martedì 24 agosto 2010

Divertissement di mezza estate

Quanto segue costituisce la riscrittura dell’incipit di «Alice nel paese delle meraviglie» sul modello degli «Esercizi di stile». Anche il presente post è nato su FaceBook.


Il testo originale proposto è esattamente il seguente:

«Alice cominciava ad essere stufa di starsene seduta vicino a sua sorella sulla riva del fiume, senza niente da fare; aveva sbirciato un paio di volte nel libro che sua sorella stava leggendo, ma non c’erano né figure né dialoghi, “e a che pro un libro” pensava Alice, “senza le figure e i dialoghi?”. Così se ne stava a riflettere nella sua testolina (per quanto era possibile, perché faceva un caldo del diavolo e le cascavano gli occhi e la concentrazione) se il piacere di intrecciare una coroncina di margherite valesse la noia di alzarsi per coglierle, quando dal nulla un Coniglio Bianco con gli occhi rosa le passò accanto correndo a tutta birra».


L’esito della mia riscrittura è il seguente:

Lirico: contaminatio, ovvero petrarchesco + comico-realistico (il sonetto caudato è proprio della lirica comico-realistica, ma il linguaggio in esso usato è in buona percentuale di ascendenza petrarchesca):

Sonetto caudato. Schema ABBA ABBA CDE CDE eFF.

Ad onta sua e dell’imberbe etade,
Insofferenza e tedio tengon desta,
Rendendo sua giornata alquanto mesta,
Fanciulla presso liquide contrade.

Alice ella si noma e volte rade
Al libro i lumi suoi rivolge lesta,
Al qual germana sua lettura presta,
Ma dialoghi e figure esso non trade.

Sprezzando vanità di simil tomo,
Cercando cogitar pur sotto i rai
Se ghirlandetta con agresti fiori

D’intessere piacer valesse ad huomo
Levarsi e coglier senza tanti lai,
Repente epifania scuote i suoi umori:

Leporide vien fuori
(Virgineo il pelo e pesco son le luci)
Ratto qual stral che tu, Amore, adduci.


Giuseppe, mio vecchio e fraterno amico, propose invece la seguente riscrittura:

Psicanalitico

Alice ha bisogno di affermare la propria personalità (identità individuale) nei confronti della sorella maggiore (gli altri), con la cui vita è, ahimè, entrata in concorrenza sin dalla nascita. Alice osserva la sorella (gli altri) per superarne i limiti della propria immobilità fisica spazio-temporale (stare in un luogo ristretto privo di stimoli culturali) e del proprio schematismo mentale (pensare sulla falsariga del conformismo di massa) e poter entrare in contatto con un mondo assolutamente vario e dinamico, ricco di scambi relazionali e di molteplici livelli di realtà immaginata, con cui la sorella (gli altri) non ha a che fare. Il caldo torrido di agosto ed il pomeriggio assolato dopo una notte insonne (uno dei tanti alibi che quotidianamente ci costruiamo per giustificare la nostra pigrizia) non l’aiutano molto in questo sforzo di cambiamento, tuttavia, non appena comincia a rilassarsi pensando ad un possibile lavoro artigianale da intraprendere a breve, scatta veloce l’illuminazione che la porterà lontano dallo scarno paesaggio fisico ed interiore della sorella (gli altri). La svolta può essere data più semplicisticamente dalla scelta di amare qualcuno (per costruire un rapporto originale), ma preferibilmente, secondo me, è data dalla scelta di amare qualcosa come la scrittura, strumento supremo di dialogo e di immaginazione.
 

