Qualche settimana fa Aurelio Picca ha postato sulla sua bacheca facebookiana un video che lo vedeva intervistato a proposito di un suo libro uscito due anni fa, dal titolo «Capelli di stoppia. Mia sorella Maria Goretti» (Edizioni San Paolo). Mentre ascoltavo le sue risposte, mi chiedevo quale tipo di interesse potesse avere suscitato nell'animo di Picca un soggetto talmente viziato, nel corso dei decenni, da una visione fisiologicamente catto-moralistica e, talvolta, da quella individuante nella naïveté della protagonista e della sua famiglia una forma di innocenza non solo tipica del popolo, ma pure dei buoni tempi andati. Poi mi sono ricordato di quando mio padre raccontava di essere passato da Nettuno e di avere visto le spoglie della bambina. E m'è pure tornato in mente che in casa forse esiste un libro (o un vecchio giornale) con una grande foto in bianco e nero del corpo di Maria, foto che da bambino m'incuriosiva e mi turbava allo stesso tempo. Così ho comprato il libro insieme all'ultimo dello stesso Picca, cioè «Arsenale di Roma distrutta» (che leggerò quanto prima), anche perché m'erano piaciuti il suo modo di dialogare e l'efficacia delle risposte.
«Capelli di stoppia» vola velocemente non solo perché è breve, ma anche perché la scrittura di Aurelio si legge da se stessa attraverso i nostri occhi: scivola nelle nostre profondità come un balsamo rigenerante che ci riconcilia con la letteratura odierna perché Aurelio è uno scrittore vero. Non deve essere stato facile presentare un soggetto tanto singolare in modo nuovo e non compilando il solito romanzetto agiografico centrato sulla purezza della ragazzina. Aurelio però - va detto - è forse avvantaggiato e quindi nessuno meglio di lui avrebbe potuto scrivere così: egli conosce benissimo i luoghi in cui si svolse l'infanticidio e ne ha respirato l'aria poiché da bambino la vita col nonno si nutriva di quell'ossigeno, di quelle sane abitudini agresti, degli stessi passatempi di cui era stata tessuta anche la quotidianità della famiglia Goretti; perché il nonno aveva conosciuto quella famiglia e la mamma di Maria; poiché la mamma dello stesso Aurelio s'era data a badare ai fratelli nati dal secondo matrimonio del proprio padre, come la piccola Maria che stava badando alla sorellina Teresa quando fu ammazzata, ed aveva conosciuto la vedovanza (pure due volte) come l'aveva conosciuta la mamma di Maria; perché con Aurelio vive una ragazzina in affido che ha gli stessi capelli di stoppa di Maria e che ha vissuto l'inferno in terra, ma nel contempo s'è innamorata della piccola Maria attraverso le parole e la presenza dello stesso Aurelio, padre e fratello attento.
Verrebbe quasi da dire che questo piccolo libro sia un acquerello dalle tinte pastello, tra le quali domina il verde acqua di una natura delicata che, pure quando viene intaccata dalla menzione delle strade odierne e delle automobili, sembra non perdere l'edenica verginità d'altri tempi. E in quest'acquerello si muovono personaggi che sembrano usciti da illustrazioni oleografiche colorate a mano, come si faceva con le foto antiche. Eppure il verde cede a un tratto il passo al rosso vivo del sangue, di cui si macchiano gli indumenti di Maria: le sue budella sporgono attraverso le ferite inferte selvaggiamente dal punteruolo agitato dalla mano assatanata dell'assassino, quel punteruolo che il papà di Maria aveva portato con sé dalle Marche, non immaginando certo che un giorno esso avrebbe perforato ripetutamente la propria bambina. Poi quel verde cede il passo al nero della morte, ma anche alla luce di un perdono che ci lascia sgomenti perché è troppo grande da comprendere e ci sembra talmente lontano. E la descrizione di quella mattanza è essenziale, ma efficace, come se l'avesse realizzata un cantastorie, indicando con la sua bacchetta le scene dipinte sul legno segnato da lineari crepe parallele.
