora: «idea non idea» è soltanto un eufemistico calembour da me usato per dire che l’Italia è esistita solo nell’immaginazione di quanti si sono fermati a considerare che le Alpi separassero una penisola dal resto d’Europa. Non hanno però notato che in Italia i concetti di regione culturale e regione geografica e amministrativa non coincidono.

Le Alpi costituiscono in realtà un confine paradossalmente fittizio (anche se fisicamente reale) perché ciò che è contenuto a Sud di esse è culturalmente eterogeneo: a sud delle Alpi esistono altre barriere molto marcate (più subdole e insormontabili di una catena montuosa) che ci si ostina a non volere vedere, presi da una romantica quanto giocosa vena neo-risorgimentale e da una visione tanto deterministica quanto superata alla Le Roy Ladurie (sono rimasto perplesso alcuni anni fa dalla lettura di «Tempo di festa, tempo di carestia», della quale condividevo soltanto, e per giunta relativamente, la riflessione sugli effetti deterministici del clima). Proprio quelle barriere che non vediamo separano i cittadini italiani e li portano ad essere “antropologicamente” individualisti.

I linguisti sono soliti individuare cinque aree macroregionali nel territorio italiano, a ciascuna delle quali corrisponde una specifica varietà regionale di italiano (aree che diventano addirittura sei nell’analisi di chi suddivide ulteriormente quella settentrionale in nord-occidentale e in nord-orientale). Se la lingua rispecchia anche le matrici culturali secondo le quali la realtà viene elaborata (e ogni varietà regionale è una lingua a tutti gli effetti, sebbene abbia istituzionalmente come lingua-tetto l’italiano standard della tradizione letteraria e della grammatica ufficiale), ne uscirebbe confermata l’eterogeneità culturale di esseri umani che si vedono costretti a vivere nella stessa regione geografico-amministrativa. E la convivenza fra culture diverse è sempre difficile.

E che cosa hanno fatto quanti non si sono curati di prendere in considerazione quelle subdole barriere? Hanno pensato che una lingua letteraria (mai parlata di fatto da nessuno) potesse costituire un elemento di unificazione. Una lingua letteraria e non una lingua di comunicazione: follia. Follia ancora maggiore se si considera che l’italiano medio, geneticamente paraderetano e accidioso, ha sempre badato al proprio particulare.

Non può certo cambiare la sostanza delle cose il fatto che quella lingua fosse il fiorentino di Dante Alighieri. Vero è che quel fiorentino risultava lingua meno marcata delle altre. Ma sempre lingua imposta letterariamente era. E le lingue non possono essere imposte. Quando poi arrivò Galileo Galilei, il problema si ripropose: per denominare le invenzioni che cosa fare? Usare le tipologie linguistiche da arsenale (tutte diverse fra loro per motivi di diatopia)? Galilei scelse di risemantizzare vocaboli comuni della lingua fiorentina, gettando così le basi della lingua della prosa scientifica italiana. Ma tale azione aggiunse artificialità ad artificialità. Del resto perché in Europa non ha mai funzionato l’esperanto? Perché qualsiasi lingua imposta a tavolino non funziona. Perché una lingua imposta a tavolino presuppone contenuti da veicolare pure scelti a tavolino. Perché una lingua imposta a tavolino frena artificiosamente il flusso vitale tipico di ogni lingua naturale. Ma Galilei la ebbe vinta comunque perché l’imposizione continuava ad essere forte. Si voleva creare l’Italia così?

Oggi ci si lamenta perché i nostri allievi (tanto a scuola quanto all’università) non sanno scrivere. Ci si lamenta contemporaneamente del fatto che i dialetti si perdono (anche se il loro stato di salute non è poi così grave).

I dialetti si perdono a favore di una koiné che altro non sarebbe se non un compromesso fra una base fortemente regionalizzata (in cui i geosinonimi la fanno da padroni) e una sovrastruttura derivata dalla ristandardizzazione a fini comunicativi della lingua letteraria (di cui sono moderni campioni Maria De Filippi e tanti altri individui di dubbio spessore culturale). E tale variante neostandard è l’esito linguistico (triste) di una unità nazionale imposta a suo tempo, che oggi si tenta di fare uscire dalla porta (ciascuno per specifiche convinzioni variabili da persona a persona), ma che chi ripiega sul passato vuole maldestramente fare rientrare dalla finestra.

Certo è che Manzoni fu profeta e vide bene quando fece il suo risciacquo in Arno. Dalla querelle con Isaia Graziadio Ascoli uscì perdente, ma la Storia della Lingua (che sempre Storia è) gli diede ragione, se è vero che la stragrande maggioranza dei tratti linguistici individuabili nella sua quarantana sono tali quali parte di quei trentacinque tratti che Sabatini codificò nel 1985 come tipici appunto della lingua italiana neostandard (cioè della koiné di cui sopra) e che tali si mantengono, nonostante la celoduristica invasione della Lega, ancora nel 2010.

Eppure quella koiné è incolpevole (e incolpevole è anche la comunità di parlanti che ne fa uso): è una lingua naturale a tutti gli effetti (naturale nell’accezione desaussuriana della parola), in quanto corrisponde all’esito naturale cui è pervenuta una lingua inizialmente imposta. Quella koiné non può essere frenata. Non dovremmo meravigliarci allora quando, negli elaborati dei giovani italiani, vediamo dominare i deittici, i lui e lei al posto di egli ed ella, gli imperfetti al posto dei corrispondenti tempi e modi normativi nel periodo ipotetico dell’irrealtà, e soprattutto quelle espressioni tendenti all’anacoluto che, nella loro formulazione più innocua, sono le dislocazioni a destra e a sinistra, il cosiddetto c’è presentativo e soprattutto le frasi scisse o frante. E chissà perché, se una lingua come il francese ha già elaborato e metabolizzato, attraverso la loro grammaticalizzazione, le frasi scisse, non dovrebbe farlo quella italiana. La moderna letteratura ne fa uso quanto i giovani. Qualche anno fa vinse lo Strega (uno dei premi in genere peggio assegnati) «Il viaggiatore notturno» di Maurizio Maggiani: il trionfo del neostandard. Esperimenti più linguisticamente ortodossi (quali, per esempio, quelli di Umberto Eco, di Isabella Santacroce e di Domenico Seminerio, per fare tre nomi che mi si presentano alla mente istintivamente) diventano irrilevanti nella deriva del neostandard. Non lamentiamoci se i nostri studenti usano tale lingua ristandardizzata: non è colpa loro, ma dell’Italia finalmente unita.

Benedetto Radice
Un’Italia che fu unita a fucilate e non solo (per quanto concerne il Sud) contro i Borboni. Basti ricordare il triste caso di Bronte, narrato da Benedetto Radice nel suo «Nino Bixio a Bronte» per il quale Leonardo Sciascia scrisse un’illuminante e spietatamente lucida prefazione nel 1963 (mi riferisco al testo pubblicato dalle Edizioni Salvatore Sciascia di Caltanissetta). Radice fu mosso da «carità del natio loco, gratuitamente marchiato d’infamia dagli scrittori garibaldini, e dall’umana simpatia e pietà per quell’avvocato Lombardo che Bixio sbrigativamente aveva fatto fucilare come capo della rivolta». E perciò ancora più sincero fu il suo tentativo di fare emergere la verità contro la storiografia filogaribaldina ufficiale. Sciascia peraltro insiste sull’indignazione morale del Radice (quant’era spudorato Bixio la Belva! Al giovane che voleva portare le uova a Lombardo, il giorno prima dell’esecuzione, avrebbe detto: «Non ha bisogno di uova, domani avrà due palle in fronte»). Del resto che il Radice fosse un uomo di grandissima dignità morale è testimoniato anche dall’abnegazione con cui non si risparmiò durante il colera che colpì Bronte e buona parte della Sicilia.

Dal film
«Bronte. Cronaca di un massacro
che i libri di storia non hanno raccontato»
di Florestano Vancini
In altri termini Radice agiva spinto da una morale sincera e profondamente impregnata di umanità: quella che dimostrò di non possedere lo stesso Verga quando sostituì il pazzo con il nano in «Libertà», facendosi paladino di una forma quasi machiavellica di mistificazione artistica. Non c’era moralità in Garibaldi e in Bixio. Non c’era soprattutto in Bixio che apprezzava moltissimo i privilegi garantitigli da Mrs. Nelson: colei che faceva pagare, come ricorda ancora Sciascia, ammende fino a 39 ducati (ciò che un bracciante non avrebbe mai guadagnato col lavoro di una vita) ai poveretti che rubacchiavano un po’ di legna dalle sue riserve boschive. Sciascia stesso dolorosamente ricorda come quella mistificazione fosse dettata da un ipocrita «sentimento della nazione». Alla Camera Bixio disse: «Potrei citare fatti dolorosi in cui mi son trovato nella necessità di far fucilare». Nauseante.

Oggi i nodi di un’Unità imposta agli incolpevoli abitanti di una terra soltanto geograficamente unitaria stanno apocalitticamente venendo al pettine in blocco.

