martedì 30 aprile 2013

Destini paralleli di un uomo e di una città

Nell'estate 2010 mi fu chiesto di scrivere la recensione al romanzo di un autore catanese emergente. Sarebbe stata pubblicata non posso dire dove. La scrissi. La inviai alla committente la quale divenne prima ipocritamente reticente. Poi sparì. Le ragioni della scomparsa sono rimaste ignote. Salvo attribuire lo strano comportamento a turbe psichiche e ad acidità d'animo. O più semplicemente a un malcelato complesso d'inferiorità, come qualche malalingua  poi non tanto mala  mi riferì. Nei miei ritagli di tempo ho riletto il romanzo. La seconda lettura mi ha portato a guardarne i difetti più di quanto non avessi fatto durante la prima (quando ero incalzato dall'urgenza della "consegna" della recensione). Ho ritrovato la recensione stessa e ne ho ritoccato qualche punto così da rendere maggiormente ragione delle manchevolezze da me riscontrate. E mi sono detto che in fondo il mio blog avrebbe potuto bene accoglierla.

«Il rosso e il nero». No. Non è il romanzo di Stendhal. Ma potrebbe essere il titolo alternativo per «Una raggiante Catania» di Domenico Trischitta, in cui i due colori non richiamano il sangue e la morte, ma il fascismo e il comunismo (non si fraintenda: il richiamo stendhaliano riguarda solo il titolo. Non certo le qualità letterarie del romanzo in esame). Con un netto prevalere del rosso in quegli anni ‘70 in cui si colloca l’incipit della parabola esistenziale del protagonista-autore e della sua educazione sentimentale. Sullo sfondo di una città dilaniata da scontri proprio fra neri e rossi. Sullo sfondo di un quartiere, il nuovo San Berillo, popolato da «neodeportati che devono inventarsi un futuro, strada criminale o schiena spaccata ad allevare figli», violentato anch’esso da scontri di ragazzi che, implotonati in bande fanciullescamente organizzate, s’impegnano in un singolare apprendistato per diventare ciò che saranno: i protagonisti della malavita che insanguinerà la città nel decennio successivo.

In principio erano Don Mimì e Don Saro. Perché da loro prende le mosse l’autore: Don Mimì, il nonno paterno, ucciso mentre si trova col figlio Saro al mulino di Mascalucia, presso il quale s’è recato per procurarsi la farina «anche se là ci sono molti tedeschi»; Don Saro, figlio di Don Mimì e padre di Turi, che da bambino vive il duplice trauma dell’abbandono e della morte del genitore e che sembra trovare un tenero e umanissimo riscatto solo quando la Madonna del Rosario viene portata in processione nel suo quartiere. Fato e necessità, quasi inscritti nel codice genetico dei maschi di casa Tringali, finiscono così per caratterizzare anche la vita di Turi, nella misura in cui Turi stesso li combatterà per non fare la fine cui sono destinati gli amici di adolescenza, sorretto peraltro da un «carattere volitivo» che ne fa la «fotocopia» della madre e da un egoismo «preoccupante», maturato anche a contatto con un fratello gemello, «irrimediabilmente segnato per tutta la vita» da problemi fisici generatisi alla nascita.

La menzione del padre e del nonno sembra sovrapporsi a quella del primo completo atto autoerotico di un Turi dodicenne, come a sottolineare quanto le pulsioni sessuali agiscano nella vita di un uomo, assolvendo quasi a un ruolo terapeutico. La naturalezza e la precisione con cui vengono narrate fin nei dettagli le esperienze sessuali successive si alimentano anche di un linguaggio fortemente realistico che fotografa edonisticamente la realtà sessuale per quella che è. Ma sono anche terribilmente esagerate. Alla lunga diventano quasi stucchevoli e stancano (tanto varrebbe guardare un film hard). L'autore si compiace delle proprie gesta erotiche (che però non sono – ahimè – quelle di Squaw Pelle di Luna), dando l'impressione di non riuscire a sottrarsi al gallismo siculo («Vadda quantu sugnu masculu!» sembra dire). Il lettore esperto se la ridacchia. E giunge magari a sospettare che quelle esperienze l'autore-protagonista le abbia vissute solo nella sua arrapata fantasia (e mi si perdoni la dislocazione a sinistra).