Aurelio è riuscito a fare tutto ciò senza scadere mai, neanche per un secondo, nell'affettazione, nel manierismo agiografico, nell'infantilismo dettato dal cuore. Semmai ha lasciato che fosse la propria natura di essere umano a scrivere da sé il libro, affratellandosi alla "sorellina", com'egli stesso la chiama, colmandola di affetto attraverso ogni parola vergata, facendone un'eroina sì della purezza, ma anche della volontà e dell'umanità in senso, direi, etimologico.
Ivo Flavio Abela
«Capelli di stoppia» vola velocemente non solo perché è breve, ma anche perché la scrittura di Aurelio si legge da se stessa attraverso i nostri occhi: scivola nelle nostre profondità come un balsamo rigenerante che ci riconcilia con la letteratura odierna perché Aurelio è uno scrittore vero. Non deve essere stato facile presentare un soggetto tanto singolare in modo nuovo e non compilando il solito romanzetto agiografico centrato sulla purezza della ragazzina. Aurelio però - va detto - è forse avvantaggiato e quindi nessuno meglio di lui avrebbe potuto scrivere così: egli conosce benissimo i luoghi in cui si svolse l'infanticidio e ne ha respirato l'aria poiché da bambino la vita col nonno si nutriva di quell'ossigeno, di quelle sane abitudini agresti, degli stessi passatempi di cui era stata tessuta anche la quotidianità della famiglia Goretti; perché il nonno aveva conosciuto quella famiglia e la mamma di Maria; poiché la mamma dello stesso Aurelio s'era data a badare ai fratelli nati dal secondo matrimonio del proprio padre, come la piccola Maria che stava badando alla sorellina Teresa quando fu ammazzata, ed aveva conosciuto la vedovanza (pure due volte) come l'aveva conosciuta la mamma di Maria; perché con Aurelio vive una ragazzina in affido che ha gli stessi capelli di stoppa di Maria e che ha vissuto l'inferno in terra, ma nel contempo s'è innamorata della piccola Maria attraverso le parole e la presenza dello stesso Aurelio, padre e fratello attento.
Verrebbe quasi da dire che questo piccolo libro sia un acquerello dalle tinte pastello, tra le quali domina il verde acqua di una natura delicata che, pure quando viene intaccata dalla menzione delle strade odierne e delle automobili, sembra non perdere l'edenica verginità d'altri tempi. E in quest'acquerello si muovono personaggi che sembrano usciti da illustrazioni oleografiche colorate a mano, come si faceva con le foto antiche. Eppure il verde cede a un tratto il passo al rosso vivo del sangue, di cui si macchiano gli indumenti di Maria: le sue budella sporgono attraverso le ferite inferte selvaggiamente dal punteruolo agitato dalla mano assatanata dell'assassino, quel punteruolo che il papà di Maria aveva portato con sé dalle Marche, non immaginando certo che un giorno esso avrebbe perforato ripetutamente la propria bambina. Poi quel verde cede il passo al nero della morte, ma anche alla luce di un perdono che ci lascia sgomenti perché è troppo grande da comprendere e ci sembra talmente lontano. E la descrizione di quella mattanza è essenziale, ma efficace, come se l'avesse realizzata un cantastorie, indicando con la sua bacchetta le scene dipinte sul legno segnato da lineari crepe parallele.
Aurelio è riuscito a fare tutto ciò senza scadere mai, neanche per un secondo, nell'affettazione, nel manierismo agiografico, nell'infantilismo dettato dal cuore. Semmai ha lasciato che fosse la propria natura di essere umano a scrivere da sé il libro, affratellandosi alla "sorellina", com'egli stesso la chiama, colmandola di affetto attraverso ogni parola vergata, facendone un'eroina sì della purezza, ma anche della volontà e dell'umanità in senso, direi, etimologico.
Ivo Flavio Abela