Uno sfondo arancione capace di provocare un sommovimento nello stomaco, un risveglio dei sensi e quel perturbante freudianamente inteso. Un dipinto di formato piccolo ma dall'enorme potere straniante. Dove è stato visto? Quando? Eppure non può trattarsi di alcuno dei due quadri che sfilano tra le immagini iniziali di «Ultimo tango a Parigi», fruito nel 1987 dopo la sentenza che ne riabilitava la distribuzione, né dei quadri esposti in seno alla Biennale di Venezia del 1993, né ancora di altri visti in occasioni diverse. Eppure la sensazione di quell'arancione ipnotizzante visita la mente di Fabrizio Coscia, al punto da condurlo a passare in rassegna tutta la produzione di Francis Bacon, alla ricerca di un'opera realizzata da un pittore che scuote letteralmente il sistema nervoso. Ma può il tentativo di recuperare un'immagine provocare un'indagine talmente intensa e dai risvolti pregni di sofferenza a tratti anche fisica? Può una ricerca siffatta essere perseguita con piglio quasi masochistico, considerato che ci s'imbatterà negli spietati tratti di pennello con cui spesso Bacon ha segnato la tela, quasi a proiettarvi anche i propri più autodistruttivi istinti? E se poi quell'immagine non esistesse, ma fosse solo una creazione dell'intelletto, realizzata in uno strano connubio antitetico con il proprio inconscio dallo stesso ricercatore, magari attraverso la fusione di sensazioni che potrebbero aver dato luogo a uno di quegli oggetti bizzarri di cui parlava Bion, poi echeggiati da Leon Grindberg? E allora si proporrebbe una domanda paradossale: può un essere umano avere memoria di un oggetto che magari non è mai neanche esistito? Ma se è vero che il senso di un viaggio non sta nella meta, ma nel viaggio stesso, pure se se l'oggetto indagato non sarà alla fine individuato, Itaca avrà comunque donato il bel viaggio. Tutto ciò è «Dipingere l'invisibile. Sulle tracce di Francis Bacon» del già citato Fabrizio Coscia (maggio 2018, Euro 10,00).
Alla ricerca di qualcosa che potrebbe pure non esistere fa da contraltare la rappresentazione baconiana di ciò che non si vede, nell'analizzare la quale Coscia compie un corpo a corpo: il suo io lotta contro l'artista in modo cruento. Al sangue che talvolta scorre sulle tele di Bacon si aggiunge quello sgorgato dalle ferite che Coscia infligge al pittore, penetrandolo con la lama affilata della sua scarnificante capacità ermeneutica, ma pure da quelle che Bacon infligge a Coscia ogni qual volta Fabrizio si trova a soccombere al cospetto dell'invisibile trasformato in codice all'origine di una visione, quasi egli dovesse rassegnarsi a subire i fendenti inflittigli da chi - Bacon stesso - tira fuori una spada più potente. Ma tale duello è pure un amplesso passionale lungo sessantuno pagine. L'amore di Coscia per Bacon è viscerale, tanto quanto lo è la rappresentazione baconiana dell'amore stesso, della violenza, della linfa vitale, dell'anima, delle urla. Già: perché noi possiamo osservare un quadro di Bacon e sentire l'urlo che egli vi ha voluto rappresentare.
Ma Coscia è uno scrittore. Che cosa possono insegnare i quadri di Bacon a chi si serve del codice verbale e non di quello iconico? Louis Hjelmslef parlava di capacità onniformativa del linguaggio verbale (quella che alcuni linguisti - con espressione un po' sopra le righe - definiscono anche «onnipotenza semantica»): a differenza di tutti i rimanenti tipi di linguaggio (pittorico, musicale, ecc.), quello verbale ha la capacità di dire tutto, compreso l'indicibile e il non esistente, quasi a significare che se il Temporale della «Sinfonia n. 6» di Beethoven ci restituisce l'idea, il senso, l'impressione di ciò che avviene durante un acquazzone, è pur vero che il linguaggio è capace di andare oltre. L'illustrazione e la descrizione che il linguaggio verbale stesso è in grado di realizzare sono più efficaci, perché esse sono meglio percepibili da parte del fruitore, che in fondo non ha neanche il bisogno di avere speciali competenze di comprensione, mentre potrebbe averne bisogno per interpretare i risvolti della «Pastorale» beethoveniana (in cui le immagini acustiche sono fisiologicamente improntate ad un simbolismo e ad una metaforicità più pronunciate rispetto a quelle di cui necessita il linguaggio verbale, per esprimere l'universo noetico e pensabile di cui è referente). Eppure Bacon dimostra che la pittura può rendere anche ciò che è invisibile. Come potrebbe il linguaggio verbale rendere il concetto di linfa vitale più efficacemente di quanto abbia fatto la pittura baconiana? Basti osservare il «Triptych August» del 1972, dove essa assume la presenza iconica di una sostanza fluida vagamente rosata. Ma allora che cosa insegna l'arte figurativa alla letteratura? Tutto, se pensiamo che la letteratura ha lo stesso scopo dell'arte: rendere appunto visibile ciò che non lo è, stando anche a una dichiarazione di Paul Klee.
