Νερό: così i Greci di oggi chiamano l’acqua. Mi ha sempre impressionato il colore (fisiologicamente scuro) di questa parola: basterebbe leggerla evitando di accentarla sull’ultima sillaba, come invece vuole la grafia greca, e ci troveremmo a pronunciare «nero». M’imbattei per la prima volta in νερό quando lessi il testo di una canzone musicata da Mikis Theodorakis: Να ‘χα τ’ αθάνατο νερό, su versi di Yannis Ritsos. Quell’«αθάνατο νερό» è l’acqua immortale: l’elisir, la pozione, il farmaco capace di conferire l’eternità come condizione di vita. Così nella mia mente anche l’immortalità iniziò a colorarsi grecamente di nero. Infine mi sono imbattuto in un libro dal titolo Il sangue acqua. L’autore è un grande intellettuale e poeta greco, Haris Vlavianos, di cui avevo letto alcune poesie sull’Antologia della poesia greca contemporanea edita da Crocetti Editore (mi aveva soprattutto colpito la prima delle cinque riportate, cioè Benedetto colui, dichiarazione di resa da parte di chi per trent’anni ha pensato che il dolore derivasse dal non essere amato, ma poi ha scoperto che esso nasce quando si ama). Avevo quindi cercato su Internet notizie e altri testi dello stesso autore, finendo per imbattermi nelle sue bellissime e anglo-elleniche August meditations. Infine ero riuscito a comunicare con lui mediante Facebook e avevo deciso di leggere la sua traduzione in greco moderno di The Waste Land di Thomas Stearns Eliot (operazione ancora in corso, visto che frequento il greco moderno da autodidatta e ho dunque bisogno di un po’ di tempo per assimilare). Il sangue acqua è la traduzione del titolo originale Το αίμα νερό. Così anche il sangue per me è diventato “nero” e mai lo è stato tanto quanto nei quarantacinque atti del sottotitolo di questo libro.
Un romanzo in atti? Sì. Perché Vlavianos ironizza sulla necessità alquanto scolastica di stabilire barriere fra generi letterari, tra tipi di composizione, tra scopi della scrittura: un romanzo (parola che usa pure ironicamente) può dunque non per forza dividersi in parti e in capitoli, ma negli atti di un’azione drammatica. Il sangue acqua sembra proprio un dramma (in accezione etimologica) e gli atti corrispondono ciascuno allo sviluppo di uno sprazzo di memoria, la cui estensione raramente supera quella della singola pagina: azione drammatica – dicevo – e diario di ricordi blandamente organizzati secondo una linea diacronica. Il libro, apparso in Grecia qualche anno fa, è stato recentemente tradotto in italiano da Christos Bintoudis e da Francesca Zaccone (quest’ultima firma anche la Postfazione) per Besa Muci Editore.
Haris Vlavianos ha del resto un rapporto privilegiato con l’Italia: vi nacque a Roma nel 1957, visse ai Parioli e frequentò una scuola prestigiosa. Poi si trasferì in Grecia, dove trascorse l’adolescenza in balìa dei capricci sentimentali (e non solo tali) della madre. Haris era nato dal suo secondo matrimonio con un agente di borsa poi trasferitosi in Sud-America, dove s’era costruito un’altra famiglia con una nuova moglie dalla quale sarebbero stati generati altri due figli (e questa matrigna, pur ritratta come una strega dalla madre di Haris, si sarebbe rivelata affettuosissima nei suoi confronti, al punto da considerarlo un figlio, come Haris avrebbe saputo da uno dei fratelli dopo la morte della donna). La madre di Haris aveva però già avuto una relazione con un aspirante torero e un primo marito pianista; ne avrebbe avuto un terzo (un siculo Moncada dall’unione col quale sarebbe nata una figlia dal destino infelice) e un quarto di Missolungi (il paese in cui morì Lord Byron, il piccolo abitato che era stato una roccaforte della resistenza greca contro gli Ottomani e in cui lo stesso Dionysios Solomos visse e raffinò la sua ricerca poetico-linguistica). Poi sopravvennero gli studi all’estero: si allargarono le maglie dei rapporti con i genitori, già di per sé non idilliaci, e l’ormai scarso affetto finì per affievolirsi del tutto.
Il sangue acqua si legge d’un fiato, è bello e pieno di sofferenza. La letteratura e la scrittura non vi esercitano un potere risarcitorio o terapeutico, ma vengono piegate alla semplice esigenza di raccontare i propri vissuti e di farlo in modo quasi inedito: l’io narrante tesse un colloquio con se stesso, cui si rivolge usando la seconda persona. Colpisce il fatto che Haris Vlavianos sia riuscito in soli quarantacinque frammenti a raccontare la propria vita delineando efficacemente i personaggi (la madre, il padre, il marito siciliano della madre, la sorella, uno zio) e abbattendo le barriere fra prosa e sfogo lirico.
Non sono attratto dall’autofiction, dall’autobiografismo galoppante: insomma dalle piaghe che oggi affliggono la letteratura deturpandola, neanche se certe vite fossero tanto paradigmatiche ed eccezionali da dovere essere strombazzate a destra e a manca. La vita di Haris Vlavianos mi sembra invece eccezionale e dunque degna di essere raccontata e letta: l’ordito internazionale delle rotte, quello fisiologicamente sfilacciato delle trame familiari, la grandezza di un animo che ha resistito alla mancanza d’amore rendono questo libro un piccolo gioiello da leggere senza indugio.
Ivo Flavio Abela