Francesco, da valentissimo uomo di lettere e di teatro qual è, propose qualcosa di imprevisto e godibilissimo:
 
Montaliano

«Alice Xenia e Satura» (Ossi di Alice)

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi del libro
senza figure, era mia sorella fastidiosa.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina favolanza:
era la corsa del Coniglio Bianco
nel meriggio, e lo specchio, ed un nuovo alto fato.

martedì 17 agosto 2010

Su Antonio Canova

Il presente testo campeggiava fra le note facebookiane di un mio vecchio account. È dedicato a una pregevole monografia su Antonio Canova scritta dal professore Aldo Scibona e voleva costituire una sorta di recensione ad uso di quanti, fra gli amici presenti nella mia lista di contatti, mi avevano chiesto via mail informazioni sul valore, il senso e i contenuti del libro sciboniano, sapendo che avevo avuto l’immeritato onore di presentarlo. Mi sembrava il modo più pratico e proficuo non solo di fornire una risposta, ma anche di offrire un tributo alla memoria dell’artista neoclassico.

Poiché il caldo estivo (avevo pubblicato la nota nel corso dell’estate 2009) ottundeva alquanto le mie capacità di cogitazione (a dire il vero poco efficaci anche in altre e meno aggressive stagioni), avevo preferito costruire la recensione saccheggiando ampiamente il canovaccio da me redatto in vista della presentazione. Sicché se qualcuno dei potenziali lettori v’avesse assistito, avrebbe riconosciuto sicuramente alcuni luoghi da me già verbalizzati in quella sede.

È doveroso ricordare che l’inquadramento del neoclassicismo proposto ad incipit della recensione (peraltro alquanto sviluppato in sede di esecuzione) è nelle linee generali liberissimamente ispirato a quello proposto da Nicolò Mineo in «Vincenzo Monti. La ricerca del sublime e il tempo della rivoluzione», Giardini Editori e Stampatori in Pisa, 1992. Arduo e complesso era stato tuttavia operare una funzionale contaminatio fra alcune smaccatamente accademiche suggestioni offerte dal testo di Mineo (peraltro riguardanti un Monti che di neoclassico ebbe solo l’etichetta e non l’identità) e le vivaci suggestioni sciboniane (per di più riguardanti un Canova che di neoclassico ebbe tanto l’una quanto, pienamente, l’altra).


Antonio Canova inventore della bellezza
secondo Aldo Scibona

Rigore filologico, onestà intellettuale, competenza testuale caratterizzano uno studio che contribuisce al riscatto di uno dei più grandi cantori del Neoclassicismo, troppo spesso liquidato come autore di “svarioni cimiteriali”.

Jacques Louis David, Il giuramento degli Orazi, 1784 
Nel 1785 viene esposto a Roma «Il giuramento degli Orazi» di Jacques Louis David. In esso la virtù degli antichi romani è esaltata attraverso forme classiche. Il contenuto è però permeato di romanesimo repubblicano (il cui potenziale “eversivo” sembrerebbe ispirare in ogni paese i rivoluzionari dal 1789 in poi). In esso Marx individua una “resurrezione dei morti”, atta a «magnificare le nuove lotte, non a parodiare le antiche; […] a ritrovare lo spirito della rivoluzione, non a rimetterne in circolazione il fantasma» («Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte», in «Rivoluzione e reazione in Francia», trad. ital., Torino, Einaudi, 1976, pp. 172-174). È il consolidarsi della cosiddetta «linea romana» del neoclassicismo. Antonio Canova (1757 – 1822), che fin dal 1781 si è stabilito a Roma, resuscita pure i morti (greci in particolare). Tale resurrezione di morti egli finalizza a «magnificare le nuove forme artistiche, non a parodiare le antiche; […] a ritrovare lo spirito dell’arte e della bellezza, non a rimetterne in circolazione il fantasma», per usare i moduli espressivi di Marx. Canova si distingue così da molti intellettuali e letterati italiani a lui contemporanei che non riescono a discernere il punto di rottura fra il classicismo e il neoclassicismo. Egli è un vero neoclassico in accezione etimologica. È anzi moderno.