La storia di Turi viene narrata in forma di massiccio climax che muove da una folla di ricordi eterogenei: il quartiere, gli scontri fra i suoi giovani abitanti, la dura vita dei «deportati», le primissime scoperte musicali, alcune scene – gustose, ma dall’amaro retrogusto – quali quella del funerale di Fimminedda, il travestito morto a causa – beffardo contrappasso – di un tumore ai testicoli. Tende dunque, gradino dopo gradino, a sconfinare in una ricomposizione finale.

Difficile stabilire quale fil rouge permetta ai ricordi di integrarsi mentre si procede nella lettura. Forse l’iperpresente io narrante che fa di «Una raggiante Catania» un romanzo in parte autobiografico. Esso rimane persistente anche quando viene abbandonata la narrazione in prima persona e adottata quella in terza (che avviene presumibilmente quando l’autore percepisce certi ruoli, assunti suo malgrado, come estranei al soddisfacimento delle proprie esigenze). Quell’io narrante diviene poi ancora più tangibile verso la conclusione del romanzo, allorché la riflessione assume la forma di un intimismo a tratti nostalgico, a tratti esistenziale (in particolare dopo il lungo episodio della permanenza in Germania).

L'insopportabile Carmen Consoli:
una cantante da acqua a linzolu
o da fer'o luni
(i catanesi comprenderanno)
O quel fil rouge è forse Catania stessa che abbandona gradualmente le tinte noir dei suoi anni ‘70, colorandosi occasionalmente di rosso, per conseguire il luminoso splendore della metà degli anni ‘90, quando si riempie della luce dei megaconcerti rock, della «cantantessa» Carmen Consoli, del sodalizio artistico di Battiato e Sgalambro: l’epoca dell’amministrazione di Enzo Bianco, sotto cui Catania può a buon diritto fregiarsi del titolo di capitale culturale del Mezzogiorno d’Italia.

Eppure l’intimismo autobiografico assume una consistenza maggiore proprio quando la città diventa raggiante. Sembrerebbe un Turi pessimista quello del finale. Forse perché egli conosce l’oscurità nella quale Catania è caduta nel decennio successivo, di cui non fa appositamente menzione. Ad ogni culmine – sembra esprimere il silenzio dell’autore sulla Catania del III millennio – segue la decadenza.

Lindi e concreti lo stile e il linguaggio, entrambi sostenuti da un tentativo di ricerca estetica. Tuttavia in alcuni punti sembra che l'autore voglia anacronisticamente imitare la prosa verista (si legga ad esempio quanto segue: «Quando gli sparavano il fuoco, a Don Saro gli si squagliava il sangue per l’emozione […] perché la Santa patrona di Catania […] gli aveva portato la sua Madonna a casa». Sembra di rileggere «Rosso Malpelo»). Il risultato puzza scolasticamente di muffa. Il romanzo – comunque – rappresenta nel complesso una prova dignitosa. Ma deve ancora passare un bel po' d'acqua sotto i ponti.

Ivo Flavio Abela

sabato 27 aprile 2013

«La morte di Ivan Il'ič»


«II principe Andréj non soltanto sapeva di dover morire, ma si sentiva morire, sentiva d'esser già morto a metà. Egli aveva la coscienza di essere estraneo ad ogni cosa terrena e di sperimentare una lieta e strana facilità ad esistere». Così Tolstoj nell'incipit di una delle più belle pagine della Letteratura di tutti i tempi: quella in cui vengono narrati i momenti precedenti il compiersi «del semplice e solenne mistero della morte» di uno dei personaggi più interessanti e meno "terreni" di «Guerra e pace». Sposato con una donna per la quale nutre poco interesse, quindi vedovo (la principessa muore a causa di un parto complesso), poi fidanzato di Nataša Rostova, tradito da lei per quel delinquente di Anatolij Kuraghin, ferito due volte sul campo di battaglia (la seconda rovinosamente), non gli rimaneva che morire. Sconfitte le armate napoleoniche, non diversamente al generale Kutuzov, incapace di capire che cosa fosse quell'Europa in cui la Russia si trovava di colpo proiettata come potenza ancora olezzante degli allori appena mietuti, «non restava altro che la morte. Ed egli morì».

