Se ponessimo sui due piatti di una bilancia l'Occidente e l'Oriente a partire dal IV secolo d.C., il piatto contenente l'Oriente si abbasserebbe. Perché Flavio Valerio Costantino, imperatore romano dal 306 al 337, avrebbe segnato la storia dell'Impero orientalizzandolo. La sua scalata verso la vetta di un potere che
l'avrebbe visto trionfare quale unico sovrano si combina infatti col trasferimento del centro amministrativo dell'Impero romano proprio in direzione asiatica. La creazione di Costantinopoli sulle rive del Bosforo avrebbe costituito nei secoli a venire l'unico elemento capace di fare sopravvivere l'Impero romano stesso, anche se esso si sarebbe gradualmente trasformato in una compagine statale dai forti connotati teocentrici e bizantini.
La creazione della nuova capitale avrebbe spostato verso Est anche il baricentro economico dell'Impero, favorendo lo sviluppo urbano in particolare della penisola anatolica e della provincia galatica in essa contenuta. Se Diocleziano aveva inferto un colpo non indifferente all'Occidente finendo per disinteressarsene (e il suo ritiro nel Palazzo di Spalato, dove si sarebbe dato all'ozio e all'agricoltura, ne è la prova più significativa), Costantino sembra abbandonarlo al suo destino, preparando inconsapevolmente l'apertura delle porte ai barbari che di lì ad alcuni decenni avrebbero finito per colpire la
direttamente al cuore.
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Icona con Elena e Costantino santi della Chiesa Ortodossa |
Costantino, figlio naturale di Costanzo Cloro e della
stabularia Elena, era personalità controversa. Spregiudicatamente sanguinario nei confronti dei membri della sua stessa famiglia, fautore
– ce lo ricorda Santo Mazzarino
– di una società fortemente piramidale imperniata sul valore effettivo della moneta aurea, intendeva imporsi ai sudditi come επίσκοπος τῶν εκτός (
epískopos tòn ektós), letteralmente «vescovo di quelli di fuori»: i laici (stando ancora al Mazzarino), cioè quanti risiedevano fuori dal raggio dell'autorità propriamente ecclesiastica dei vescovi. Senonché la scelta della parola
epískopos è fortemente indicativa: se ciascun vero
epískopos esercitava la propria autorità religiosa sulle anime di quanti vivevano nel proprio ambito di competenza, Costantino esercitava un'autorità laica su tutti perché così
– sublime contraddizione
– Dio stesso aveva voluto, manifestandoglisi la notte del 27 ottobre del 312, cioè alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio. Costantino ne sarebbe stato il vincitore sconfiggendo Massenzio. Quest'ultimo sarebbe morto nelle acque del Tevere, come ricorda Lattanzio nel «De mortibus persecutorum», trattato che s'inscrive nella tradizione apologetica di una Letteratura cristiana in lingua latina che muove i primi passi (e che solo più tardi giungerà alla definitiva maturità conferitale dall'ipponense Agostino attraverso la codificazione teologica del pensiero cristiano).
La presunta visione di Costantino nel corso di quella notte è il tema di
«In hoc vinces» di
Bruno Carboniero e
Fabrizio Falconi (Edizioni Mediterranee, 2011). Costantino avrebbe visto in sogno il monogramma di Cristo accompagnato dalle parole «Τούτῳ νίκα» (
Toúto níka,
come riferisce Eusebio di Cesarea) o «Ἐν τούτῳ νίκα» (
En toúto níka, come riferiscono altre fonti): rispettivamente «Con questo vinci» (intendendo
Τούτῳ come dativo strumentale) e «In questo vinci» (
En toúto è un complemento di stato in luogo figurato). Tali parole sarebbero state integrate con la menzione del
signum nella corrispondente espressione latina «In hoc signo vinces» («In questo segno vincerai»). Costantino avrebbe dunque fatto imprimere quel
signum sugli scudi dei suoi soldati i quali, pur numericamente inferiori rispetto a quelli di Massenzio, sarebbero stati i vincitori della battaglia di Ponte Milvio.
