Tanti anni fa trascorsi un paio di lunghi periodi a Paphos, sulla costa sudoccidentale dell'isola di Cipro. Acquistai una spilla d'argento che avrei regalato a mia madre e che raffigurava l'idoletto, come si era soliti chiamarlo, cioè una maschera lapidea esposta nel museo della capitale dell'isola, Nicosia. La comprai presso il negozio di gioielli e argenti di Stephanidis (vi si trovavano oggetti - soprattutto piatti da esposizione - in argento di Lefkara, un piccolo e delizioso paese dell'interno che ebbi pure modo di visitare): ecco una delle prime associazioni partorite dalla mia mente quando, giunto alla pagina 18 del bel libro di Massimo Onofri Isolitudini. Atlante letterario delle isole e dei mari (La Nave di Teseo, 2019), mi sono imbattuto nella menzione del dottor Stephanides, protagonista de Il labirinto oscuro (1958) di Lawrence Durrell. Il mio personale ricordo non può di certo essere rilevante per il lettore del presente testo e del libro di Onofri, ma chi ha conosciuto la Grecia e il nugolo di isole disseminate nell'Egeo, chi ha visitato Creta, chi ha vissuto la quotidianità di un'isola come Cipro - che è Grecia comunque, ad onta della propria quasi totale indipendenza e di una parziale sottomissione alla Turchia - non può che rimanere affascinato dalle pagine incipitarie che Onofri, nel suo "atlante", dedica appunto alle isole elleniche. Stephanides viene ancora menzionato poiché avrebbe parlato a Henry Miller di Ghiorgos Katsimbalis, ovvero il colosso di Marussi, cui lo stesso Miller avrebbe dedicato l'omonimo libro scritto dopo un soggiorno in terra greca e pubblicato nel 1941. Di quel soggiorno sono testimoni alcune carte di Ghiorgos Seferis, altro personaggio de Il colosso di Marussi, tra le quali si annidava un taccuino sulle cui pagine lo stesso Miller aveva appuntato i dettagli di quella permanenza.
Per lunghi minuti la mia mente si perde nell'immaginare «l'onde / del greco mar» che s'infrangono contro dirupi di arenaria chiara, alla sommità dei quali insistono - audacemente abbarbicati - antichi monasteri da cui promanano suoni mistici. E ripenso alla luna piena sull'acropoli ateniese, quale viene cantata dallo stesso Seferis nel suo unico e onirico romanzo, Sei notti sull'acropoli, nonché a Nettuno che batte il tridente con forza, come lo ritrae Odysseas Elytis. Poi mi fermo e continuo a leggere le pagine di Onofri: lord Byron muore a Missolungi consumato dalla passione per il quindicenne di Cefalonia Lukas Chalandritsanos. E ripenso a Dionysios Solomòs, intimamente legato alla stessa piccola città in cui Byron finì di consumarsi, quindi al protagonista del film di Anghelopoulos L'eternità e un giorno, che proprio di Solomòs vorrebbe completare uno dei poemi lasciati interrotti (cfr. su questo stesso blog http://ivoflavio-abela.blogspot.com/2014/08/il-tempo-e-un-bambino-che-gioca-ai.html). Ed è meglio che mi fermi. Anzi non posso. Perché Onofri menziona quindi Viaggio a Citera a proposito del pittore Antoine Watteau, il quale dedicò tre dipinti all'isola in cui Afrodite sarebbe nata, e cioè L'isola di Citera (1709-10), Pellegrinaggio per l'isola di Citera (1717), L'imbarco per Citera (1718-19). E menziona anche la poesia Un viaggio a Citera che Baudelaire inserì nella raccolta I fiori del male del 1857. Ma - chissà se a Onofri sarà venuto in mente - Ταξίδι στα Κύθηρα è anche il titolo di un malinconico film del già citato Angheolopoulos, dal finale doloroso, uscito nel 1984. E dunque la meraviglia dell'isola greca in cui tutti i sogni potrebbero trovare realizzazione si mesce, nella mia mente, alla musica e ai versi che Eleni Karaindrou scrisse per lo stesso film («Άρρωστη καρδιά δε βρίσκει γιατρειά στη λησμονιά / χάνεται στ’ αγιάζι μέσα στο βοριά στα ξένα μακριά...»: https://www.youtube.com/watch?v=mekzEV206Ho).