Ivo Flavio Abela

Appendice
http://www.youtube.com/watch?v=7e2Hfg7oGhc&feature=player_embedded#! è il link ad un’intervista a Florestano Vancini, regista del film «Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato» (1972), ispirato alla citata novella verghiana «Libertà». Se il linguaggio usato da Visconti nel film «La terra trema» sarebbe un siciliano tanto artificiale al punto da risultare a tratti incomprensibile agli stessi siciliani, come Sciascia stesso rilevò, diversamente agì Florestano Vancini nel suo film. Alla sceneggiatura collaborò inizialmente lo stesso Sciascia intervenendo sulla costruzione delle scene, ma non sui dialoghi, la cui redazione fu invece realizzata tardivamente, quando la collaborazione con Sciascia era già cessata. Tuttavia l’intellettuale racalmutese approvò, uscito il film, il fatto che Vancini avesse usato alcune battute realmente verbalizzate da quanti parteciparono al processo, battute ricavate dai numerosissimi documenti raccolti da Benedetto Benedetti durante il suo viaggio di ricognizione a Bronte e a Catania.

mercoledì 20 ottobre 2010

L'ipertesto. Una forma di testualità poi non così nuova

Il titolo del presente intervento si ispira ad alcune pagine de L’ipertesto. Tecnologie digitali e critica letteraria di George Landow (Bruno Mondadori, 1998, 59-77). In un’epoca in cui l’ipertesto iniziava la massiccia invasione di ogni campo dell’attività umana, lo studioso sosteneva che la flessibilità, l’apertura e la reticolarità dei collegamenti elettronici stessero dando vita a una concezione di testualità multipla o di ipertestualità complessa che avrebbe costituito di fatto una nuova forma di testualità e scrittura. Oggi il passo sembra ormai essere stato compiuto del tutto. Con l’obiettivo di far emergere le implicazioni semiotiche, cognitive ed estetiche dell’uso dell’ipertesto, ne verranno di seguito analizzati l’essenza, il funzionamento e la logica e ne sarà brevemente tracciata la storia delle applicazioni.


1. L’essenza, il funzionamento e la logica dell’ipertesto


Tutti sappiamo ovviamente che cosa sia un ipertesto. Tuttavia appare utile fornirne comunque una breve descrizione che ne metta a fuoco soprattutto le caratteristiche tecniche: queste ultime infatti determinano la differenza fra l’ipertestualità digitale e quella cartacea.

Il termine hypertext fu coniato da Ted Nelson nel 1965 con il significato di «non-sequential writing» (A File Structure for the complex, the Changing and the Indeterminate, 20th National Conference, New Jork, Association for Computing Machinery, 1965). L’ipertesto consente modalità di lettura diverse da quelle del testo scritto o stampato su carta. È registrato su memoria magnetica ed è costituito da sottounità ipertestuali definite nodi. Da ogni nodo si può accedere ad un altro nodo mediante un link, un insieme di istruzioni che, in sede di realizzazione dell’ipertesto, rendono noto al programma ipertestuale quali nodi l’autore voglia legare fra loro. La possibilità di estensioni multimediali, che si traduce nell’incorporazione di brani musicali, testi orali registrati, immagini fisse e in movimento, trasforma l’ipertesto in un prodotto che i puristi della terminologia informatica preferivano chiamare ipermedia. L’introduzione del termine originale hypermedia, plurale per indicare anche il singolare, è attribuita pure a Nelson (http://www.w3.org/WhatIs.html). È ormai invalsa la tendenza a usare ‘ipertesto’ e ‘ipermedia’ sinonimicamente, sebbene ‘ipertesto’ abbia ormai quasi del tutto soppiantato ‘ipermedia’.
 
I nodi non sono disposti in ordine lineare o sequenziale, ma organizzati in forma reticolare: il fruitore è libero di legarli a suo piacimento, sebbene sia limitato dal numero dei nodi stessi e dal modo in cui sono stati linkati fra loro dall’autore in sede di realizzazione. L’organizzazione logica dei dati registrati sul supporto digitale è indicata con l’espressione ‘strutture di dati’. Le strutture di dati possono essere di tre tipi: ‘lineare’, ‘ad albero’ (o ‘gerarchica’) e ‘a rete’. A ben vedere, le strutture di dati ricalcano le tre tipologie di labirinto individuate da P. Rosenstiehl [Labirinto (s.v.) in Enciclopedia Einaudi]:

  • Labirinto unicursale. Sembra un groviglio inestricabile, ma non lo è in quanto può essere percorso in una sola direzione. Non implica dunque possibilità alcuna di perdersi. Iconicamente può essere rappresentato dalle immagini di un serpente e di una fune aggrovigliati su se stessi.
  • Labirinto arborescente. È composto da bivi. Per uscirne bisogna scegliere di percorrere una delle due diramazioni a cui ogni bivio dà accesso, tornare indietro, percorrere la diramazione non scelta in prima istanza e ripetere l’operazione tante volte quanti sono i bivi.
  • Labirinto ciclomatico. A rete. Un numero più o meno congruo di passaggi trasversali lega una diramazione all’altra con la conseguente delimitazione di isole – i cicli appunto – intorno alle quali si può girare all’infinito. Il rischio di perdersi è altissimo, a meno che l’esploratore non abbia preventivamente tracciato alcuni segni all’entrata e all’uscita dei corridoi per poter agevolmente ricostruire il percorso già compiuto.

La scelta del tipo di struttura di dati dipende dalla relazione che il programmatore intende creare fra i dati stessi. Il supporto digitale è completamente indifferente alla struttura scelta: qualsiasi tipo di relazione venga istituita fra i dati, essa opera a livello logico e non fisico. Ciò è tecnicamente possibile in quanto il sistema ipertestuale di archiviazione e reperimento dei dati si basa su dispositivi di memoria ad accesso casuale (random access). Essi consentono di raggiungere direttamente ogni singolo dato memorizzato senza scorrere tutti quelli memorizzati prima, come invece impongono i dispositivi ad accesso seriale (serial access. Si veda anche F. J. GALLAND, Dictionary of Computing, Windsor, Datology Press, 1982, trad. it. Dizionario del calcolatore, Milano, Hoepli, 1986). Nei dispositivi di memoria ad accesso casuale le singole porzioni magnetizzate, che il computer riconosce come contenitori in cui depositare e da cui recuperare i dati, costituiscono lo spazio fisico della memoria; la relazione istituita fra i dati dislocati in ordine casuale sul supporto digitale costituisce invece lo spazio logico della memoria e prende forma sullo schermo del computer (l’importanza del supporto fisico della comunicazione si trova già in W. J. ONG, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London & New Jork, Methuen, 1982, trad. it. Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986).

La distinzione fra spazio logico e spazio fisico della memoria determina la differenza fra testo cartaceo e ipertesto. Nel testo cartaceo lo spazio fisico impone l’organizzazione dei dati secondo l’ordine lineare delle pagine, anche se il lettore decide di fruirne secondo un’organizzazione logica non sequenziale grazie alle note, ai rimandi e agli indici, mettendo dunque in atto una vera e propria lettura ipertestuale. La consultazione di un’enciclopedia, per esempio, è una lettura ipertestuale cartacea a tutti gli effetti, in quanto ogni voce rappresenta un nodo testuale e contiene link ad altre voci, ma sempre sulla base di un ordinamento precedente alla lettura, per quanto debole ed esterno, che è quello alfabetico. L’Enciclopedia Einaudi, per esempio, fu concepita proprio come una rete di nodi concettuali. Simile è la consultazione di un vocabolario. A questo proposito R. Simone nota che «un vocabolario sembra, all’occhio superficiale, una lista di parole alfabeticamente ordinate. In realtà non è affatto una lista: è una rete di parole e di significati, in cui ogni maglia è legata, direttamente o indirettamente, alle altre (…). Questa rete non è fatta di fili rigidi, ma di fili elastici (…). Poche parole sono formalmente isolate in un vocabolario. Tutte le altre sono collegate (…) ad altre. Ma la rete è ancora più vistosa dal punto di vista del significato» (Maistock. Il linguaggio spiegato da una bambina, Firenze, La Nuova Italia, 1988, 160-162). È ipertestuale anche la lettura di tutti quei testi narrativi in cui la trattazione degli eventi è realizzata da diverse prospettive, in cui si operano sbalzi cronologico-spaziali o in cui si affiancano e sovrappongono diversi piani narrativi. M. Gineprini nota in questo senso che «la lettura di un testo narrativo è tanto più piacevole ed interessante quanto alto è il suo tasso di ipertestualità» (M. GINEPRINI, Ipertesti narrativi elettronici, da http://www.onlynx.it/, articolo pubblicato il 16-06-2001).

In breve, esistono un’ipertestualità elettronica e una cartacea. Entrambe consentono infinite letture: l’ordinamento logico delle sottounità testuali è infatti deciso di volta in volta dal lettore durante i percorsi di lettura e non prima. Nell’ipertestualità cartacea è però implicito il riferimento a una lettura principale che incarna la sequenzialità del testo, elemento assente in quella elettronica. Paradossalmente la sequenzialità esiste anche nell’ipertestualità elettronica. È una sequenzialità virtuale: non elemento fisico come in quella cartacea, ma parte logica integrante della reticolarità nella misura in cui un tratto o una sequenza assumono le caratteristiche di un percorso possibile fra i tanti a cui la reticolarità stessa dà accesso.