Aldo Scibona, «Canova. La mano di Dio»
Treviso, Editing Edizioni, 2008
Aldo Scibona in «Canova. La mano di Dio» (Treviso, Editing Edizioni, dicembre 2008) porta alla luce proprio la modernità di Canova, artista che inventa una bellezza e non si limita a ricopiarla dai classici, anzi artista che – dice Scibona – esprime «un’intuizione moderna della bellezza». Scibona sviluppa il concetto rendendolo isotopia della sua opera, isotopia che percorre tutto il libro sotterraneamente, salvo emergere vistosamente in alcuni luoghi dei quali quattro (veri e propri snodi testuali dell’isotopia stessa) appaiono particolarmente significativi, a parere di chi scrive:

  • l’incipit di pagina 13. Il 1757 vi viene presentato come «un anno particolarmente fortunato per il futuro movimento neoclassico in Europa ed in Italia» per tre ragioni. L’architetto Jacques-Germain Soufflot a Parigi inizia i lavori di costruzione della Chiesa di Sainte Geneviève. Etienne Maurice Falconet scolpisce La bagnante del Louvre. Infine il 1° novembre nasce appunto Antonio Canova. La data di nascita di Canova risulta così inquadrata in un disegno – per così dire – provvidenzialistico, quasi di attesa messianica finalmente soddisfatta grazie alla natività del messia del neoclassicismo;
  • la pagina 29. Scibona vi ricorda quanto Canova, in occasione del suo primo soggiorno a Roma (1779), si riveli singolarmente insofferente nei confronti dell’ammirazione ivi tributata alla scultura antica;
  • la pagina 34. Scibona vi inserisce in particolare una testimonianza di Stendhal: «Il Canova ha avuto il coraggio di non copiare i greci e di inventare una bellezza, come avevano fatto i greci»;
  • le pagine 214-215, in cui Scibona riporta le parole scritte da Canova all’amico Quatremère de Quincy in occasione della permanenza a Londra, dove Canova vede i marmi del Partenone: «Se è vero che queste siano opere di Fidia, o ch’egli vi abbia posto mano per ultimarle, esse mostrano chiaramente che i grandi maestri erano i veri imitatori della bella natura […] Le opere dunque di Fidia sono vera carne, cioè bella natura. […] l’aver veduto queste cose ha sollecitato il mio amor proprio, perché sempre io sono stato del sentimento che i grandi maestri avessero dovuto operare in questo modo e non altrimenti […] perché sempre gli uomini sono stati composti di carne flessibile e non di bronzo».

Antonio Canova, Venere Italica
Ai quattro luoghi citati ne va però aggiunto un quinto: quello della prova tangibile di quanto fin qui affermato. Alle pagine 158-159 Scibona infatti sottolinea come l’ideale di bellezza moderna sia raggiunto da Canova nella Venere Italica, commissionata allo scultore per rimpiazzare l’ellenistica Venere de’ Medici degli Uffizi, trafugata in Francia da Napoleone. Nella sua Venere – dice Scibona – Canova rinnova il movimento della Venere de’ Medici. Ma compie il miracolo: la dea emana fascino umano. Foscolo afferma: «Se la Venere dei Medici è bellissima Dea, questa che io guardo e riguardo è bellissima donna: l’una mi faceva sperare il Paradiso fuori di questo mondo, e questa mi lusinga del Paradiso anche in questa valle di lagrime». Scibona sembra fargli il verso. Anzi rivendica alla Venere canoviana una sensualità che neanche le Tre Grazie possiedono (esprimendo esse «soltanto una leggiadria ed una purezza giovanile»). Che per Scibona tale Venere sia un capolavoro “completo” emerge anche dalla sua precisazione riguardo all’epiteto di ‘italica’: la Venere canoviana fu così chiamata non soltanto per distinguerla dalla Venere de’ Medici, ma anche perché espressione di un’italianità già prorompente, per quanto non ancora politicamente realizzata (quell’italianità che diventerà addirittura personificazione piangente dell’Italia nel monumento funebre a Vittorio Alfieri).

