Il filo conduttore di cui Tito Livio si serve per tessere la narrazione della storia romana in «Ab Urbe condita» è squisitamente polibiano: Roma è un organismo politico che si è sviluppato a un tale grado di «magnitudo» da soffrirne («laboret» è il termine usato nella «Praefatio») e da rischiare di rimanerne schiacciata. Simile visione sembra attinta «a una concezione organicistica, biologica della storia, che è, in prima istanza, di marca greca, cosa che equivale a sistemazione e concettualizzazione, da parte greca, di un'idea centrale nella concezione romana autentica, quella dell'imperium» (Domenico Musti, «Il pensiero storico romano», in «Lo spazio letterario di Roma antica», I, 177-240, Roma, Salerno Editrice, 1989, p. 209).
Nel contempo Livio cerca di superare la suggestione polibiana o quantomeno ciò che di troppo razionalistico, meccanicistico ed evoluzionistico è in essa insito: la grandezza di Roma è in qualche modo predestinata, quasi tutta la storia di Roma rientrasse in un disegno provvidenziale che l'avrebbe portata a diventare «caput mundi». Non solo dunque le virtù umane: anche il volere divino – specificamente Marte, padre di Romolo e del popolo da lui originato – avrebbe giocato un ruolo fondamentale aiutando Roma e mettendola fortemente alla prova per farne emergere più platealmente il valore: «Et adeo varia fortuna belli ancepsque Mars fuit, ut propius periculum fuerint, qui vicerunt», ovvero «e furono di esito talmente dubbio le vicende della guerra e tanto ambiguo fu Marte che si trovarono più vicini al pericolo quanti poi vinsero», dice del resto Livio accingendosi a narrare la guerra annibalica nella «Praefatio» al IV libro. Anzi è probabile che Livio volesse sottilmente polemizzare proprio contro quel razionalismo greco-ellenistico che aveva in Polibio il maggiore pensatore (con le sue teorie dell'anaciclosi e della costituzione mista).
L'Augusto di Prima Porta |
Non manca in Livio una certa autoesaltazione. «Immensi operis» e «tantum operis» sono espressioni con cui lo storico definisce nella «Praefatio» il suo «opus», salvo smorzare il tono autoapologetico con formule di modestia atte a realizzare una sommessa forma di «captatio benevolentiae». Ma che in Livio tutto sia grande e solenne (Augusto, l'Impero, le origini di Roma), che egli consideri grande il suo lavoro e voglia renderlo letterariamente ancora più grande, è testimoniato dall'attacco cantabile della stessa «Praefatio»: «Facturusne operae pretium sim», in cui già Quintiliano (9, 4, 74) riconosceva un tetrametro dattilico funzionalizzato a dotare di respiro poetico il ritmo fisiologicamente piano della prosa. Del resto Livio conclude la «Praefatio» stessa augurandosi di poter disporre della medesima ispirazione dei poeti.
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Stralcio dell'introduzione a un mio vecchio studio sulla «Praefatio» al libro IV di «Ab Urbe condita» (per una volta posso autocitarmi...). Acerbo e frettoloso (ricordo che lo scrissi di corsa, ma ciò non mi impedì di occuparmi anche di «patavinitas»). Ma tant'è: è uno studio cui sono molto legato perché, se non fossi Ivo, vorrei essere Tito Livio. E buon compleanno, Roma!
Ivo Flavio Abela
Il rilievo della Tellus (Ara Pacis Augustae, Roma) |
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