Pochi programmi ipertestuali consentono di tenere traccia delle letture effettuate offrendo nel contempo al fruitore la possibilità di confrontarle e optare definitivamente per quella più consona alle proprie esigenze. Quasi inesistenti quelli che prevedono un’azione diretta del lettore esplicantesi nell’aggiunta, nella sottrazione e nella modifica di nodi e link. Sembra dunque che i confini fra l’identità dell’autore e quella del lettore ipertestuale siano ancora ben definiti a differenza di quanto auspicato dalla logica della coppia nodo-link. In altri termini sono ancora ben distinte l’identità dell’autore, che nel corso della progettazione e della realizzazione dell’ipertesto stabilisce il margine di intervento concesso al lettore, e quella appunto del lettore, la cui autorialità si riduce alla libertà di scegliere diversi percorsi di lettura che, spento il computer, svaniscono nel nulla. Domina il senso della chiusura negli ipertesti in circolazione: essi contengono informazioni fisse, a volte soltanto aggiornabili direttamente dal sito dell’editore. In simili prodotti la lettura ipertestuale diventa una ripetizione sul supporto digitale delle operazioni che un lettore competente compie su quello cartaceo trasformandolo in una struttura aperta: attraversare i nodi e connetterli fra loro «secondo procedure che associano l’attività del “significare” a quella del “cucire”» (R. MARAGLIANO, Nuovo manuale di didattica multimediale, Bari, Laterza, 2001, 10-11). Internet, ipertesto degli ipertesti, consentirebbe talvolta di fare di più.


2. Breve storia delle applicazioni ipertestuali


A partire dagli anni ’70 del secolo scorso la logica della coppia nodo-link fu gradualmente applicata su larghissima scala a discipline fino ad allora assolutamente impermeabili alla tecnologia e introdotta nell’ambito accademico anglosassone per sposare letteratura e informatica nel tentativo di attualizzare la prima e nobilitare la seconda.

Iniziarono a proliferare edizioni ipertestuali di classici della letteratura come Tennyson, Joyce, Faulkner che riportano, insieme ai testi delle opere letterarie, abbozzi preparatori, indicazioni relative alle fonti, dati biografici, dati bibliografici, materiale iconografico. Ad esempio in Hyperwake, ipertesto relativo a Finnegans wake 6.13-28 (elaborato da Fritz Senn della Zurich James Joyce Foundation a partire dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso e presentato nel 1991 al Zurich June Festival. Una completa versione HTML è stata pubblicata sul sito http://www.trentu.ca/jjoyce/), si può accedere dal testo-base all’ascolto delle ballate popolari che ispirarono Joyce, alla lettura di passi biblici e danteschi tenuti presenti dall’autore nella creazione di metafore e giochi di parole, all’ascolto di porzioni di testo lette da diversi attori, alla fruizione degli autografi delle edizioni precedenti.

Iniziarono ad essere prodotti veri e propri romanzi ipertestuali destinati ad essere letti soltanto sullo schermo del computer. La struttura delle loro trame è ovviamente reticolare: impossibile talvolta riconoscervi le fasi canoniche del testo narrativo di tradizione (situazione, complicazione, peripezia e scioglimento). Non più fabula dunque, ma intreccio puro e variabile da lettura a lettura. Il primo romanzo ipertestuale fu Afternoon di Michael Joyce (una recensione ad Afternoon può essere letta su http://www.eastgate.com/catalog/Afternoon.html. Notizie su altri prodotti dello stesso autore su http://www.eastgate.com/people/Joyce.html).

La logica della coppia nodo-link fu presto applicata alla musica. Singolare fu l’esperimento compiuto dalla casa discografica EMI Classics che, rispettivamente nel 1996 e nel 1998, pubblicò La bohème di Giacomo Puccini e Roméo et Juliette di Charles Gounod su supporti digitali indicati, nel cofanetto contenente La bohème, con l’espressione enhanced compact discs. Questi ultimi, se inseriti in un lettore cd-rom, danno accesso a un ipertesto contenente il libretto delle due opere, una quantità esigua di note biografiche relative ai due compositori, alcune informazioni su precedenti edizioni discografiche (con possibilità di ascolto di brevi clip audio) e pochissime immagini. Si può ipotizzare che la EMI intendesse principalmente offrire al fruitore la “comodità” di leggere il libretto sul monitor del computer in fase di ascolto, dato che lo spazio riservato agli altri materiali è alquanto limitato. Molti furono gli acquirenti: verosimilmente attirati, come rivelarono i sondaggi pubblicati sulle riviste specializzate, dai nomi stellari dei componenti i due cast e non certo da un’operazione che avrebbe inchiodato i fruitori davanti al monitor per un arco di tempo compreso fra le due e le tre ore e mezza.

Seguì l’iniziativa di alcune accreditate riviste di musica classica che solevano allegare ad alcuni numeri un cd-rom contenente poche tracce musicali ascoltabili mediante il lettore cd audio. Valga come esempio l’enhanced compact disc «An introducing to gmn.com» allegato al numero 77/1999 della rivista inglese Gramophone. Una valutazione del gradimento riscosso da simili cd-rom è viziata dalla loro appartenenza alla categoria degli “omaggi” imposti all’acquirente. L’iniziativa segna comunque un passo indietro nell’evoluzione che ha portato il calcolatore elettronico a diventare multimediale in quanto reintroduce la separazione fra media: il computer per la fruizione dei contenuti ipermediali e il lettore cd audio dell’hi fi per le tracce musicali. Si potrebbe obiettare che queste ultime possono comunque essere ascoltate mediante il lettore cd-rom del computer: in questo caso non sarebbe possibile fruire contemporaneamente dei contenuti ipermediali.

Sebbene fuori dall’ambito accademico anglosassone la modalità ipertestuale si fosse principalmente concretizzata nella realizzazione di enciclopedie in cd-rom e nell’incremento della rete Internet, fatte salve le eccezioni “musicali” appena discusse, tentativi di sposare informatica e letteratura furono comunque compiuti anche in Italia.
Alla fine degli anni ‘80 fu elaborata l’edizione elettronica de La bottega dell’antiquario di Goldoni (si veda L. TOSCHI, L’archivio elettronico C. Goldoni: un caso di filologia applicata, in Calcolatori e Scienze umane 1992), cui seguì, in prospettiva didattica, Sei racconti in ipertesto, un’antologia ipertestuale per l’esplorazione di sei generi narrativi: d’avventura, giallo, comico, fantascientifico, realistico, fantastico [(G. MARTINI e D. CORCIONE (a cura di), Sei racconti in ipertesto, Torino, SEI, 1993 (in dischetto)]. Nell’aprile del 1993, in occasione del convegno per i trent’anni del Gruppo 63, furono presentati a Reggio Emilia il primo romanzo ipertestuale italiano, Ra-Dio di Lorenzo Miglioli (http://asalt.tripod.com/b_miglioli01_trad.htm) e la traduzione di Afternoon di Michael Joyce.

Nel maggio 2000 la rivista di informatica PC Open allegò al numero 51 un cd-rom contenente non la solita rosa di software free o in versione trial, bensì la versione ipermediale de La divina commedia prodotta nel 1997 da Multimedia Hochfeiler. Programmaticamente emblematico il sottotitolo Il poeta, l’uomo, l’epoca, i personaggi. Esso raggruppa in quattro ambiti contenutistici i nodi linkati al testo dantesco. Il cd-rom contiene inoltre cinquanta minuti di versi recitati da ascoltare «anche su cd audio». La singolarità dell’iniziativa non risiede nel prodotto in sé, ma nel suo promotore: una rivista di informatica rivolta a un target culturalmente eterogeneo di cacciatori di novità informatiche. È singolare anche la scelta di un’opera letteraria ostica a tantissimi italiani, ai quali viene ormai raccomandato dal ministro Tremonti di usare Dante per imbottirsi il panino (sic!).


3. Riflessioni

L’‘antropologa del cyberspazio’ Sherry Turkle ha trasfuso nel suo La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni nell’epoca di Internet (Apogeo, 1997, in particolare 3-35) alcune singolari riflessioni. L’ipertesto risponderebbe alle caratteristiche che la studiosa ritiene tipiche dell’estetica postmoderna. Riflette infatti la rinegoziazione dei confini fra il reale e il non reale determinata dalla relazione fra l’uomo e il computer e le logiche della navigazione e della simulazione, non della riflessione e del calcolo. È concepito da un io frammentato e simultaneamente presente in tanti contesti quante sono le finestre aperte sullo schermo del computer, un io talmente interconnesso con la tecnologia da rendere impossibile la distinzione fra ciò che è realmente umano e ciò che non lo è. Le macchine diventano oggetti psicologici e gli uomini macchine viventi al punto che è difficile rispondere alla domanda: «Stiamo vivendo la vita sullo schermo o nello schermo?».

Forse che l’ipertesto non è altro che la forma in cui sta concretizzandosi il recupero di modalità cognitive e costruttive della conoscenza vecchie quanto l’uomo, con buona pace anche della Turkle?