Uno dei punti di forza del libro è l’attenta disamina di ognuno dei miti trattati da Canova. Scibona non si limita a descrivere le singole opere, ma scava nelle più recondite pieghe del mito alla ricerca di dati illuminanti per un’interpretazione quanto più verosimile possibile della singola realizzazione scultorea. Lo fa con l’onestà intellettuale tipica di chi sposa il modello dell’analisi filologica. Tre esempi valgano per tutti:

  • Venere e Adone. Scibona ricorda l’origine fenicia del mito, ma anche la tradizione femminile di realizzare i cosiddetti ‘giardini di Adone’ durante le Adonie (feste ateniesi della durata di otto giorni). E proprio come un giardino d’Adone Scibona interpreta l’opera;
  • Endimione dormiente. Scibona analizza il mito, ne spiega il significato, cita altre versioni del mito, infine individua nel «Dialogo 11» di Luciano di Samosata la fonte principale di Canova nelle parole con cui Selene parla di Endimione ad Afrodite (in particolare per i dettagli della clamide sulla roccia, della mano sinistra da cui scivolano le frecce, della destra piegata verso l’alto intorno al capo);
  • alcuni bassorilievi in gesso quali «La danza dei figli di Alcinoo» e «Le Troiane presentano il peplo a Pallade». Scibona ripercorre le vicende rispettivamente dei libri VI, VII, VIII dell’«Odissea» e del libro VI dell’«Iliade». Narra e descrive usando una prosa delicata quanto la materia in cui gli stessi bassorilievi sono realizzati. Crea gradevoli quadri che non si esagererebbe nel ritenere tali quali (per dirla desaussurianamente) le immagini acustiche probabilmente innescate nella mente dello stesso Canova, quando si faceva leggere quegli stessi racconti durante il lavoro.

Antonio Canova, La danza dei figli di Alcinoo

Antonio Canova, Maddalena penitente
Analogamente l’autore si regola analizzando quello che egli stesso definisce il «nervo scoperto» della produzione canoviana: Maddalena penitente (Museo di Sant’Agostino a Genova). Scibona l’interpreta alla luce del testo evangelico di Luca contenente i dettagli delle lacrime che bagnano i piedi di Cristo e dei capelli con cui la donna glieli asciuga. La descrive quindi minuziosamente insistendo sulla sublimazione dell’umano incarnata nel contrasto fra la bellezza del corpo e la sua mortificazione.

Dal testo di Scibona emerge inoltre un Canova profondamente consapevole della situazione storica del suo tempo. Sono le parti in cui Scibona diventa più “biografo”, delineando peraltro un ritratto di Canova quale «attento discepolo di Niccolò Machiavelli», dotato di «una raffinata consapevolezza della “ragion di Stato”».

Che il lavoro di Scibona assuma le caratteristiche di un’opera filologicamente onesta può emergere dall’uso di fonti “dirette” quali le epistole, il diario romano e l’«Abbozzo» di biografia redatti dallo stesso Canova, nonché la «Vita» di Antonio Canova del Missirini (1824).

Il registro sciboniano è generalmente elevato, ma mai incomprensibile, se mai immediato. E tale immediatezza emerge in particolare da alcuni luoghi in cui Scibona sembra derogare a tratti linguistici da parlato quasi prototipico (quelli caratteristici dell’italiano neostandard) quali, per esempio, certe topicalizzazioni come le dislocazioni a sinistra («La stessa valutazione problematica è possibile formularla per un’altra statua di marmo», p. 110), ‘lei’ soggetto («che lei gli ha inviato», p. 197), certi genericismi («la scelta che fa», p. 202), la deissi spaziale («In questo modo», p. 214, usato come vagamente “simoniano” incapsulatore di quanto appena affermato). Non ne risulta però affatto lesa la coerenza formale, semmai ne esce rafforzata l’efficacia comunicativa.

«Canova. La mano di Dio» è stato presentato il 19 dicembre 2008 presso il Museo Santa Caterina di Treviso a cura della Fondazione Canova di Possagno, paese natale dello scultore, e della Provincia di Treviso, nonché il 7 febbraio 2009 presso l’auditorium del Liceo Classico di Gela, paese natale di Aldo Scibona.