Appare a maggior ragione priva di logica la morte di Ivan Il'ič: un uomo legato alla vita, capace di costruirsi una carriera in ambito forense fino a diventare giudice, amante del proprio lavoro che costituisce anche lo strumento per sfuggire alle grane di una vita coniugale costellata di liti e di ripicche, pago della casa che riesce a procurarsi e che arreda con mobili, tappezzerie e tendaggi costosi e apparentemente raffinati, fiero di riuscire a gestire rapporti professionali e sociali con estrema correttezza (cioè con la decenza e il perbenismo che lo fanno sentire giusto e magnanimo).

Un giorno, mentre si trova su una scala sulla quale è salito per mostrare al tappezziere come disporre un panneggio, Ivan cade urtando col fianco la maniglia di una finestra: un incidente domestico di poco conto che egli stesso narra in seguito con amplificata e compiaciuta sufficienza ai suoi familiari, quando essi lo raggiungono a San Pietroburgo. Ma quell'incidente segna l'inizio di una malattia apparentemente inspiegabile che consuma gradualmente Ivan fino a procurarne la morte all'età di soli quarantacinque anni, con soddisfazione dei colleghi «giacché a morire era stato lui e non loro» e visto che ciò si traduce in un vantaggioso rimpasto di assegnazioni di cariche. Ma anche con loro disappunto, dal momento che devono affrontare «noiosissimi convenevoli ... il funerale, la visita di condoglianze alla vedova», la vista del defunto ricomposto ed esposto nella sala col viso giallo e cereo e col naso prominente, il lezzo di cadavere. Per fortuna il morto non può rovinare ai colleghi l'usuale partita di whist che si svolgerà solo a sera, cioè a cerimonia funebre avvenuta. E prima della cerimonia funebre del resto anche la vedova va alla ricerca della propria soddisfazione, prendendo informazioni sul modo più vantaggioso di spillare allo Stato quella che oggi definiremmo una (congrua) pensione di reversibilità (dopo avere del resto pure desiderato, durante la malattia del marito, che questi morisse, salvo poi rinunciare a un simile desiderio «perché, in tal caso, sarebbe venuto a mancare lo stipendio»).

Quella che Ivan ha amato è dunque una vita infarcita di ipocrisia. Ecco dunque la ragione per cui "può" morire come sono morti Andréj e il generale. L'ipocrisia si trasforma in pura menzogna durante la sua malattia, quando tutti prendono a trattarlo come un uomo semplicemente malato (e non destinato a morire) cui limitarsi a fare buon viso come se ogni difficoltà potesse prima o poi essere appianata: la moglie che si lascia andare a parole (e a qualche bacio) di circostanza, la figlia che vede nella sofferenza del padre una minaccia alla propria spensieratezza di giovane che vive il suo primo amore, il cognato, gli amici, i medici. Ivan si sente allora sempre più solo e finisce per detestare quanti lo circondano. Odia tutti. Eccetto il figlio ginnasiale (di cui Tolstoj mette a nudo quasi sfacciatamente  sebbene tra le righe  la tenera sensibilità) e Gerasim che è un servo giovane e schietto di origini contadine (e non può essere un caso se l'autore della storia è Tolstoj): l'unico che si fa carico delle sofferenze di Ivan. Anche fisicamente. L'unico che gli parla della fine imminente.

Vjačeslav Tichonov: il principe Andréj Bolkonskij
«Guerra e pace» (regia di Sergéj Bondarčuk, 1967)
Ivan è ormai prigioniero della solitudine. Inizia lentamente a ravvisare i frutti dell'opera distruttrice della morte nella consunzione del proprio corpo («Possibile che lei sia la verità?»). Arriva a pensare di stare scontando la colpa di avere condotto una vita sbagliata. Si chiude sempre di più in se stesso fino a giacere sul divano col viso rivolto verso il muro lungo cui il divano stesso è disposto. Ma la morte non gli dà pace ed egli inizia a subire una sorta di rigor mortis prima del tempo: assume definitivamente una posizione supina, prefigurazione di quella che dovrà assumere nella bara (che il lettore conosce già perché l'ha "vista" nel primo capitolo).


«Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il suo corpo sfinito sussultava. Poi il gorgoglio e il rantolo si fecero più rari.
"È finita!" pronunciò qualcuno sopra di lui.
Egli udì quelle parole e le ripeté nel proprio animo. "Finita la morte" disse a se stesso. "Non c'è più".
Trasse un sospiro, si fermò a metà, si distese e morì».

Non è "miracolo" la morte di Ivan Il'ič. Non è «solenne mistero». Non lo è quanto quella di Andréj Bolkonskij. Ma se la morte del principe di «Guerra e pace» è la morte di chi ha imparato per tempo a lasciare il mondo e con facilità riesce dunque a lasciarlo, quella di Ivan è la fine (paradossalmente più vera, più umana, ma anche più sconcertante) di chi del mondo ha capito poco al punto di non riuscire a liberarsene se non quando è troppo tardi.

Ivo Flavio Abela

venerdì 19 aprile 2013

«Miscendo humana divinis». Per il compleanno di Roma (21 aprile 2013)


Il filo conduttore di cui Tito Livio si serve per tessere la narrazione della storia romana in «Ab Urbe condita» è squisitamente polibiano: Roma è un organismo politico che si è sviluppato a un tale grado di «magnitudo» da soffrirne («laboret» è il termine usato nella «Praefatio») e da rischiare di rimanerne schiacciata. Simile visione sembra attinta «a una concezione organicistica, biologica della storia, che è, in prima istanza, di marca greca, cosa che equivale a sistemazione e concettualizzazione, da parte greca, di un'idea centrale nella concezione romana autentica, quella dell'imperium» (Domenico Musti, «Il pensiero storico romano», in «Lo spazio letterario di Roma antica», I, 177-240, Roma, Salerno Editrice, 1989, p. 209).

Nel contempo Livio cerca di superare la suggestione polibiana o quantomeno ciò che di troppo razionalistico, meccanicistico ed evoluzionistico è in essa insito: la grandezza di Roma è in qualche modo predestinata, quasi tutta la storia di Roma rientrasse in un disegno provvidenziale che l'avrebbe portata a diventare «caput mundi». Non solo dunque le virtù umane: anche il volere divino – specificamente Marte, padre di Romolo e del popolo da lui originato – avrebbe giocato un ruolo fondamentale aiutando Roma e mettendola fortemente alla prova per farne emergere più platealmente il valore: «Et adeo varia fortuna belli ancepsque Mars fuit, ut propius periculum fuerint, qui vicerunt», ovvero «e furono di esito talmente dubbio le vicende della guerra e tanto ambiguo fu Marte che si trovarono più vicini al pericolo quanti poi vinsero», dice del resto Livio accingendosi a narrare la guerra annibalica nella «Praefatio» al IV libro. Anzi è probabile che Livio volesse sottilmente polemizzare proprio contro quel razionalismo greco-ellenistico che aveva in Polibio il maggiore pensatore (con le sue teorie dell'anaciclosi e della costituzione mista).

L'Augusto di Prima Porta
L'elemento soprannaturale permea la storia liviana opponendo apparentemente Livio anche alla "scientificità" ravvisabile nella storiografia greca a partire da Tucidide. Livio infatti dichiara apertamente di non volere né accettare né respingere gli eventi relativi ai primordi di Roma. Ne riconosce peraltro la natura ancora nella «Praefatio» al libro I: «magis decora fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis» («ornamenti più adatti alle favole dei poeti che a un incorrotto monumento di imprese»). In sostanza egli collega la sfera umana a quella divina realizzando, in un'opera storiografica, lo stesso principio su cui si basa il mito. Anzi la storia di Roma è senz'altro mito: non esiste altro popolo che possa arrogarsi, in nome della propria gloria militare, il diritto di rendere i propri «primordia […] augustiora [...] miscendo humana divinis» («le proprie origini […] più auguste [...] mescolando gli eventi umani a quelli divini»), diritto riconosciuto da tutte le genti che, già tollerando la propria sottomissione al popolo romano, possono anche sopportare il fatto che esso «suum conditorisque sui parentem Martem potissimus ferat» («consideri con convinzione Marte padre di se stesso e del suo fondatore»).