Ma c'è dell'altro. Afferma Coscia che non riesce più a leggere ciò che è pura narrazione: testi i cui verbi sono declinati soprattutto al passato remoto e dove si narra in terza persona. Non vi vede verità. Per lui verità è ciò che rimane quando la letteratura smonta, deforma, assembla, apre, scortica per mostrare ciò che esiste dietro alle cosiddette storie. Ecco dunque che cosa per lui deve fare la letteratura: smascherare i meccanismi, esprimere l'idea (lo diceva anche Andrej Tarkovskij a proposito dello scopo del cinema). Ci siamo trovati a discutere su questo suo punto di vista. Lo facemmo brevemente durante la presentazione del suo precedente «La bellezza che resta», quando io manifestai il dubbio che alla letteratura possa nuocere la troppa autobiografia (ciò in cui sfacciatamente si rifugiano coloro che, condividendo per interesse il punto di vista espresso da Fabrizio, pensano che smontare equivalga solo a parlare di se stessi, perché reputano che quanto sta dietro le storie sia in fondo la vita in cui tutti siamo immersi). Ne abbiamo riparlato qualche giorno fa a proposito di un'altra riflessione di Fabrizio sul tema, alla quale mi permettevo di rispondere che scrivere di sé non è difficilissimo poiché non è necessario fare lo sforzo creativo di "inventare" la materia, mentre è forse più difficile scrivere inventando un intreccio che non ci appartiene. Che poi anche in quest'ultimo rientrino i contributi autobiografici, non credo importi. Se leggiamo «Anna Karenina», c'imbattiamo nel matrimonio ortodosso di Kitty e Lëvin. Magari poi scopriamo che la narrazione di quest'ultimo è ispirata al matrimonio vero di Lev Tolstoj e Sof'ja Bers, ma finché non lo sappiamo, la narrazione funziona ugualmente. Allora - dice Fabrizio - anche la letteratura, analogamente a quanto avviene nella pittura di Bacon, può restituire sensazioni, urla, dolore, senza la necessità di una rappresentazione "verbo-iconica" e narrativa definita. Del resto - continua a dire Coscia - lo stesso Bacon affermava che metà delle immagini che egli traeva dal suo sistema nervoso per raffigurarle su tela egli stesso non sapeva che cosa significassero. Così, per quanto Bacon adottasse il trittico come sistema di composizione, e sebbene ciò potesse ricordare i trittici medievali le cui raffigurazioni potevano pure avere vicendevoli legami narrativi, egli usò invece i trittici per fare di ogni pannello della triplice raffigurazione un fatto, un evento, un'istantanea a sé. Certo: forse a Bacon si sarebbe dovuto fare notare che egli usava comunque i trittici immergendo ciascuno in un alveo tematicamente unitario e per fornire trattazioni situazionalmente diverse dello stesso soggetto. Quanto sarà riuscito, così facendo, a evitare davvero la continuità tutta narrativa tra una raffigurazione e l'altra dello stesso trittico?
Non mi soffermo sulla suggestiva e ferrea analisi dei dipinti baconiani, sui sensi sceverati e sezionati da Coscia, il quale si rivela (ma non è una novità) luminoso critico d'arte, oltreché lo scrittore che siamo ormai abituati a leggere. Non indugio neanche sull'analisi del rapporto sadomasochistico fra il protagonista del suo libro e George Dyer (ossessione figurativa di Bacon), non su quella della riproduzione dei corpi maschili, della resa di un narcisismo che va in polvere giungendo alla dissoluzione finale. E non svelo neanche se, alla fine, quella famosa immagine dall'intenso arancio sia stata individuata. Per tutto ciò è bene aprire e leggere il libro, al quale dedico questo modesto testo, nella speranza di essere riuscito ad entrare anche solo in parte nel mondo interiore di Fabrizio.
Ivo Flavio Abela
P.S. Una nota personale mi sia concessa. Le riflessioni finora tessute riguardano il Coscia scrittore e saggista. Dal punto di vista umano, avrei su tale individuo più di qualche perplessità.
