Prima Michele ha amato Tommasina, una giovanissima popolana, quasi una bambina, capace di leggere e di alterare arbitrariamente la trama dei libri. Michele non sa proprio trattenersi quando sta con lei: a stento riesce a occultare il desiderio che assume la forma di un “inconveniente”. Non riesce proprio a evitare quel rigonfiamento: gli capita a mare, dove l’imbarazzo è tanto più plateale quanto minori sono le possibilità di nascondere l’oggetto della vergogna; gli capita nella propria camera da letto, in cui si riunisce con un amico e con la ragazzina, quando quest’ultima prova a dare a entrambi lezioni di grammatica e aritmetica. Oggetto di contesa tra Michele e l’amico, Tommasina viene perduta da entrambi quando parte per l’America. Ma fa in tempo a confessare a Michele che avrebbe scelto lui. Michele sembra destinato a rimanere solo, se non fosse proprio per la ceramica.
Non mi risulta che esista un romanzo italiano dedicato espressamente alla ceramica stessa, di cui Domenico Notari parla, peraltro, con raffinata competenza tecnica. In un’intervista ha del resto dichiarato di avere conosciuto, per motivi familiari, le faenzere durante la sua infanzia, quando la ceramica veniva cotta in forni a legna alti come case di tre o quattro piani: antri monumentali, traduzioni tangibili della fucina di Efesto, sedi di un nuovo mito (non è un caso che nella terza parte Notari abbia dedicato alcune pagine al racconto dal titolo Il secondo dono di Prometeo: un po’ apologo, un po’ narrazione esiodeo-eziologica). La competenza tecnica dell’autore si esplica non soltanto nella perfetta illustrazione del processo creativo delle terrecotte, ma anche nell’uso disinvolto di una terminologia specialistica che, lungi dall’appesantire il registro, nulla toglie al potenziale lirico della lingua che egli maneggia. Bastino i deliziosi elenchi dialettali di forme ceramiche e di strumenti da lavoro, ma soprattutto l’attenzione “linguistica” rivolta al modo di ottenere i colori (compreso un curioso e un po’ raccapricciante dettaglio riguardante il giallo): Notari rende con le parole anche le iridescenze che la più sofisticata e tecnologicamente avanzata riproduzione fotografica non riuscirebbe a significare. Se lo sfoggio di dialettismi è ampio, essi risultano così organicamente fusi con l’italiano di Notari che quasi non ci si rende conto della loro natura dialettale. Ci troviamo, in altri termini, al cospetto di una lingua nitida, ariosa, leggera, “pura”, la cui nascita sembra avere preceduto quella dello stesso libro. Ciò emerge soprattutto nella prima e nella terza parte. Nella seconda il piglio linguistico diventa più mimetico e popolare perché Notari passa alla narrazione in prima persona e, forse, anche in ragione della naturalezza tutta popolana di Tommasina. Nondimeno la leggerezza e la purezza permangono, insieme a un dosaggio oculato di elementi esornativi: non troveremo una parola in più o una in meno, semmai un caleidoscopio di sensazioni che sconfinano in un contesto ricorsivamente sinestetico. Al bando, per farla breve, ogni tipo di sperimentalismo affettato o esagitato.Romanzo di formazione, romanzo storico, trattato tecnico sulla ceramica, raccolta di fiabeschi racconti (quello dell’origine della ceramica, quello già citato del dono di Prometeo, quello bellissimo e lirico del chiostro maiolicato di Santa Chiara a Napoli). Ma i due fiumi che percorrono sotterraneamente le duecento pagine di questo libro rimangono la ceramica e l’amore non realizzato. E ci rendiamo conto di quanto anche il secondo dei due temi appena citati sia centrale, se analizziamo la struttura ad anello che il libro assume: ciò che rimane in sospeso alla fine della prima parte viene risolto alla conclusione della terza, quando meno ce l’aspetteremmo, grazie al ritrovamento di una lettera.L’isola di terracotta ci immerge letteralmente in quel paradiso che del resto tanto piacque a Léonide Massine, il noto ballerino e coreografo russo amante di Sergej Pavlovič Djagilev (il creatore dei Ballets Russes) e perciò antagonista del nevrotico Vaclav Fomič Nižinskij (citato in Prospettiva Nevskij di Franco Battiato). Amico di Henri Matisse, Pablo Picasso, Jean Cocteau, Igor Stravinskij, Massine sarebbe apparso nel film Scarpette rosse del 1948; suo figlio Lorca avrebbe coreografato per Vladimir Vassiliev Zorba il Greco di Mikis Theodorakis alla fine degli anni Ottanta per l’Ente Arena di Verona. Poco prima dei trent’anni Léonide acquistò una delle tre isole Li Galli (quella a forma di delfino) e vi abbellì la villa nella quale più volte sarebbe tornato e che decenni dopo sarebbe appartenuta a Rudolf Nure’ev. Su richiesta di Massine la faenzera in cui lavora il protagonista di L’isola di terracotta crea le riggiòle per il fiabesco pavimento decorato a rose sparse. Massine s’era innamorato di quel mondo fatato dopo averlo contemplato per ore durante tutta una notte. Domenico Notari è riuscito efficacemente a rendere l’essenza dell’oggetto d’amore di Massine, conducendoci tra colori e pigmenti, terracotta e cocci destinati ad essere ricomposti mediante un inedito kintsugi, odori e sapori, mare e fondali, animali e piante, zingari e artisti, turbamenti e pruriti amorosi.Ivo Flavio Abela