Ivo Flavio Abela

Il momento conclusivo della presentazione siciliana del libro:
la parola all’autore
(il sottoscritto appare parzialmente coperto dall'asta del microfono)

lunedì 2 agosto 2010

Ricordi girgentani

Catania.
Ex Monastero dei Benedettini,
sede della Facoltà di Lettere.
Scalone d'ingresso
Era l’ultima settimana dell’agosto del 2003. Quella mattina mi ero recato a Catania per chiudermi nella Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia (ex Monastero dei Benedettini). Mi servivano alcuni saggi di Italianistica e di Scrittura Professionale per una relazione che stavo preparando in vista del colloquio finale di un Master che frequentavo. Giunto in Biblioteca, non trovai esattamente ciò che mi serviva (complice l’assenza di volontà di lavorare seriamente) e fui in grado di fotocopiare ben poco: trovarmi nella deserta Biblioteca di una Facoltà semideserta mi rattristava. Piuttosto deluso — e con una buona dose di senso di colpa — rientrai a Gela intorno alle 16:00 e trovai deserta pure casa mia (i miei genitori avevano preferito recarsi nella casa di Piazza Armerina per qualche giorno).


Palma di Montechiaro (AG).
Chiesa Madre
(nota anche come Chiesa del Gattopardo)
Mi giunse improvvisamente la telefonata di un amico agrigentino: mi invitava a raggiungerlo quello stesso pomeriggio ad Agrigento in vista di un evento serale che avrebbe preso forma al Kaos. Una compagnia teatrale avrebbe interpretato passi dell’opera pirandelliana lungo il sentiero che unisce la piazzola antistante l’ingresso della casa natale di Pirandello e la pietra tombale che ne contiene le ceneri; sarebbe seguita una cena all’aperto proprio davanti alla casa. Decisi di accettare l'invito e partii. Durante il viaggio mi accarezzava l’udito la voce di Mariella Devia impegnata nell’allora alquanto recente «Lucrezia Borgia» scaligera, di cui avevo procurato la registrazione digitale. La vertiginosa coloratura cui il soprano deve sottostare nel finale dell’opera (tesa a rendere il rimorso e il dolore di Lucrezia al cospetto del cadavere del figlio e preannunciante la sua stessa morte) si fuse a un tratto con l’immagine della cosiddetta Chiesa del Gattopardo di Palma di Montechiaro, a sud della quale mi toccò passare immediatamente prima di raggiungere Agrigento.

Agrigento. Villa Athena
(veduta dal Tempio della Concordia)
Quella notte, dopo lo spettacolo e la cena al Kaos, sarei rimasto estasiato alla vista che mi si sarebbe offerta quando avrei aperto la finestra della stanza d’albergo che mi era stata riservata a Villa Athena. Non mi sarei aspettato tanta bellezza. Giunto nel tardo pomeriggio a Villa Athena, mi ero limitato a depositare il bagaglio, fare una doccia, rivestirmi e uscire frettolosissimamente per raggiungere il mio ospite, ma non avevo pensato ad aprire la finestra, né tantomeno avevo ragionato sull’orientamento e sulla disposizione della camera. Meglio così: se avessi aperto quelle imposte e avessi ragionato sui due elementi, la sorpresa quella notte non sarebbe stata così “violenta”. All’apertura della finestra fui letteralmente investito dal lato lungo settentrionale del Tempio della Concordia, splendido nella sua monumentalità e nel colore della pietra locale, recante sorta di iridescenze tendenti all’arancio e sapientemente provocate dall’illuminazione artificiale.


Agrigento. Valle dei Templi.
Il tempio della Concordia
(lati settentrionale e occidentale)
Anche disteso sul letto avevo agio di contemplare quella che al momento mi sembrava un’immagine onirica, immerso peraltro com’ero fra gli effluvi del vino abbondantemente consumato durante la cena (svoltasi sullo spiazzo antistante la casa natale di Luigi Pirandello). Mentre guardavo quello spettacolo (e lottavo contro il sonno perché avrei preferito continuare a contemplare il tempio fino all’alba in quel notturno "miracolosamente" generatosi), mi sembrò di comprendere meglio che cosa Pirandello avesse inteso significare con le parole «maestosi ed aerei sull’aspro ciglione», riferite ai templi che contemplava verosimilmente dal Kaos.