Non manca in Livio una certa autoesaltazione. «Immensi operis» e «tantum operis» sono espressioni con cui lo storico definisce nella «Praefatio» il suo «opus», salvo smorzare il tono autoapologetico con formule di modestia atte a realizzare una sommessa forma di «captatio benevolentiae». Ma che in Livio tutto sia grande e solenne (Augusto, l'Impero, le origini di Roma), che egli consideri grande il suo lavoro e voglia renderlo letterariamente ancora più grande, è testimoniato dall'attacco cantabile della stessa «Praefatio»: «Facturusne operae pretium sim», in cui già Quintiliano (9, 4, 74) riconosceva un tetrametro dattilico funzionalizzato a dotare di respiro poetico il ritmo fisiologicamente piano della prosa. Del resto Livio conclude la «Praefatio» stessa augurandosi di poter disporre della medesima ispirazione dei poeti.

...

Stralcio dell'introduzione a un mio vecchio studio sulla «Praefatio» al libro IV di «Ab Urbe condita» (per una volta posso autocitarmi...). Acerbo e frettoloso (ricordo che lo scrissi di corsa, ma ciò non mi impedì di occuparmi anche di «patavinitas»). Ma tant'è: è uno studio cui sono molto legato perché, se non fossi Ivo, vorrei essere Tito Livio. E buon compleanno, Roma!

Ivo Flavio Abela

Il rilievo della Tellus (Ara Pacis Augustae, Roma)

giovedì 18 aprile 2013

Diocleziano contro Plutarco (libera ermeneusi)

Plutarco

Plutarco - nelle sue coppie di biografie - accosta un personaggio greco ad uno romano sulla base di caratteristiche spesso forzatamente accomunanti. E ben sappiamo che quell'accostamento è in realtà una contrapposizione che spesso denuncia (soprattutto - ovvio - quando tale contrapposizione fosse espressa più o meno platealmente da un romano) l'inferiorità dei romani rispetto ai greci (che esiste dalle origini in fondo: si pensi agli intenti con cui è scritto il «Bellum Poenicum» da Nevio. Sono intenti denuncianti un chiaro complesso d'inferiorità culturale).

Plutarco per fortuna è un greco e non ha bisogno di sentirsi inferiore (appunto perché greco), ma è consapevole del fatto che Occidente e Oriente sono e sempre saranno inconciliabili: nelle sue biografie si prefigura la scissione definitiva di un Occidente (che poi cadrà per mano delle popolazioni del Nord e a causa di problemi economici) da un Oriente che resisterà molto più a lungo, una volta privato del ramo secco rappresentato dall'Occidente. Plutarco prefigura l'inevitabile scissione. Il messaggio mi pare chiaro: «Siamo più forti di voi. E lo siamo perché siamo più antichi e il nostro ethos è più prestigioso del vostro».

Diocleziano con la Tetrarchia realizza un ultimo tentativo (perché il suo è davvero l'ultimo tentativo "italocentrico" in tal senso) di tenere abbarbicati l'uno all'altro l'Occidente e l'Oriente. Lo fa dando un colpo al cerchio e uno alla botte: rafforzando la divisione (Occidente e Oriente avranno ciascuno il suo Augusto e il suo Cesare), ma cercando intanto di tenere ricucite le parti divise (ecco perché si contrappone a Plutarco, nella cui ideologia le due parti invece non possono che essere divise. Ed ogni tentativo di cucitura è inutile). Poi emana una misura fiscale (la capitatio-iugatio) che affama alcune aree dell'Impero e ne favorisce altre (non è un esperto "demologo" e ignora che cosa sia la densità demografica). Anche se è fin troppo scaltro: alla fine se ne lava le mani e sceglie Spalato, dimostrando indifferenza nei confronti di un nuovo assetto.

I Tetrarchi (Venezia)
In verità l'Impero Romano è già finito alla fine del II secolo: la rinascenza voluta da Adriano non ha nulla in comune con quella augustea. Quest'ultima era funzionale alla canonizzazione dell'ideologia imperiale, mentre quella adrianea è più estetica ed è la spia di un decadentismo che viene poi abbracciato in pieno da Marco Aurelio. Dopodiché l'Impero Romano (d'Occidente) diverrà un fantasma. E Costantino infatti sarà un imperatore "orientale".