Ivo Flavio Abela

venerdì 15 ottobre 2010

«I manichini di Renzo» ovvero la morte del romanzo storico manzoniano

Alessandro Sgroi, «Il viaggio»
Immagine di copertina del libro
«I manichini di Renzo. Manzoni storiografo»
Storiografo in accezione rinnovata. Romanziere mancato che usa la storiografia a fini puramente terapeutici e risarcitori (per curare e risarcire se stesso, qualcun altro e qualcos’altro). È il Manzoni di Tino Vittorio, quale emerge da «I manichini di Renzo. Manzoni storiografo» (Selene Edizioni, 2009), in cui don Lisander sembra fare hacking al pari di quel Friedrich Nietzsche che in «Sull’utilità e il danno della storia per la vita» si scaglia contro quella storia (in realtà storiografia, come desume il lettore esperto) che non serve «per la vita e per l’azione».

La storiografia di Manzoni è letteratura. E la letteratura non fissa in schemi rigidi, precostituiti, stagni, ciò che si narra: la letteratura è anche creazione poetica poiché cerca di catturare la vita attraverso le parole e gli artifici retorici. Del resto «Il vero storico è piuttosto un artista, soprattutto un poeta tragico, anziché un uomo di scienza» dice Ernst Jünger, citazione non a caso riportata da Vittorio quasi a guidare il lettore, fin dall’incipit del libro, al riconoscimento dell’isotopia su cui il libro stesso insiste. E del resto come dare torto a Vittorio e a Jünger, se proprio un poeta tragico, il greco Eschilo, ci ha lasciato la più vivida e la più eziologicamente motivata testimonianza sulle origini di un’istituzione quale l’Areopago («Eumenidi», 681-710)? Come dare torto a Vittorio quando Lev Nikolaevič Tolstoj spiega meglio degli storiografi di mestiere suoi contemporanei la campagna napoleonica di Russia e i suoi esiti o quando insiste sulle ragioni del suo fallimento?

Tanti altri esempi potrebbero ancora essere addotti perché tanti ne tornano alla mente del lettore che legge «I manichini di Renzo»: tale è la forza evocatrice delle suggestioni di Vittorio, il quale porta il lettore a chiedersi paradossalmente se il romanzo storico, «raggio riflesso rispecchiante la Storia», sia realmente un genere letterario esistito e ancora praticabile, dal momento che lo statuto del romanzo storico italiano per eccellenza uscirebbe smontato, se non quasi completamente annichilito, dalla sua analisi. E dal momento poi che fin dalle primissime battute si profila il fil rouge di una storiografia-«prodotto letterario» che modifica e crea realtà, come indicano la riflessione sull’importanza della letteratura per la Polonia degli anni ‘50 del ‘900, quella sul ruolo rivestito dai letterati nel determinare le «modalità di sviluppo della crisi sociale francese di fine Settecento» secondo Alexis de Tocqueville, infine quella sulla «letteratura visiva di massa» (il cinema) «portatrice di contenuti disforici, pessimisti in Germania, informati all’happy end, euforici in America», che avrebbero avuto come esito rispettivamente il Nazismo e il New Deal.

Perché il romanzo manzoniano non è un romanzo? Vittorio va alla radice del problema: un problema che si interseca con le vicende private di Alessandro Verri. Sia chiaro: non l’Alessandro Verri fratello di Giovanni, Pietro e Carlo, ma l’Alessandro che è anagraficamente Manzoni, ma è naturalmente Verri perché figlio adulterino di Giulia Beccaria e di Giovanni Verri. Le prime note del capitolo imperniato sulla minchioneria di Don Rodrigo restituiscono l’humus in cui affonda le radici la storiografia manzoniana non solo ideologicamente: l’humus pervaso dalla linfa di Pietro Verri, che cerca di «fare il servizio al mio lettore d’insegnargli la storia, onde, terminata che fosse la fatica del leggere, gli rimanga nella fantasia almeno il tronco maestro di questa pianta, della quale è impossibile di conservare memoria di tutte le foglie e di tutti i fiori», e da quella di Alessandro Verri (l’originale) che intende «svellere dalle mani de’ pochi eruditi la nostra storia per diffonderla ne’ molti leggitori […] allo scopo di istruire, di piacere, e di far pensare». Don Lisander insomma eredita geneticamente l’animus dello storico “illuminato” e non riesce a «sbarazzarsi della zavorra storica», come dice Goethe, ovvero, come aggiunge Vittorio ribaltando i termini della questione, nonché il giudizio di Croce, si orienta «al Vero, alla Storia» e ritiene «zavorra la poesia» e «il romanzo un ingombrante espediente».

Si aggiunga la singolare coincidenza fra la data di concepimento di don Lisander e quella del «decreto abolitivo della tortura» (nei territori degli Asburgo) emanato da Giuseppe II, un’ossessione personale che verosimilmente avrebbe condotto Manzoni a non sapere più raccapezzarsi su che cosa fare del suo romanzo: egli avrebbe inteso scrivere «Gli sposi promessi» (la ventisettana) appunto come romanzo di “contorno” rispetto alla «Storia della colonna infame», si sarebbe però reso conto della disorganicità insita nella tipologia, avrebbe dunque fatto uscire dalla porta la «Storia della colonna infame» espungendola, salvo farla rientrare dalla finestra nell’edizione definitiva de «I promessi sposi» del 1840, ma relegandola in appendice. Già: in appendice. Perché, ci avverte Vittorio, Manzoni non vuole rinunciare alla moda del romanzo storico (nonostante sia consapevole di essere uno storico e dal 1830 inizi il trattato «Del romanzo storico, e in generale dei componimenti misti di storia e di invenzione», con cui prende le distanze dal romanzo storico stesso, affermando peraltro: «Un gran poeta e un gran storico possono trovarsi, senza far confusione, nell’uomo medesimo, ma non nel medesimo componimento»). È dunque chiaro che non solo linguistiche ansie fiorentineggianti avrebbero condotto Manzoni a risciacquare i panni in Arno, ma ansie tipologico-contenutistiche lo avrebbero anche spinto a cercare rifugio nel grembo rasserenante di Clio (madre al pari di Giulia), sotto gli auspici dell’ancestrale Mnemosine. Del resto – come dice Vittorio – che cosa sono la storiografia e il romanzo se non un noumeno, essendo entrambi basati sulla narrazione e sulla retorica?

Sì: la retorica. La retorica le cui leggi disciplinano la buona scrittura. Dell’una e dell’altra si rivela maestro Manzoni, confezionando appunto non un romanzo, ma un trattato storiografico ben scritto, restituendo dignità a quella storiografia dominata dall’«insubordinazione lessico-grammaticale dei cicisbei della letteratura», problema che i Verri e Beccaria giungono a porsi senza tuttavia risolverlo. Né è sufficiente a ridare all’opera manzoniana la dignità di romanzo puro il corredo di illustrazioni commissionate a Gonin. Vittorio acutamente rileva che simili immagini hanno tutto il carattere dell’intermedialità (con quanto di fisiologicamente irrisolto l’intermedialità implica) e rivestono lo stesso ruolo delle informazioni storiche che Manzoni sente necessario premettere alle sue tragedie. Sono cioè «l’indicazione sommaria del supporto materiale delle sue creazioni», costituendone la base documentaria.

Il risultato? Un romanzo «fiacco d’ordito», per dirla con Balzac, in cui dominano le incongruenze, basato su un rapimento fallito il cui ordito ha dell’esilarante (e Vittorio lo rende ancora più impietosamente esilarante narrandocelo con ludico sarcasmo) perché minchione ne è l’ideatore don Rodrigo: impotente intellettualmente ancora prima che sessualmente. Perché Manzoni non bada alla coerenza dell’intreccio come un vero romanziere dovrebbe fare, ma al documento come fa lo storiografo. In fin dei conti il «cruccio» di Manzoni è anche quello di stigmatizzare il malgoverno spagnolo, responsabile di avere reso l’Italia un «guazzabuglio» di malcostume e di cicisbeismo.

Per Vittorio la storiografia manzoniana è anche un fatto personale e familiare: essa è psicostoria, nella misura in cui Manzoni la usa per curare se stesso dai drammi personali (a partire dall’ipocondria), per restituire dignità alla relazione fra Giulia e l’Imbonati, per nobilitare il monorchide «padre anagrafico, ufficiale, umiliato nella sua paternità irrealizzata», per riscattare se stesso – attraverso l’epopea di eroi popolari – dalle umiliazioni subite in quanto «non sufficientemente aristocratico» (Alessandro non avrebbe mai dimenticato di essere stato snobbato dal marchese Visconti di San Vito, del quale avrebbe voluto sposare la figlia Luigia). Manzoni è del resto antinobiliare fin da ragazzino: tale è il senso del taglio del codino a undici anni, simbolica dichiarazione di guerra ai valori nobiliari, di cui Vittorio approfitta per stendere un vero e proprio minisaggio di tricologia settecentesca che si rivela un maestoso divertimento per l’intelletto.

Fermiamoci adesso. Immergiamoci semmai nella lettura diretta de «I manichini di Renzo»: solo così ci si può rendere conto dell’intelligenza dell’autore, della sua enciclopedica conoscenza bibliografica (il corredo di riferimenti e citazioni è sconfinato e usato sempre con padronanza e adeguatezza), del suo modo di usare l’apparato di note non solo come contraltare esplicativo, ma anche come teoria di finestre, aprendo ciascuna delle quali ci si affaccia in un mare di sapere in cui i «manichini» («i nodi della storiografia») si immergono e naufragano dolcemente per entrarne a far parte come componenti di un sistema. E ciò in nome dell’assunto shamiano «History is a story» che, contro ogni deriva freddamente e tecnicamente storicistica, rivendica l’equivalenza di storia e letteratura.

