Leggendo
Non dimenticatemi di Pavel Florenskij (cioè la raccolta delle lettere da lui inviate dal gulag alla moglie, ai figli e alla mamma, negli anni che precedono la sua morte per fucilazione), m'imbatto in alcune considerazioni relative a Fëdor Tjutčev e a Fëdor Dostoevskij: meritano di essere appuntate e meditate. Sono tratte da una lettera inviata alla figlia maggiore Ol'ga Pavlovna. In una sua missiva precedente, quest'ultima aveva chiesto al padre di parlarle proprio dei due grandi russi citati e gli esprimeva l'impressione che essi fossero molto simili. Perciò padre Pavel le rispondeva mettendola in guardia dall'errore consistente nell'averli vicendevolmente assimilati.
Le lettere di Florenskij ai familiari sono piene di meravigliose descrizioni e riflessioni relative ai luoghi che al povero deportato furono fatti attraversare prima del suo definitivo stabilirsi presso le ingrate isole Solovki. Ne descrive tutto: il cielo, il clima, le caratteristiche stagionali, la fauna, la flora, i corsi d'acqua. E ogni volta prega i figli di cercare ulteriori notizie riguardanti tali luoghi sugli atlanti e sui libri di geografia che egli ha dovuto lasciare in casa: insiste affinché i figli acquisiscano così nuove conoscenze e nel contempo partecipino alla vita del loro papà che è così lontano (quante volte conclude una lettera con le parole: «Non dimenticare il tuo papà!»).
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Pavel Florenskij |
Spesso si profonde in esposizioni scientifiche (quelle sul gelo sono affascinantissime), in consigli relativi al modo più efficace di costruire una propria enciclopedia di conoscenze che possa costituire una base solida per la vita e le occupazioni future, in ammonimenti fortemente educativi («Non tralasciare lo studio del tedesco e - se puoi - cerca di leggere le opere dei tedeschi in lingua originale, anche se a pezzetti»; «Non tralasciare la musica: studiala con calma e applicazione; ascolta e suona Mozart, Beethoven e Bach»), in suggestioni per l'incremento della fluidità del pensiero, dell'esposizione e della capacità di fare propria anche la musica insita nella lingua («Esercitati nel leggere a voce alta, scandendo ogni parola, poesie sia di autori stranieri, sia di nostri connazionali. Fallo anche solo per quindici minuti al giorno. Ti servirà per carpire sempre più profondamente il senso che ogni parola contiene e la materia fonico-ritmica che essa veicola»), ancora in spiegazioni relative alla letteratura.
Non fa mai mancare ai figli, alla moglie e alla mamma, parole di amore, sebbene scandite da una sorta di mantra: «Siete tutto per me: la mia vita è in voi. Anche se non sono spesso capace di esprimervi con le mie parole tutto il mio trasporto per voi. Per me siete tutto».
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Andrej Tarkovskij |
Qualche sera fa, in un momento di estrema amarezza (anzi forse ottenebrato da essa), postai sul mio account Facebook la copertina di questo libro, dicendo che si trattava di una ripresa di lettura. Eppure non lo ricordavo così: è come se l'avessi scoperto per la prima volta. Leggendolo, non ho potuto fare a meno di ripensare a
Martirologio, cioè al diario del regista Andrej Tarkovskij, la cui lettura (avvenuta ormai circa sei o sette anni fa) lasciò alla mia coscienza un tesoro di riflessioni, descrizioni, dati, che mi fecero amare Tarkovskij ancora più di quanto fosse accaduto fino ad allora. Forse perché un artista va ammirato, apprezzato, adorato, venerato (Tarkovskij è sempre stato un vero mito della mia vita fin da quando, adolescente, vedevo in tv il trailer del suo
Nostalghia). Ma può essere amato (come un familiare, un fratello, un amico) quando se ne percepisce anche la "materia" umana (e un diario è l'ideale per un tale scopo).
Leggendo le lettere di Florenskij mi accade la stessa cosa: dimentico per un attimo Le porte regali o La filosofia del culto e mi affeziono all'interiorità di un uomo mite, giusto, geniale, profondo, multiforme, ammazzato ingiustamente in un lager sovietico proprio perché genio scomodo. Per me sono molto simili Tarkovskij e Florenskij, sebbene il primo a volte avventato e istintivo, il secondo equilibrato e misurato. Ma la Bellezza russa (la maiuscola è voluta) li accomuna in modo sorprendente. Se la Grecia è per me la terra degli dei, la Russia è quella di Dio.
Inutile dire quanto per me sia indimenticabile quel giorno in cui, agli inizi del lockdown, sentii al telefono per la prima volta Andrej Tarkovskij Jr., il figlio del regista (ma questo è noto a tutti ormai da tempo. Però il fatto che io torni spesso con la memoria a quell'evento forse testimonia quanto mi abbia emotivamente segnato). E proprio lunedì scorso, in uno degli scambi di messaggi che continuano ad avvenire con lui, Andrej Jr. mi diceva della ristrutturazione in corso di una casa in Russia che - potrei inferire da alcuni dati - potrebbe essere proprio quella menzionata da Andrej padre nel suo diario.
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Fëdor Tjutčev |
Ma ero partito dall'idea di riportare qui una breve sintesi delle riflessioni di Florenskij su Tjutčev e Dostoevskij e mi sono lasciato prendere la mano. Quindi mi fermo e... eccole. Notevole mi sembra il concetto di caos in Tjutčev: vi ravviso quasi una sfumatura di materialismo epicureo: «L'umanità, con tutte le sue istituzioni e con tutti i suoi concetti, non è che una, sia pur importantissima, creatura del caos».
Quando - spiega per lettera Florenskij alla figlia - il caos sovverte i concetti umani, non lo fa per dispetto, ma semplicemente perché non si accorge di loro. Li calpesta imponendo all'uomo un'altra legge suprema che - per quanto possa rivelarsi talvolta terribile - viene percepita dallo stesso essere umano come la vera bellezza del mondo: «un velo intessuto d'oro», per usare le parole dello stesso Tjutčev. Rendersi attivamente partecipi di questa gioia è vivere in pieno.
A differenza di Tjutčev, Dostoevskij non si eleva fino alla comprensione totale e vera di questa legge suprema. Egli, infatti, vi individua solo la lotta del caos contro il bene, finalizzata a creare sofferenza per la sofferenza. Anzi finisce per confondere tale legge suprema con l'azione umana volta al male. Per lui il caos non è il motore della vita; semmai è ciò che tende a distruggerla e a sopprimerla.
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Fëdor Dostoevskij |
Se Tjutčev esce dall'uomo e individua nella natura la sede primigenia del caos e dunque l'origine prima della bellezza, Dostoevskij non comprende proprio questo concetto: egli vede il caos nell'uomo e non nella natura. Eppure - aggiunge Florenskij - quando l'autore dei
Karamazov riesce quasi inconsapevolmente a liberarsi di tale visione e quindi "esce" dall'uomo stesso, dà al «fondamento» della natura il nome di Terra. Il concetto dostoevskijano di Terra è sensibilmente affine a quello della Notte di Tjutčev. La Notte di Tjutčev rimuove la coltre che copre durante il giorno tutto ciò che avviene e il poeta russo la vede come il momento del disvelamento dei risvolti ontologici dell'esistenza umana: l'ora del palesarsi dell'essenza eterna dell'universo.
Ivo Flavio Abela