Com'è noto, la visione di Costantino è stata letta nel corso dei secoli sostanzialmente in due modi. La tradizione storiografica inaugurata da Lattanzio ed Eusebio di Cesarea
– che ne riferiscono rispettivamente nel già citato «De mortibus persecutorum» e nella «Vita Costantini», sebbene non negli stessi termini, ma convergendo comunque sul particolare del sogno
– ha individuato in essa semplicemente un evento miracoloso. La storiografia successiva ha invece letto generalmente nella visione nulla più di una fola costruita e diffusa ad arte dalla propaganda di regime
– in cui gli scritti di Lattanzio e di Eusebio si inscrivono ovviamente a buon diritto
– per giustificare la liceità e la necessità del potere costantiniano.
Alla luce della seconda e più razionale interpretazione, si spiegherebbero del resto gli utilitaristici tentativi costantiniani di assecondare la diffusione del Cristianesimo a partire dall'emanazione dell'Editto di Milano (313), con cui veniva concessa ai sudditi dell'Impero la libertà di professare qualsiasi religione, compresa quella cristiana. È noto che all'Editto di Milano seguì la cristianizzazione dell'Impero: furono costruite basiliche destinate alle cerimonie religiose cristiane, furono diffusi culti specifici (quello della Croce, per esempio, nella cui elaborazione assunse un ruolo fondamentale Elena), fu affermata l'ortodossia cattolica (per arginare certe derive ereticheggianti quali quella donatista) che trionfò nel Concilio di Nicea del 325. Tale concilio fu del resto fortemente voluto dallo stesso Costantino che così si ritagliava il ruolo di capo
– latente ma poi non troppo
– della neonata Chiesa Cattolica.
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Il Casale di Malborghetto in una vecchia fotografia (si distinguono i fornici) |
Bruno Carboniero e Fabrizio Falconi hanno cercato di affrancarsi da entrambe le letture e dalla strettoia razionalistica del «tertium non datur». Fonti alla mano, essi hanno analizzato innanzitutto la geomorfologia del territorio situato a Nord di Roma, in cui sono compresi il monte Soratte e l'area di Malborghetto con il noto Casale – oggi sede di un distaccamento della Sovrintendenza ai Beni Culturali di Roma – presso cui Costantino si trovava accampato con le sue armate la notte del 27 ottobre 312. Dell'arco murato nel Casale si è sempre ipotizzata una destinazione trionfale legata alla vittoria di Costantino su Massenzio, destinazione che ne farebbe però un inutile duplicato di quello famosissimo eretto a Roma presso i Fori imperiali. Carboniero e Falconi giungono invece a individuarvi un monumento commemorativo di qualcosa di singolare che in quel luogo si sarebbe verificato: proprio la visione di Costantino. Perché Costantino, secondo loro, avrebbe davvero visto qualcosa.
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La Costellazione del Cigno |
Ricostruendo la mappa stellare di quella notte mediante ausilî digitali, gli autori hanno in essa notato una combinazione astronomica assolutamente rara ed inusuale per non essere percepita dall'osservatore dell'epoca come eccezionale: quella notte, in una porzione di cielo piuttosto limitata, erano ben visibili quattro pianeti onomasticamente legati al
pantheon delle divinità romane
e perfettamente allineati fra loro, nonché la costellazione dell'Aquila e la costellazione del Cigno. L'eccezionalità insita nella compresenza di tali corpi celesti poteva a buon diritto essere considerata un
signum da chi, come Costantino, era solito tenere conto delle circostanze astronomiche e delle interpretazioni cui esse andavano soggette. Inoltre, se la costellazione dell'Aquila richiamava l'Impero romano in quanto l'aquila ne era il simbolo più acclimatato, la costellazione del Cigno presentava una conformazione perfettamente sovrapponibile a quella dello staurogramma: il simbolo ottenuto mediante la sovrapposizione dei due grafemi maiuscoli dell'alfabeto greco tau (T) e rho (P), usato dal 200 d. C. circa come monogramma di Cristo.