In fondo basta guardare l'abbigliamento dei quattro personaggi qui rappresentati:
l'Occidente qui non si fonde con l'Oriente, ma s'inchina al suo cospetto. È un mondo nuovo, "moderno". O tardoantico: certo. Ed è un tardoantico che, quando Diocleziano arriva al potere, è già in corso da almeno un secolo.

Ivo Flavio Abela

giovedì 4 aprile 2013

La bellezza delle icone ortodosse


Secondo il racconto leggendario della «scelta della fede»,
Vladimir, principe di Kiev,
per scegliere la migliore religione
avrebbe inviato degli emissari presso i Musulmani, gli Ebrei, i Latini e i Greci.
Il rapporto, che questi gli fecero su ciò che avevano vissuto a Costantinopoli,
lo avrebbe deciso senza alcuna esitazione in favore del cristianesimo nella forma bizantina.
Essi dicevano:
«Noi non sapevamo se eravamo in cielo o sulla terra,
perché sulla terra non si trova simile bellezza».
Non si trattò della sola impressione estetica,
perché il racconto la supera infinitamente:
«Perciò non sappiamo che cosa dire,
ma una cosa sola sappiamo: là Dio dimora con gli uomini… ».
Ciò che è bello è la presenza di Dio tra gli uomini;
essa rapisce gli animi e li trasporta.

Pavel Nikolaevič Evdokimov, «Teologia della bellezza», Roma, 1981, p. 36

Andrej Rublëv
Icona della «Trinità»
L’icona viene realizzata da maestri che usano materiali poverissimi (il substrato è costituito dal legno. Si aggiungono poi la tela, il collante, i pigmenti, le vernici), ma è in grado di veicolare significati molto complessi, diventando una summa theologiae (per usare un’espressione cara all’aquinate Tommaso) e una guida per chi la contempla. È bella. La sua bellezza è salvifica in quanto l’icona è spazio visibile dell’Invisibile, cioè del vero Bello. Non soltanto essa esaurisce il senso della kalokagathìa di ascendenza classica, ma è anche privilegiato veicolo della fusione di etica, estetica e contemplazione (quest’ultima intesa come esperienza mistica). Essa viene sì realizzata nel laboratorio dell’iconografo, ma tale laboratorio trova la sua ideale collocazione nel monastero (in termini storici), dove il laboratorio stesso si spoglia dei propri connotati puramente tecnici e di bottega per diventare il luogo in cui l’artista smette di essere tale (egli è solo un tramite infatti perché l’artista è Dio) e agisce da uomo che costruisce se stesso come immagine vivente dell’Invisibile. L’icona ha una funzione soprattutto liturgica in quanto immagine conduttrice: contemplarla durante il rito significa ricavarne l’ispirazione che rende efficace la partecipazione al rito stesso. Ma è anche immagine conduttrice nella vita quotidiana e familiare, se inserita in un angolo domestico che – non a caso – nella tradizione slava viene definito «Angolo della Bellezza» («non è nella natura in se stessa che si situa la vera Bellezza, bensì nell’epifania del Trascendente che fa della natura il legame cosmico del suo irradiamento, un “roveto ardente”» secondo Pavel Evdokimov alla pagina 48 del libro citato in esergo).

Due testi sono fondamentali per capire l’essenza dell’icona: «Teologia della bellezza» di Pavel Nikolaevič Evdokimov (Edizioni Paoline, Roma, 1981, già citato e non solo in esergo) e «L'icona, immagine dell'invisibile. Elementi di teologia, estetica e tecnica» di Egon Sendler (Edizioni Paoline, Roma, 1983): datati (senza dubbio), ma ancora validissimi capisaldi. E sono due testi che possono essere letti “insieme” in quanto si integrano a vicenda: nel primo prevale la riflessione teologica, nel secondo prevalgono quella storica e quella pratica (pratica in quanto Sendler spiega meticolosamente come un’icona debba essere realizzata). Tuttavia mi sembra opportuno dedicare una riflessione al primo dei due a causa appunto del suo carattere spiccatamente teologico.