Porto Empedocle (AG)
(veduta diurna dal Kaos)
Il motivo per cui ho riportato dettagliatamente simili ricordi è presto spiegato. Quella giornata sancì ufficialmente il mio rapporto di profondissimo amore con un luogo che avevo già avuto modo di apprezzare e dal quale mi ero sempre sentito terribilmente attratto. Le sensazioni di quella giornata mi portarono a fissarlo indelebilmente nella mia anima. Peraltro un paio di ore prima della scoperta del "miracolo", mentre percorrevo il sentiero fra la casa e la pietra tombale (era buio: si avvicinavano le 22:00), proprio a ridosso del vallone argilloso che si distende a sud-ovest della casa pirandelliana, il mio ospite mi indicò Porto Empedocle: l’antico porto dell’antica Girgenti si presentava come un caleidoscopio di luci bianche e rosse magistralmente posizionato nella buia notte che copriva con il suo enorme manto di pesante broccato nero noi, Agrigento, il Kaos e lo stesso antico Porto Empedocle. L’ospite mi disse di fissare bene in mente quel paesaggio perché qualche giorno dopo lo avrei rivisto riprodotto su tela.

Lina Pirandello, "Ferrovia sotto al Kaos".
Olio su tela, 60 x 30 cm.
Collezione eredi Pirandello: Renata Marsili.
Agrigento. Contrada Kaos.
Casa natale di Luigi Pirandello
I versi seguenti sono tratti da una composizione molto più lunga, ironicamente e alquanto goliardicamente (sebbene io abbia tagliato le parti più goliardiche) indirizzata allo stesso ospite al quale intendevo chiedere almeno una riproduzione fotografica di quella tela (ho espunto anche la parte della richiesta). Ovviamente è un puro divertissement, peraltro ispirato alla «Commedia» dantesca tanto linguisticamente quanto tematicamente. Ma l’ho riletto con un certo piacere nel pomeriggio di oggi, quando — casualmente — l’ho ritrovato fra vecchi testi dimenticati sul mio hard disk. Non ricordavo affatto di averlo scritto. Il nome dell’artista autore del dipinto cui si accenna (che stimo moltissimo anche per le sue qualità umane) è volutamente taciuto. Preferirei che egli si rivelasse da sé, se mai leggerà queste righe, ma non è ovviamente obbligato a farlo.

Essendo un po' nostalgico d’umore,
patendo debolezza di cervello,
ricordo sempre con immensa gioia
la notte estiva al Parco Pirandello.
Memoria mai nemica fu di noia
come quella che esercita il rovello,
facendomi anelare il rivedere
di Girgenti sulfurea ‘l porto vecchio.
In buia notte, in atmosfere nere,
di Empedocle il Porto parea specchio
da cui virtuali promanavan sfere
di rosso-biancheggianti aerei soli.
Come il cantor di Enea al Ghibellino
mondano esplorator di eterei poli,
Tal disse a me con fare sibillino:
«Fissati in cuore questi aerei voli.
Vagherai meco su celesti vele
verso una casa ove rifulge l’arte.
Con man divina ivi dipigne tele
tal che di un don divino è messo a parte».
Al terzo dì dacché gustai quel miele,
Ei mi condusse una mattina seco
al cospetto dell’uom che col pennello
del Mesógheios fa riviver l’eco
e dell’Atlantico e d’ogni vascello
che forza d’imago conduca seco;
l’uom che alla tavolozza dona l’ali
plasmando viste tratte da ogni ponto
e dipingendo i porti commerciali:
vero Argonauta di nuovo Ellesponto.
Quel quivi aggiunse parole rituali:
«Qui ti condussi lontan dalle genti.
Mira il dipinto su quella parete:
il porto riconosci di Girgenti
che tre dì fa t’invescò nella rete.
Mira la porpora, i soli e gli argenti».
Della tela l’immagine e l’icona
della vista dal Letterario Parco
mi si fusero in mente ed or risuona
un desìo che giammai mi rese scarco,
che sempre in mente è vivo e rintrona:
vedere di Girgenti il porto antico
com’io lo vidi quella notte e quale
vita gli die' il pittor di cui dico.

Ivo Flavio Abela