L'ipotesi è certamente molto suggestiva ed in fondo verosimile, se è addirittura stata presa in considerazione da Marina Piranomonte, archeologa della Sovrintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, nel suo recente saggio «Costantino e i luoghi della battaglia. Ponte Milvio e l'arco di Malborghetto». Tuttavia gli stessi autori – con molta onestà intellettuale – tengono a sottolineare che appunto di ipotesi pura si tratta e che quanto da loro individuato non possiede di certo carattere dimostrativo.
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Piero della Francesca «La visione di Costantino»
Arezzo, Basilica di San Francesco, Cappella Bacci |
Carboniero e Falconi però non si fermano e giungono a chiamare in causa Piero della Francesca, autore del ciclo di affreschi «Leggenda della vera croce» (Arezzo, Basilica di San Francesco, Cappella Bacci), realizzato sulla scorta della «Leggenda dei santi» – poi nota come «Leggenda aurea» – di Iacopo da Varazze (o da Varagine). Il ciclo comprende un affresco in cui viene illustrata la visione di Costantino. Due elementi di quest'affresco hanno attirato in particolare Falconi e Carboniero. Il primo è costituito dal cielo che fa da sfondo alla sommità della tenda nella quale Costantino è disteso: è un cielo vero, cioè un cielo su cui con grande perizia l'artista ha dipinto una configurazione astronomica per qualche verso assimilabile a quella della notte del 27 ottobre 312 (peraltro svelata all'osservatore odierno dai restauri cui l'affresco è stato sottoposto una decina di anni fa). Il secondo elemento è dato dalla creatura alata raffigurata in alto a sinistra: è un angelo, ma un angelo che a prima vista – a causa soprattutto della posizione che ne evidenzia le ali mostrandole posteriormente – sembra un uccello (confrontabile con il cigno raffigurato a testa in giù nelle antiche mappe astronomiche ad indicare l'omonima costellazione). Carboniero e Falconi immaginano insomma che a Piero della Francesca (matematico, alchimista, astronomo) fosse stata tramandata in qualche modo l'idea della effettiva configurazione astronomica della notte del 27 ottobre 312 e – conseguentemente – dell'importanza che in essa era rivestita dal Cigno. Di quest'ultimo avrebbe dunque lasciato un subliminale riferimento proprio nell'immagine "aviforme" dell'angelo che, discendendo dal cielo, porge a Costantino una croce.
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Fabrizio Falconi e Bruno Carboniero visibilmente ... sincronizzati |
È ovvio che un'ipotesi come quella appena discussa appare piuttosto avventata e molto fantasiosa in assenza di altri dati, ma gli autori dichiarano prudentemente di volerla usare come pura ipotesi di lavoro per indagini future (peraltro attualmente in corso), supportati anche dalla raffigurazione musiva dello staurogramma nel Battistero di San Giovanni in Fonte a Napoli (la cui immagine è riportata sulla copertina del libro). Un'epigrafe assegna la paternità del Battistero a Costantino. L'edificio è peraltro annesso alla Basilica che, stando al
Liber Pontificalis Ecclesiae Romanae, sarebbe stata pure costruita per ordine di Costantino. Lo staurogramma appare al centro della cupola del Battistero, stagliandosi (in modo del tutto inedito in quanto mai attestato anteriormente) su un fondo stellato.
«In hoc vinces» è un testo di taglio molto divulgativo, dotato anche di ampie inserzioni discorsive quasi a livello del colloquiale (come se Falconi e Carboniero dialogassero direttamente col lettore). Alla lettura integrale del libro si rimanda senz'altro anche per l'originalità dell'impostazione. Intanto non resta che attendere gli ulteriori sviluppi delle ricerche.
Ivo Flavio Abela