Giorgio De Chirico, «I Manichini»
«I manichini di Renzo» è un libro non per tutti, ma la sua lettura andrebbe raccomandata a quelle maestrine (e maestrini) che si sbracciano ad agitare la loro insulsa penna rossa insegnando che «I promessi sposi» vanno letti soltanto secondo chiavi interpretative rigorosamente standardizzate (l’epopea della Provvidenza, l’epopea degli umili, la rivendicazione della semplicità contro il barocco, l’affermazione della lingua di comunicazione contro la lingua letteraria) con l’unico risultato di trasformare giovani menti in antimanzoniani in erba. Semmai si impari finalmente a insegnare l’opera manzoniana anche per come si configura attraverso l’analisi di Vittorio: storia nietzschianamente «utile per la vita e per l’azione» in quanto creatrice di vita e liberatrice dalla zavorra limitante, ritardante, mummificante del passato.

Ivo Flavio Abela

mercoledì 6 ottobre 2010

«Sull’utilità e il danno della storia per la vita» di Friedrich Nietzsche

«Del resto mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività». Sono parole tratte da una lettera che Goethe scrisse a Schiller il 19 dicembre 1798. Friedrich Nietzsche ne fa l’incipit della sua considerazione «sul valore e la mancanza di valore della storia» in Sull’utilità e il danno della storia per la vita.

Della storia abbiamo bisogno. Non certo come l’«ozioso raffinato», ovvero il sedicente sapiente. Egli prova una smodata, implacabile, vana soddisfazione nel contemplare il suo bagaglio di sapere che continuamente s’accresce. Egli – egoista – si ritira «nel giardino del sapere» sottraendosi alla vita e all’azione. A noi invece la storia serve proprio «per la vita e per l’azione». Se così non fosse, essa si ridurrebbe a ciò cui l’hanno declassata i Tedeschi, affetti da una «febbre storica divorante» e dotati di una «virtù ipertrofica», entrambe definibili ‘storicismo’. «Se da un secolo i tedeschi hanno atteso particolarmente agli studi storici, ciò mostra che essi, nel movimento del mondo moderno, rappresentano la forza trattenente, ritardante, calmante: […] sintomo pericoloso», avrebbe affermato del resto Nietzsche in un altro celebre scritto (Richard Wagner a Bayreuth, precedente la “rottura” col compositore tedesco, implicita in due scritti successivi: Il caso Wagner e Nietzsche contro Wagner. Nietzsche vi afferma peraltro che Wagner costituisce un caso raro, essendo riuscito ad occuparsi di storia «per l’azione rinnovatrice»). Inattuale è dunque la considerazione nietzschiana: anacronistica e controcorrente, anzi controstoricista, come «inattuali» sono definiti, in Richard Wagner a Bayreuth, gli uomini che celebrano la festa bayreuthiana: «Essi hanno la loro patria altrove che nell’epoca e trovano altrove tanto la loro spiegazione quanto la loro giustificazione».

Della storia abbiamo bisogno, si è detto. Ma ‘storia’ è ‘memoria’. ‘Memoria’ è ‘sofferenza’. Lo suggerisce il quadro – per così dire leopardiano con cui Nietzsche inizia ad argomentare. L’uomo invidia la condizione dell’animale che non si tedia e non soffre perché vive in modo non storico, nella misura in cui dimentica. L’uomo vorrebbe sconoscere il tedio e il dolore, ma la sua congenita e fisiologica incapacità-impossibilità di dimenticare glielo impedisce. E così egli vive perennemente diviso fra l’impossibilità di fermare ed “eternare” l’istante (che assume subito l’identità di ‘passato’ smettendo di essere ‘vita’) e quella di dimenticare: il passato non può che essere ricordato. L’uomo soffre perché non può fare a meno di vivere in modo storico.

Tuttavia «ciò che è non storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo e di una civiltà». Qualsiasi grande azione nasce infatti in un’atmosfera assolutamente non storica (ovvero, in qualche modo, un’atmosfera intrisa di assenza di consapevolezza). Chi riuscisse a respirare una tale atmosfera, si eleverebbe a un punto di vista sovrastorico: non si sentirebbe più motivato a vivere oltre e «a collaborare alla formazione della storia». Comprenderebbe cioè che ogni azione che possa dirsi realmente grande affonda le sue radici nella «cecità» e nell’inconsapevolezza di chi l’ha compiuta, forse anche in una certa casualità, in una certa mancanza di ordine, in un ambito insomma non storicamente “passato al setaccio” e quindi “codificato”. Sovrastorico è dunque l’uomo che smette di vivere in modo storico perché supera la storia stessa dopo averne compreso – inizialmente in modo intuitivo, poi in modo sempre più consapevole – il meccanismo.

L’uomo storico invece guarda al passato per proiettarsi verso il futuro. È dotato di un certo ottimismo. Spera infatti che quanto di buono traluce dagli eventi passati possa tornare a verificarsi. Egli crede «che il senso dell’esistenza verrà sempre più alla luce nel corso del suo processo». Eppure anch’egli – paradossalmente – pensa e agisce in modo non storico perché la sua indagine è al servizio della vita. Se la storia serve la vita, serve implicitamente una forza non storica e dunque non potrà e non dovrà mai diventare una scienza (tutto ciò che è scienza è fissato, ha un suo statuto epistemologico preciso e spesso rigido: è morto). È fondamentale dunque limitare la storia.

In tre modi la storia serve all’uomo. Egli infatti è attivo e dotato di aspirazioni, preserva e venera, soffre e ha bisogno di liberazione. Tre sono le forme che la storia assume in base al suo modo di servire all’uomo: storia monumentale, storia antiquaria, storia critica. In dettaglio

  • Storia monumentale. L’uomo attivo e dotato di aspirazioni non trova nel presente «modelli, maestri e consolatori». Li cerca nel passato e non può di certo trovarli nelle “micrologie”. Solo la storia monumentale gli offre «modelli, maestri e consolatori» capaci di indicare le strategie finalizzate al soddisfacimento delle sue grandi aspirazioni o tali da condurlo ad evitare potenziali errori. Chi guarda alla storia monumentale è inoltre stimolato da ambizioni che poco o nulla hanno di personale e di individuale: egli vuole soddisfare un popolo, se non l’intera umanità (vero è comunque che nel citato scritto filo-wagneriano Nietzsche afferma che rende grande un’azione non solo chi la compie, ma anche il «grande animo di coloro che vi prenderanno parte», altrimenti la grande azione rimane sterile). Vuole egli stesso far parte della storia e diventare a sua volta modello. La storia monumentale è grande e permette di pensare che se ciò che è grande fu una volta possibile, può e potrà esserlo ancora. È eterna (forse solo perché ciò che è grande è comunemente identificato con ciò che è eterno). Eternamente insegna. La storia monumentale può però generare confusione e favorire la falsificazione: «Ci sono epoche che non sono affatto capaci di distinguere fra un passato monumentale e un’invenzione mitica, perché da uno di questi mondi possono essere esattamente tratti gli stessi impulsi che dall’altro» (e sembra di risentire Tito Livio che in modo lucido, consapevole e tendenzioso, aveva affermato nella Praefatio ad Ab urbe condita: «Datur haec venia antiquitati ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat»). La storia monumentale – continua Nietzsche – fa emergere soprattutto alcune parti del passato, gettando oblio o fango su altre («Di per sé nessun avvenimento ha grandezza, e per quanto intere costellazioni scompaiano, popoli periscano, estesi Stati vengono fondati e guerre condotte con enormi forze e perdite: su molte cose del genere il soffio della storia passa come se si trattasse di fiocchi»: sono parole tratte ancora da Richard Wagner a Bayreuth). Inganna con le analogie. Può conseguentemente spingere a compiere clamorosi ed epocali errori (genocidi, omicidi illustri, ecc.), soprattutto quando cade nelle mani di esseri egoisti e spregevoli.
  • Storia antiquaria. Chi preserva e venera, preserva e venera le proprie radici – ciò da cui proviene e da cui è divenuto – pagando il debito per la propria esistenza. Tutto quello che è piccolo e invecchiato riceve dignità perché diventa il nido in cui l’uomo si rifugia. La storia della sua città diventa la storia di se stesso. L’uomo arriva al punto di commuoversi e di sentirsi fiero ripensando alla modestia, alla semplicità, alla rozzezza delle condizioni in cui i suoi progenitori sono vissuti. Egli è posseduto da ciò che venera, ma sembra non rendersene conto. Vuole anzi tramandare il patrimonio di conoscenze antiquarie, rendendosi colpevole anche della perdita di libertà delle generazioni future. Del resto il senso antiquario ha un campo visivo molto limitato: l’uomo antiquario non si accorge di ciò che sta intorno alla propria realtà, non vede quanto produttive possano essere altre realtà che circondano la sua, non si confronta. Persiste insomma in una sorta di delirio che gli fa percepire (ma non vedere) le proprie radici come le uniche degne di considerazione. Se la storia antiquaria è tale, essa è capace solo di conservare, ma non di generare vita.
  • Storia critica. L’uomo soffre perché incatenato dal passato. Ha bisogno di liberarsene. Lo trascina davanti a un tribunale per interrogarlo minuziosamente e condannarlo, distruggendo implicitamente la violenza e la debolezza umane di cui la storia tiene vivo il ricordo. Ma chi vive distruggendo il passato – e illudendosi così di servire la vita – è pericoloso e in pericolo. Non basta distruggere, attraverso la critica, la memoria degli eventi per cancellare i traviamenti di chi ci ha preceduti. Dovremmo cancellare noi stessi: noi siamo figli di quei traviamenti.