Alla ricerca di qualcosa che potrebbe pure non esistere fa da contraltare la rappresentazione baconiana di ciò che non si vede, nell'analizzare la quale Coscia compie un corpo a corpo: il suo io lotta contro l'artista in modo cruento. Al sangue che talvolta scorre sulle tele di Bacon si aggiunge quello sgorgato dalle ferite che Coscia infligge al pittore, penetrandolo con la lama affilata della sua scarnificante capacità ermeneutica, ma pure da quelle che Bacon infligge a Coscia ogni qual volta Fabrizio si trova a soccombere al cospetto dell'invisibile trasformato in codice all'origine di una visione, quasi egli dovesse rassegnarsi a subire i fendenti inflittigli da chi - Bacon stesso - tira fuori una spada più potente. Ma tale duello è pure un amplesso passionale lungo sessantuno pagine. L'amore di Coscia per Bacon è viscerale, tanto quanto lo è la rappresentazione baconiana dell'amore stesso, della violenza, della linfa vitale, dell'anima, delle urla. Già: perché noi possiamo osservare un quadro di Bacon e sentire l'urlo che egli vi ha voluto rappresentare.
Ritratto "baconiano" dell'autore |
Antonio Celano Salone del Libro Torino 2018 |
Ma c'è dell'altro. Afferma Coscia che non riesce più a leggere ciò che è pura narrazione: testi i cui verbi sono declinati soprattutto al passato remoto e dove si narra in terza persona. Non vi vede verità. Per lui verità è ciò che rimane quando la letteratura smonta, deforma, assembla, apre, scortica per mostrare ciò che esiste dietro alle cosiddette storie. Ecco dunque che cosa per lui deve fare la letteratura: smascherare i meccanismi, esprimere l'idea (lo diceva anche Andrej Tarkovskij a proposito dello scopo del cinema). Ci siamo trovati a discutere su questo suo punto di vista. Lo facemmo brevemente durante la presentazione del suo precedente «La bellezza che resta», quando io manifestai il dubbio che alla letteratura possa nuocere la troppa autobiografia (ciò in cui sfacciatamente si rifugiano coloro che, condividendo per interesse il punto di vista espresso da Fabrizio, pensano che smontare equivalga solo a parlare di se stessi, perché reputano che quanto sta dietro le storie sia in fondo la vita in cui tutti siamo immersi). Ne abbiamo riparlato qualche giorno fa a proposito di un'altra riflessione di Fabrizio sul tema, alla quale mi permettevo di rispondere che scrivere di sé non è difficilissimo poiché non è necessario fare lo sforzo creativo di "inventare" la materia, mentre è forse più difficile scrivere inventando un intreccio che non ci appartiene. Che poi anche in quest'ultimo rientrino i contributi autobiografici, non credo importi. Se leggiamo «Anna Karenina», c'imbattiamo nel matrimonio ortodosso di Kitty e Lëvin. Magari poi scopriamo che la narrazione di quest'ultimo è ispirata al matrimonio vero di Lev Tolstoj e Sof'ja Bers, ma finché non lo sappiamo, la narrazione funziona ugualmente. Allora - dice Fabrizio - anche la letteratura, analogamente a quanto avviene nella pittura di Bacon, può restituire sensazioni, urla, dolore, senza la necessità di una rappresentazione "verbo-iconica" e narrativa definita. Del resto - continua a dire Coscia - lo stesso Bacon affermava che metà delle immagini che egli traeva dal suo sistema nervoso per raffigurarle su tela egli stesso non sapeva che cosa significassero. Così, per quanto Bacon adottasse il trittico come sistema di composizione, e sebbene ciò potesse ricordare i trittici medievali le cui raffigurazioni potevano pure avere vicendevoli legami narrativi, egli usò invece i trittici per fare di ogni pannello della triplice raffigurazione un fatto, un evento, un'istantanea a sé. Certo: forse a Bacon si sarebbe dovuto fare notare che egli usava comunque i trittici immergendo ciascuno in un alveo tematicamente unitario e per fornire trattazioni situazionalmente diverse dello stesso soggetto. Quanto sarà riuscito, così facendo, a evitare davvero la continuità tutta narrativa tra una raffigurazione e l'altra dello stesso trittico?
Non mi soffermo sulla suggestiva e ferrea analisi dei dipinti baconiani, sui sensi sceverati e sezionati da Coscia, il quale si rivela (ma non è una novità) luminoso critico d'arte, oltreché lo scrittore che siamo ormai abituati a leggere. Non indugio neanche sull'analisi del rapporto sadomasochistico fra il protagonista del suo libro e George Dyer (ossessione figurativa di Bacon), non su quella della riproduzione dei corpi maschili, della resa di un narcisismo che va in polvere giungendo alla dissoluzione finale. E non svelo neanche se, alla fine, quella famosa immagine dall'intenso arancio sia stata individuata. Per tutto ciò è bene aprire e leggere il libro, al quale dedico questo modesto testo, nella speranza di essere riuscito ad entrare anche solo in parte nel mondo interiore di Fabrizio.
Ivo Flavio Abela
P.S. Una nota personale mi sia concessa. Le riflessioni finora tessute riguardano il Coscia scrittore e saggista. Dal punto di vista umano, avrei su tale individuo più di qualche perplessità.