Evdokimov insiste sul senso liturgico dell’icona, stigmatizzando (ora tra le righe, ora platealmente) la cultura e la Chiesa d’Occidente che avrebbero smarrito la loro dimensiona ieratica, di cui il rispetto della liturgia sarebbe componente fondamentale. Secondo lo studioso, la teologia occidentale infatti ha sempre «manifestato una certa indifferenza dogmatica rispetto alla portata spirituale dell’arte sacra, a quella iconografica che, malgrado il suo lungo martirologio, è così venerata in Oriente. Tuttavia, provvidenzialmente, l’arte occidentale fu in ritardo sul pensiero teologico e, fino al secolo XII, resta fedele alla tradizione comune tanto all’Oriente che all’Occidente. Questa tradizione unica vive pienamente nella magnifica arte romanica, nel miracolo della cattedrale di Chartres, nella pittura italiana che coltiva ancora la maniera bizantina» (p. 89).

Teofilo Cretese
«Crocifissione» (1567)
Successivamente l’adozione della prospettiva e la resa del chiaroscuro indirizzano
l’artista lungo una strada che è quella dell’illusoria resa fotografica di una corporeità che nulla ha da spartire con l’impalpabilità del Trascendente (l’impalpabilità che l’iconografo d’Oriente rende mantenendosi consapevolmente entro i binari della bidimensionalità e della prospettiva inversa). Emblematico è il caso della rappresentazione del Cristo crocifisso: un ortodosso vi vede «il re», il trionfatore, il vincitore della morte attraverso la morte; un occidentale vi ravvisa solo l’uomo dei dolori, sconfitto, abbandonato dal proprio Padre. In altri termini l’ortodosso partecipa del trionfo insito nella crocifissione, l’occidentale si angoscia e si sente in colpa (e inizia a praticare il culto delle Sacre Piaghe, degli strumenti della passione, ecc.).

Gradualmente l’arte occidentale si spoglia di ogni implicazione liturgica. Umanizza e rende corporee le creature celesti accogliendo la terza dimensione: sotto i loro abiti gli angeli e i santi hanno carne e sangue e il racconto biblico viene usato dall’artista per esplicitare le proprie doti («quando un crocifisso, in forza del suo realismo voluto, colpisce il sistema nervoso, il mistero indicibile della Croce perde la sua potenza segreta, scompare. Quando l’arte dimentica la forza sacra dei simboli e delle presenze e tratta plasticamente i “soggetti religiosi”, il soffio del trascendente non l’attraversa più» scrive Evdokimov alla pagina 90). Insomma l’arte occidentale è splendida, ma non ha alcunché di sacro e i suoi luoghi di culto esprimono soltanto il sentimento religioso di chi li realizza e di chi li frequenta, ma non esprimono la divinità («Si può dire che, misticamente, il Medio Evo si spegne precisamente quando scompaiono gli angeli, quando l’icona cede il posto all’immagine allegorica e didattica e il pensiero indiretto al pensiero diretto. È la fine dell’arte romanica, arte essenzialmente iconografica, ed è qui che l’Occidente si distacca dall’Oriente», p. 173).

Un monaco ortodosso pittore di icone
In simile prospettiva va contestualizzata la simpatia di Evdokimov per l’arte astratta in quanto «sopprime ogni supporto ontologico negando l’oggetto concreto» (p. 95). Simpatia che avrebbero forse condiviso gli iconoclasti, sebbene per motivi diversi: avvezzi a una concezione ritrattistica dell’arte intesa come pura imitazione, essi negavano la possibilità che l’icona potesse contenere la presenza dell’Invisibile in quanto l’Invisibile non sarebbe rappresentabile (in ciò confermando quanto espresso nel Vecchio Testamento e in seno all’Islam). Essi, negando la rappresentabilità dell’Invisibile, negavano il mistero stesso dell’incarnazione. Ma l’icona può rappresentare l’Invisibile in quanto quest’ultimo si è incarnato. E – incarnandosi – si è reso visibile (è del resto l’opinione espressa da Giovanni Damasceno nel trattato «Adversus eos qui sacras imagines abiciunt », PG 94, 1239). Il Cristianesimo appare del resto l'unica confessione secondo cui Dio si è incarnato: dunque non l'uomo ha antropomorfizzato Dio, ma Dio s'è antropomorfizzato da sé. Ancora di più: solo nel cristianesimo Dio si fa, prima ancora che carne, Verbo (motivo che nasce addirittura prima dell'avvento di Cristo: è già nel giudaismo). E basta leggere il testo di qualsiasi Padre dell'Ortodossia per comprendere che soltanto pronunciare la parola «Dio» equivarrebbe a testimoniarne l'essenza e l'esistenza. I testi dei Padri dell’Ortodossia ci forniscono così (se vogliamo portare le riflessioni di Evdokimov alle estreme conseguenze) un’efficace anticipazione di ciò che avrebbero affermato i pragmatisti del linguaggio tanti secoli dopo (pensiamo a Austin e al suo «How to do things with words») e in fondo anche gli strutturalisti. E tutto ciò senza entrare necessariamente nelle pastoie dei vincoli ontologici esistenti fra il significante e il significato nel segno o in quelle del rapporto (necessario o arbitrario che sia) fra il segno e il referente del segno.