Un altro limite – più grave – si impone però alla storia tout court: l’intrusione della scienza fra essa e la vita, che porta ad una saturazione di storia. L’uomo moderno tende a divorare smodatamente le «pietre del sapere», a immagazzinarle e stratificarle in una dimensione che egli superbamente definisce ‘interiorità’. Essa è invero nient’altro che un caotico mondo interno dove le pietre del sapere, affastellate spesso senza criterio, rumoreggiano: «Con questo rumoreggiare si rivela la qualità più propria di quest’uomo moderno: lo strano contrasto di un interno a cui non corrisponde nessun esterno, e di un esterno a cui non corrisponde nessun interno, un contrasto che i popoli antichi non conoscono». Le pietre rimangono all’interno come contenuto privo di forma. L’assenza di forma non le rende percepibili all’esterno (salvo nei momenti in cui rumoreggiano). I Tedeschi costituiscono l’esempio più tangibile della contraddizione fra contenuto e forma, fra interiorità e convenzione (definita nello scritto filo-wagneriano come il «concordare in parole ed azioni ma non nel sentimento»). È necessario invece favorire l’unità fra contenuto e forma, se realmente si vuole promuovere la cultura di un popolo. Ma per farlo, bisogna porre un freno alla saturazione di storia.

La saturazione di storia infatti, accrescendo il divario fra esterno e interno, indebolisce la personalità umana impedendole di maturare, le fa credere di essere un frutto tardivo rispetto alla vecchiezza dell’umanità, spinge l’epoca presente a ritenersi depositaria della giustizia più a buon diritto di quanto non lo fossero altre epoche, la fa cadere nel pericoloso stato d’animo prima dell’ironia su se stessa, quindi di un cinico egoismo. Ma, cosa ancora peggiore, priva dell’arte le grandi azioni: impedisce di “trattenere” il sublime di cui esse sono foriere e da cui sono state originate: «Ancora non è finita la guerra, e essa è già convertita in carta stampata in centomila copie» (oggi alcuni sociologi della comunicazione e alcuni informatici stigmatizzano la cosiddetta società dell’informazione proprio a causa della febbricitante velocità con cui anche gli eventi più banali diventano notizia – spesso quando sono ancora in fieri – e vengono sottoposti ad estenuanti e improduttive analisi. Così come, secondo Nietzsche, l’eccesso di storia non serve la vita e non alimenta la cultura – quella vera e non il sapere intorno alla cultura – anche «l’informazione non necessariamente genera servizi e cultura». Proprio da questo assunto prende le mosse una ricerca, realizzata in seguito alla stipula di un accordo fra la Regione Toscana e il Dipartimento di Informatica dell’Università di Pisa, intitolata Visione della Società dell’Informazione).

Non serve storicizzare sempre e storicizzare tutto. A lungo andare accadrebbe ciò che accade nelle scienze naturali in cui si accumulano «esperimenti su esperimenti, quando già da gran tempo la legge può essere ricavata dal patrimonio di esperimenti esistente». La «febbre storica divorante» sfianca l’uomo: lo indebolisce, lo rende esitante e insicuro. Non gli resta altro che ripiegare sul proprio interno patrimonio di pietre del sapere – «l’erudizione che non diventa vita» – e indossare la maschera dell’uomo colto, dello scienziato, del poeta, del politico. In altre parole: rinunciare a vivere. Il senso storico incontrollato sradica inoltre il futuro perché distrugge le illusioni. ‘Analizzare storicamente’ equivale infatti a ‘distruggere’ e ‘uccidere’, a maggior ragione quando viene analiticamente sezionato ciò che non è ancora affatto esaurito.

Eppure esistono storici che percepiscono l’assurdità insita nel credere che l’educazione di un popolo debba essere storica fino a tal punto. Essi dimostrano di possedere una coscienza ironica, ovvero un «fluttuante presentimento che qui non ci sia da esultare, una paura che forse presto sarà finita per ogni divertimento della conoscenza storica», forse perché credono che l’umanità sia vecchia (altrimenti non farebbero storia). Ma «entro questa paralizzante credenza in un’umanità che già appassisce, non si nasconde piuttosto il malinteso di una concezione cristiano-teologica ereditata dal Medioevo, il pensiero di una fine del mondo vicina, di un giudizio angosciosamente atteso?». La storia assume dunque i connotati di una teologia camuffata (nello scritto filo-wagneriano Nietzsche usa le parole «teodicea cristiana camuffata» che serve «allo scopo cui oggi essa è destinata, quello cioè di essere un oppio contro ogni elemento di rivoluzione e di rinnovamento». Su tale teodicea ripiegano – anche ironicamente – quanti pensano «che sia molto bene così, come ormai tutto è andato»), il cui memento mori ha resistito (e continua a resistere) al punto che ancora non è stato rimpiazzato dal memento vivere che avrebbe dovuto sostituirglisi dall’età convenzionalmente ritenuta moderna.

Paradossalmente il sapere deve poi risolvere il problema di se stesso: l’origine della cultura storica deve essa stessa essere riconosciuta storicamente. Talvolta pensare di essere epigoni di qualcosa che è stato grande (dopo aver con equilibrio riconosciuto e definito storicamente quel ‘quid che è stato grande’) «può garantire tanto all’individuo quanto a un popolo grandi risultati e un desiderio del futuro ricco di speranza». Quanti si ritengono epigoni potrebbero allora fondare una nuova generazione, trasformandosi da epigoni in anticipatori.

Fondare una nuova generazione è difficile. Si oppone a una tale operazione la citata coscienza ironica che non soltanto riconosce nella contemporaneità il crepuscolo del mondo (precludendosi la possibilità di pensare ancora al futuro e di lavorare per esso), ma finisce per affermare che quanto è accaduto non potrebbe mai essere accaduto in altro modo. L’ironia diventa cinismo. Il cinico infatti pratica «il pieno abbandono della personalità al processo del mondo», vedendolo superbamente compiuto in se stesso, quasi a dire «noi siamo la natura compiuta» (al pari dei Tedeschi che si ritengono discendenti ed epigoni della cultura classica).

Arthur Hacker RA (1858 - 1919),
Vae Victus! The Sack of Morrocco by the Almohades,
Woe to the Vanquished 1890
From http://www.brokenhill.net.au/bhart/collection.html
Dopodichè regnerà la nausea verso tutto, come osserverebbe acutamente Hartmann in Filosofia dell’inconscio, secondo l’interpretazione nietzschiana. In tale scritto Hartmann definisce i connotati di quella che chiama ‘età virile’: l’età a cui si avvicina l’essere umano moderno. In simile età «ci sarà ormai soltanto “solida mediocrità” e l’arte sarà ciò che “di sera è la farsa per l’agente di borsa berlinese”». Lo sviluppo sociale sarà giunto a quello stadio «in cui ogni lavoratore, “con un orario di lavoro che gli lascia ozio sufficiente per la sua formazione intellettuale, conduce una comoda esistenza”». L’uomo dell’età virile diventa progressivamente un vecchio: tale è chi abbandona la propria personalità al processo del mondo col pretesto che, alla fine, il mondo potrà essere redento. Simili vecchi tolgono il posto ai giovani. Sarebbe quindi auspicabile che il mondo se ne liberasse.

Nietzsche arriva dunque alla conclusione dichiarando di avere portato avanti una protesta contro l’educazione storica della gioventù del suo tempo. Si augura che prima o poi i Tedeschi si accorgano che la loro non è stata una cultura, ma un falso e superficiale sapere attorno alla cultura, se è vero che la cultura stessa può fiorire solo dalla vita e che l’uomo di scienza non è libero e non è neanche colto.

«Che un’educazione con quella meta e con questo risultato sia un’educazione contro-natura, lo sente solo l’uomo che non si sia ancora appieno formato in essa, lo sente solo l’istinto della gioventù, perché essa ha ancora l’istinto della natura, che solo artificialmente e violentemente viene spezzato da quell’educazione. Ma chi vuole a sua volta spezzare quest’educazione, deve aiutare la gioventù a parlare. […] Ma come può raggiungere uno scopo così stupefacente?». Innanzitutto distruggendo qualsiasi operazione educativa finalizzata a creare l’uomo colto. Nietzsche allude polemicamente alla letteratura sull’istruzione superiore da cui si evincerebbe che il giovane inizia la sua formazione con un sapere intorno alla cultura, spacciato per sapere storico. Il giovane deve cioè innanzitutto apprendere che deve partire dalla vita e che il sapere storico, o spacciato per tale, è soltanto un sapere riflesso (veementi attacchi contro il ‘sapere intorno alla cultura’ possono essere anche letti in GEORGE STEINER, Vere presenze. Contro la cultura del commento, una difesa del significato dell’arte e della creazione poetica, Garzanti, 1999. Attacchi ancora più interessanti se letti alla luce di un’affermazione ricavabile dalla prefazione all’edizione italiana: «Io rifiuto totalmente l’anti-storicismo poststrutturalista e decostruzionista. Non credo che possa esistere una qualsiasi esperienza seria della letteratura che non sia radicata nel contesto storico-sociale […] dell’artista, poeta o compositore»).

Liberato dalle catene del sapere intorno alla cultura, il giovane non è ancora guarito: l’eccesso di storia ha infatti intaccato «la forza plastica della vita» rendendola incapace di servirsi del passato come di un valido nutrimento. Ma il giovane, proprio perché non ancora avvezzo a lasciarsi dilaniare dai morsi della divorante fame storica, conosce due rimedi: l’antistorico e il sovrastorico. ‘Antistorico’ è «la forza e l’arte di poter dimenticare e di rinchiudersi in un orizzonte limitato»; ‘sovrastorico’ quanto distoglie «lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile, all’arte e alla religione». La gioventù armata di antistorico e di sovrastorico può operare per la vita ed essere una generazione anticipatrice, proprio come furono i Greci. E guardare alla storia come i Greci guardavano al mito: «qualcosa su cui si forma e si poeta, con amore e con una certa timorosa devozione sì, ma anche col diritto di sovranità del creatore» (ancora da Richard Wagner a Bayreuth).

Un secolo dopo Eric J. Hobsbawm (Il secolo breve. 1914-1991, Milano, 1995) decide di tornare indietro e di costituire il contraltare di Nietzsche, affermando che la gioventù (ovviamente quella della fine del XX secolo) vive in una sorta di perenne presente. Lamenta che essa ha perduto il senso dei rapporti che legano il proprio presente al passato storico. Non la considera colpevole di superficialità o di noncuranza: piuttosto riterrà responsabili una società e una “cultura” che – passando da esperienze quali la fine dell’eurocentrismo, la globalizzazione, il confronto-scontro fra capitalismo e comunismo, e l’elenco potrebbe allungarsi – hanno distrutto i meccanismi sociali in grado di mantenere vivi i rapporti fra passato e presente. In un “desolato” quadro di tal fatta, il ruolo dello storico, per Hobsbawn, emerge più potentemente: egli non ha soltanto il compito di ricostruire il passato, ma anche quello (paragonabile a una missione) di ricordare ciò che i giovani non conoscono o hanno dimenticato. Il compito diventa allora ancora più necessario alla società di quanto non lo sia stato nei secoli precedenti. Esso deve essere assolto non soltanto attraverso la compilazione di memorie, ma attraverso un’azione che faccia emergere il senso e il potenziale educativo di quelle stesse memorie.

Ma è tardi: l’hacking nietzschiano ha ormai i suoi proseliti, me compreso.

Ivo Flavio Abela

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martedì 24 agosto 2010

Divertissement di mezza estate

Quanto segue costituisce la riscrittura dell’incipit di «Alice nel paese delle meraviglie» sul modello degli «Esercizi di stile». Anche il presente post è nato su FaceBook.


Il testo originale proposto è esattamente il seguente:

«Alice cominciava ad essere stufa di starsene seduta vicino a sua sorella sulla riva del fiume, senza niente da fare; aveva sbirciato un paio di volte nel libro che sua sorella stava leggendo, ma non c’erano né figure né dialoghi, “e a che pro un libro” pensava Alice, “senza le figure e i dialoghi?”. Così se ne stava a riflettere nella sua testolina (per quanto era possibile, perché faceva un caldo del diavolo e le cascavano gli occhi e la concentrazione) se il piacere di intrecciare una coroncina di margherite valesse la noia di alzarsi per coglierle, quando dal nulla un Coniglio Bianco con gli occhi rosa le passò accanto correndo a tutta birra».


L’esito della mia riscrittura è il seguente:

Lirico: contaminatio, ovvero petrarchesco + comico-realistico (il sonetto caudato è proprio della lirica comico-realistica, ma il linguaggio in esso usato è in buona percentuale di ascendenza petrarchesca):

Sonetto caudato. Schema ABBA ABBA CDE CDE eFF.

Ad onta sua e dell’imberbe etade,
Insofferenza e tedio tengon desta,
Rendendo sua giornata alquanto mesta,
Fanciulla presso liquide contrade.

Alice ella si noma e volte rade
Al libro i lumi suoi rivolge lesta,
Al qual germana sua lettura presta,
Ma dialoghi e figure esso non trade.

Sprezzando vanità di simil tomo,
Cercando cogitar pur sotto i rai
Se ghirlandetta con agresti fiori

D’intessere piacer valesse ad huomo
Levarsi e coglier senza tanti lai,
Repente epifania scuote i suoi umori:

Leporide vien fuori
(Virgineo il pelo e pesco son le luci)
Ratto qual stral che tu, Amore, adduci.


Giuseppe, mio vecchio e fraterno amico, propose invece la seguente riscrittura:

Psicanalitico

Alice ha bisogno di affermare la propria personalità (identità individuale) nei confronti della sorella maggiore (gli altri), con la cui vita è, ahimè, entrata in concorrenza sin dalla nascita. Alice osserva la sorella (gli altri) per superarne i limiti della propria immobilità fisica spazio-temporale (stare in un luogo ristretto privo di stimoli culturali) e del proprio schematismo mentale (pensare sulla falsariga del conformismo di massa) e poter entrare in contatto con un mondo assolutamente vario e dinamico, ricco di scambi relazionali e di molteplici livelli di realtà immaginata, con cui la sorella (gli altri) non ha a che fare. Il caldo torrido di agosto ed il pomeriggio assolato dopo una notte insonne (uno dei tanti alibi che quotidianamente ci costruiamo per giustificare la nostra pigrizia) non l’aiutano molto in questo sforzo di cambiamento, tuttavia, non appena comincia a rilassarsi pensando ad un possibile lavoro artigianale da intraprendere a breve, scatta veloce l’illuminazione che la porterà lontano dallo scarno paesaggio fisico ed interiore della sorella (gli altri). La svolta può essere data più semplicisticamente dalla scelta di amare qualcuno (per costruire un rapporto originale), ma preferibilmente, secondo me, è data dalla scelta di amare qualcosa come la scrittura, strumento supremo di dialogo e di immaginazione.
 

Francesco, da valentissimo uomo di lettere e di teatro qual è, propose qualcosa di imprevisto e godibilissimo:
 
Montaliano

«Alice Xenia e Satura» (Ossi di Alice)

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi del libro
senza figure, era mia sorella fastidiosa.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina favolanza:
era la corsa del Coniglio Bianco
nel meriggio, e lo specchio, ed un nuovo alto fato.

martedì 17 agosto 2010

Su Antonio Canova

Il presente testo campeggiava fra le note facebookiane di un mio vecchio account. È dedicato a una pregevole monografia su Antonio Canova scritta dal professore Aldo Scibona e voleva costituire una sorta di recensione ad uso di quanti, fra gli amici presenti nella mia lista di contatti, mi avevano chiesto via mail informazioni sul valore, il senso e i contenuti del libro sciboniano, sapendo che avevo avuto l’immeritato onore di presentarlo. Mi sembrava il modo più pratico e proficuo non solo di fornire una risposta, ma anche di offrire un tributo alla memoria dell’artista neoclassico.

Poiché il caldo estivo (avevo pubblicato la nota nel corso dell’estate 2009) ottundeva alquanto le mie capacità di cogitazione (a dire il vero poco efficaci anche in altre e meno aggressive stagioni), avevo preferito costruire la recensione saccheggiando ampiamente il canovaccio da me redatto in vista della presentazione. Sicché se qualcuno dei potenziali lettori v’avesse assistito, avrebbe riconosciuto sicuramente alcuni luoghi da me già verbalizzati in quella sede.

È doveroso ricordare che l’inquadramento del neoclassicismo proposto ad incipit della recensione (peraltro alquanto sviluppato in sede di esecuzione) è nelle linee generali liberissimamente ispirato a quello proposto da Nicolò Mineo in «Vincenzo Monti. La ricerca del sublime e il tempo della rivoluzione», Giardini Editori e Stampatori in Pisa, 1992. Arduo e complesso era stato tuttavia operare una funzionale contaminatio fra alcune smaccatamente accademiche suggestioni offerte dal testo di Mineo (peraltro riguardanti un Monti che di neoclassico ebbe solo l’etichetta e non l’identità) e le vivaci suggestioni sciboniane (per di più riguardanti un Canova che di neoclassico ebbe tanto l’una quanto, pienamente, l’altra).


Antonio Canova inventore della bellezza
secondo Aldo Scibona

Rigore filologico, onestà intellettuale, competenza testuale caratterizzano uno studio che contribuisce al riscatto di uno dei più grandi cantori del Neoclassicismo, troppo spesso liquidato come autore di “svarioni cimiteriali”.