Icona del «Trionfo dell'Ortodossia»
L’icona rappresenta dunque la parte visibile dell’Invisibile e va venerata non in quanto essa è l’Invisibile, ma perché ce lo ricorda e a all’Invisibile ci rimanda: in nome, cioè, della sua somiglianza col Prototipo (essa è «deuterótypos del protótypos»). Sulla base di tali assunti, il Concilio di Costantinopoli (843) ristabilì la venerazione delle icone, inaugurando la festa del «Trionfo dell’ortodossia».

Consiglierei la lettura del libro di Evdokimov a chiunque si senta attratto dall'iconografia ortodossa e dalla cultura greco-russa (insieme ovviamente a quella del testo di Sendler).

Ivo Flavio Abela

Dal film «Andrej Rublëv» di Andréj Tarkovskij (1966)


mercoledì 3 aprile 2013

Letteratura contro Storiografia

Una persona oggi mi ha chiesto perché mai io veda una sorta di contrapposizione fra la Letteratura e la Storiografia. Ha aggiunto: «Si tratta in entrambi i casi di interpretazione dei fatti storici [...] La differenza è nella metodologia».

Riporto la mia risposta: «Sono nietzschiano d'animo (dunque contrario all'eccesso di storicizzazione). Uso spesso Guerra e pace come esempio perché credo che Tolstoj abbia spiegato meglio di generazioni di storiografi quale fosse la forza della Russia nello scontro con l'occidente bonapartista-europeo, come e perché l'impresa napoleonica sia fallita, in quale modo la Russia sia riuscita a recuperare il proprio ethos, peraltro sconfessando implicitamente l'occidentalizzazione imposta a partire da Pietro II in poi. Tolstoj vi è riuscito non solo attraverso le lunghissime digressioni dedicate alla guerra, ma anche attraverso quadri di vita familiare, quotidiana (la danza di Nataša per esempio, che ha fornito peraltro a Orlando Figes il destro per studiare la cultura russa "indigena", facendogli partorire un saggio di quasi 600 pagine che ha tutte le caratteristiche di un romanzo: il romanzo della cultura russa dalla fondazione di Pietroburgo fino al 1917 o giù di lì. In fondo Aleksandr Herzen ha fatto lo stesso).

Sir John Everett Millais
              «The Bride of Lammermoor»
Senza andare troppo lontano, Manzoni si è mosso sulla stessa linea con I promessi sposi, che altro non è se non una lunghissima e proletticamente esplicativa introduzione alla Storia della colonna infame: scaltro don Lisander perché ha fatto storiografia camuffata al punto che tutti noi oggi chiamiamo I promessi sposi 'romanzo'. Aggiungiamo Pirandello con I vecchi e i giovani. Ah: anche De Roberto. E voglio mettere in elenco (anche se forzando alquanto le intenzioni dell'autore) pure Tomasi di Lampedusa, sebbene non si ponesse certo ansie "storicizzanti". E potremmo andare avanti a lungo.

Insomma dalla Letteratura s'impara forse più che dalla Storiografia. Cambia la metodologia: certo. Ed è già tanto. Ma cambia la testualità (che implica la scelta della metodologia in quanto l'adozione di una metodologia discende direttamente dalla testualità adottata). Del resto la Letteratura cura chi la pratica (chi la pratica leggendo, scrivendo, studiando: amandola), eleva, sublima, e agli occhi di chi la pratica rende inconsistente e invisibile la meschinità del mondo e dell'uomo-animale».

Ivo Flavio Abela