Jacques Louis David, Il giuramento degli Orazi, 1784 
Nel 1785 viene esposto a Roma «Il giuramento degli Orazi» di Jacques Louis David. In esso la virtù degli antichi romani è esaltata attraverso forme classiche. Il contenuto è però permeato di romanesimo repubblicano (il cui potenziale “eversivo” sembrerebbe ispirare in ogni paese i rivoluzionari dal 1789 in poi). In esso Marx individua una “resurrezione dei morti”, atta a «magnificare le nuove lotte, non a parodiare le antiche; […] a ritrovare lo spirito della rivoluzione, non a rimetterne in circolazione il fantasma» («Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte», in «Rivoluzione e reazione in Francia», trad. ital., Torino, Einaudi, 1976, pp. 172-174). È il consolidarsi della cosiddetta «linea romana» del neoclassicismo. Antonio Canova (1757 – 1822), che fin dal 1781 si è stabilito a Roma, resuscita pure i morti (greci in particolare). Tale resurrezione di morti egli finalizza a «magnificare le nuove forme artistiche, non a parodiare le antiche; […] a ritrovare lo spirito dell’arte e della bellezza, non a rimetterne in circolazione il fantasma», per usare i moduli espressivi di Marx. Canova si distingue così da molti intellettuali e letterati italiani a lui contemporanei che non riescono a discernere il punto di rottura fra il classicismo e il neoclassicismo. Egli è un vero neoclassico in accezione etimologica. È anzi moderno.

Aldo Scibona, «Canova. La mano di Dio»
Treviso, Editing Edizioni, 2008
Aldo Scibona in «Canova. La mano di Dio» (Treviso, Editing Edizioni, dicembre 2008) porta alla luce proprio la modernità di Canova, artista che inventa una bellezza e non si limita a ricopiarla dai classici, anzi artista che – dice Scibona – esprime «un’intuizione moderna della bellezza». Scibona sviluppa il concetto rendendolo isotopia della sua opera, isotopia che percorre tutto il libro sotterraneamente, salvo emergere vistosamente in alcuni luoghi dei quali quattro (veri e propri snodi testuali dell’isotopia stessa) appaiono particolarmente significativi, a parere di chi scrive:

  • l’incipit di pagina 13. Il 1757 vi viene presentato come «un anno particolarmente fortunato per il futuro movimento neoclassico in Europa ed in Italia» per tre ragioni. L’architetto Jacques-Germain Soufflot a Parigi inizia i lavori di costruzione della Chiesa di Sainte Geneviève. Etienne Maurice Falconet scolpisce La bagnante del Louvre. Infine il 1° novembre nasce appunto Antonio Canova. La data di nascita di Canova risulta così inquadrata in un disegno – per così dire – provvidenzialistico, quasi di attesa messianica finalmente soddisfatta grazie alla natività del messia del neoclassicismo;
  • la pagina 29. Scibona vi ricorda quanto Canova, in occasione del suo primo soggiorno a Roma (1779), si riveli singolarmente insofferente nei confronti dell’ammirazione ivi tributata alla scultura antica;
  • la pagina 34. Scibona vi inserisce in particolare una testimonianza di Stendhal: «Il Canova ha avuto il coraggio di non copiare i greci e di inventare una bellezza, come avevano fatto i greci»;
  • le pagine 214-215, in cui Scibona riporta le parole scritte da Canova all’amico Quatremère de Quincy in occasione della permanenza a Londra, dove Canova vede i marmi del Partenone: «Se è vero che queste siano opere di Fidia, o ch’egli vi abbia posto mano per ultimarle, esse mostrano chiaramente che i grandi maestri erano i veri imitatori della bella natura […] Le opere dunque di Fidia sono vera carne, cioè bella natura. […] l’aver veduto queste cose ha sollecitato il mio amor proprio, perché sempre io sono stato del sentimento che i grandi maestri avessero dovuto operare in questo modo e non altrimenti […] perché sempre gli uomini sono stati composti di carne flessibile e non di bronzo».

Antonio Canova, Venere Italica
Ai quattro luoghi citati ne va però aggiunto un quinto: quello della prova tangibile di quanto fin qui affermato. Alle pagine 158-159 Scibona infatti sottolinea come l’ideale di bellezza moderna sia raggiunto da Canova nella Venere Italica, commissionata allo scultore per rimpiazzare l’ellenistica Venere de’ Medici degli Uffizi, trafugata in Francia da Napoleone. Nella sua Venere – dice Scibona – Canova rinnova il movimento della Venere de’ Medici. Ma compie il miracolo: la dea emana fascino umano. Foscolo afferma: «Se la Venere dei Medici è bellissima Dea, questa che io guardo e riguardo è bellissima donna: l’una mi faceva sperare il Paradiso fuori di questo mondo, e questa mi lusinga del Paradiso anche in questa valle di lagrime». Scibona sembra fargli il verso. Anzi rivendica alla Venere canoviana una sensualità che neanche le Tre Grazie possiedono (esprimendo esse «soltanto una leggiadria ed una purezza giovanile»). Che per Scibona tale Venere sia un capolavoro “completo” emerge anche dalla sua precisazione riguardo all’epiteto di ‘italica’: la Venere canoviana fu così chiamata non soltanto per distinguerla dalla Venere de’ Medici, ma anche perché espressione di un’italianità già prorompente, per quanto non ancora politicamente realizzata (quell’italianità che diventerà addirittura personificazione piangente dell’Italia nel monumento funebre a Vittorio Alfieri).

Uno dei punti di forza del libro è l’attenta disamina di ognuno dei miti trattati da Canova. Scibona non si limita a descrivere le singole opere, ma scava nelle più recondite pieghe del mito alla ricerca di dati illuminanti per un’interpretazione quanto più verosimile possibile della singola realizzazione scultorea. Lo fa con l’onestà intellettuale tipica di chi sposa il modello dell’analisi filologica. Tre esempi valgano per tutti:

  • Venere e Adone. Scibona ricorda l’origine fenicia del mito, ma anche la tradizione femminile di realizzare i cosiddetti ‘giardini di Adone’ durante le Adonie (feste ateniesi della durata di otto giorni). E proprio come un giardino d’Adone Scibona interpreta l’opera;
  • Endimione dormiente. Scibona analizza il mito, ne spiega il significato, cita altre versioni del mito, infine individua nel «Dialogo 11» di Luciano di Samosata la fonte principale di Canova nelle parole con cui Selene parla di Endimione ad Afrodite (in particolare per i dettagli della clamide sulla roccia, della mano sinistra da cui scivolano le frecce, della destra piegata verso l’alto intorno al capo);
  • alcuni bassorilievi in gesso quali «La danza dei figli di Alcinoo» e «Le Troiane presentano il peplo a Pallade». Scibona ripercorre le vicende rispettivamente dei libri VI, VII, VIII dell’«Odissea» e del libro VI dell’«Iliade». Narra e descrive usando una prosa delicata quanto la materia in cui gli stessi bassorilievi sono realizzati. Crea gradevoli quadri che non si esagererebbe nel ritenere tali quali (per dirla desaussurianamente) le immagini acustiche probabilmente innescate nella mente dello stesso Canova, quando si faceva leggere quegli stessi racconti durante il lavoro.

Antonio Canova, La danza dei figli di Alcinoo

Antonio Canova, Maddalena penitente
Analogamente l’autore si regola analizzando quello che egli stesso definisce il «nervo scoperto» della produzione canoviana: Maddalena penitente (Museo di Sant’Agostino a Genova). Scibona l’interpreta alla luce del testo evangelico di Luca contenente i dettagli delle lacrime che bagnano i piedi di Cristo e dei capelli con cui la donna glieli asciuga. La descrive quindi minuziosamente insistendo sulla sublimazione dell’umano incarnata nel contrasto fra la bellezza del corpo e la sua mortificazione.

Dal testo di Scibona emerge inoltre un Canova profondamente consapevole della situazione storica del suo tempo. Sono le parti in cui Scibona diventa più “biografo”, delineando peraltro un ritratto di Canova quale «attento discepolo di Niccolò Machiavelli», dotato di «una raffinata consapevolezza della “ragion di Stato”».

Che il lavoro di Scibona assuma le caratteristiche di un’opera filologicamente onesta può emergere dall’uso di fonti “dirette” quali le epistole, il diario romano e l’«Abbozzo» di biografia redatti dallo stesso Canova, nonché la «Vita» di Antonio Canova del Missirini (1824).

Il registro sciboniano è generalmente elevato, ma mai incomprensibile, se mai immediato. E tale immediatezza emerge in particolare da alcuni luoghi in cui Scibona sembra derogare a tratti linguistici da parlato quasi prototipico (quelli caratteristici dell’italiano neostandard) quali, per esempio, certe topicalizzazioni come le dislocazioni a sinistra («La stessa valutazione problematica è possibile formularla per un’altra statua di marmo», p. 110), ‘lei’ soggetto («che lei gli ha inviato», p. 197), certi genericismi («la scelta che fa», p. 202), la deissi spaziale («In questo modo», p. 214, usato come vagamente “simoniano” incapsulatore di quanto appena affermato). Non ne risulta però affatto lesa la coerenza formale, semmai ne esce rafforzata l’efficacia comunicativa.

«Canova. La mano di Dio» è stato presentato il 19 dicembre 2008 presso il Museo Santa Caterina di Treviso a cura della Fondazione Canova di Possagno, paese natale dello scultore, e della Provincia di Treviso, nonché il 7 febbraio 2009 presso l’auditorium del Liceo Classico di Gela, paese natale di Aldo Scibona.

Ivo Flavio Abela

Il momento conclusivo della presentazione siciliana del libro:
la parola all’autore
(il sottoscritto appare parzialmente coperto dall'asta del microfono)