Poi Onofri scrive che Katsimbalis e Seferis approdarono, insieme a Miller, a Idra per fare visita al pittore Nikos Ghikas. Ma Idra fu teatro di ben altro. Leonard Cohen, canadese ebreo di madre russa, vi giunse nel 1960 e, grazie all'eredità che gli era giunta dalla nonna, v'acquistò un'abitazione in pietra grigia e bianca, pagandola 1500 dollari. Aveva ventisei anni e due raccolte di poesie alle spalle: Let us compare mythologies, pubblicata nel 1956, e The Spice-Box of Earth, che sarebbe stata data presto alle stampe. E fu a Idra che s'innamorò di Marianne Ihlen. Lei v'era giunta col marito, lo scrittore norvegese Axel Jansen, il quale poi l'abbandonò per un'altra, la pittrice americana Patricia Amlin, nonostante il fatto che fosse nato, sei mesi prima, il loro figlio Axel Joachim, lasciato naturalmente alla stessa Marianne. Axel e Marianne avevano raggiunto Idra dopo avere visto Il ragazzo sul delfino, film del 1957, in cui Sophia Loren cantava Ti ine aftò, duettando con l'autore del pezzo, cioè Tonis Marandas (https://www.youtube.com/watch?v=e9Sf04zxIpo). Chissà se Onofri sia a conoscenza del fatto che la professoressa Elsa Guggino, madre del comune e carissimo amico Ignazio Buttitta da lui citato - insieme, del resto, ai membri della famiglia - in Passaggio in Sicilia, raccontava che suo marito, il compianto antropologo Antonino Buttitta, le cantava proprio questa canzone prima del loro matrimonio. Come si fa a non amare la Grecia? Molto più avanti, Onofri ricorda che Henry David Thoreau, tra il 1849 e il 1855, scrisse Cape Cod. E vi pose queste parole: «Di quando in quando inserisco una citazione in greco in parte perché è una lingua che ha un suono molto simile a quello dell'oceano - anche se dubito che il Mediterraneo di Omero sia mai stato così rumoroso». E aggiunge Onofri: «Bellissima idea, d'immaginazione per così dire eziologica, questa d'una lingua che si costruisce restituendo i suoni dei luoghi che l'hanno generata». Elytis sarebbe andato oltre nel definire le peculiarità della lingua greca (ne fornisco ragione qui: http://ivoflavio-abela.blogspot.com/2015/11/sublime-e-voli-daquila-nella-poesia-in.html). Io mi limito ad amarla visceralmente e ringrazio Massimo Onofri per avere parlato di Grecia.
Spostiamoci a Egina, l'isola recante il nome della ninfa che fu madre di Eaco per virtù di Zeus, il quale la possedette trasformatosi in aquila. La gelosissima Era inviò dunque sull'isola una pestilenza che falciò quasi tutta la popolazione. Eaco ottenne da Zeus che tutte le formiche dell'isola fossero mutate in uomini, così da rimpinguare il popolo ucciso dal morbo: i Mirmidoni, dunque, non sono altro che formiconi (del resto più avanti, a proposito del labirinto cretese, il mito tornerà: sarà ricordato da Massimo che la figlia di Agenore di Tiro e Telefassa, cioè Europa, fu rapita da Zeus trasformato in toro. Dalla loro unione nacquero Minosse, Radamanto e Sarpedone). E chissà perché (in verità è scontato per me) mi torna in mente Il principe fulvo di Salvatore Silvano Nigro, in cui il grande italianista rileva che Tomasi di Lampedusa, dopo un'iniziale adesione al fascismo, se ne distaccò e individuò negli uomini implotonati in camicia nera... proprio dei formiconi! Appunto contro quei formiconi fascisti s'abbatte la palinodia del fascismo stesso messa in opera dal cantore di Fabrizio Salina (cfr. su questo stesso blog http://ivoflavio-abela.blogspot.com/2012/03/il-principe-fulvo-di-salvatore-silvano.html).
Non posso però rendere di certo conto di Isolitudini in modo dettagliato. Mi limiterò ancora, per le isole greche, a commuovermi per avere letto che Massimo cita uno dei miei cantanti greci preferiti, cioè Ghiannis Parios (a cui del resto devo personalmente l'emozione che mi coglie quando ascolto le sue versioni di due pezzi tra i più belli partoriti, musicalmente, dal genio di Mikis Theodorakis e - in quanto ai testi - da due glorie della poesia nazionale ellenica moderna, cioè il già citato Odysseas Elytis e Iakovos Kampanellis. I due pezzi sono Marina e Margarita Maghiopoula, rispettivamente ascoltabili qui https://www.youtube.com/watch?v=daYgui6RYyw e qui https://www.youtube.com/watch?v=4k1Ix8bJWno). E cito ancora Patmos, da Onofri menzionata poiché l'evangelista Giovanni vi concepì l'Apocalisse: quel Giovanni immaginato e immortalato da Hieronymus Bosch intorno al 1505. Ancora ecco El Greco, al secolo Dominikos Theotokopoulos che (val la pena ricordarlo) andò letteralmente (cioè fisicamente) incontro al Rinascimento spagnolo: se infatti quel movimento culturale, in cui l'uomo trionfò nella sua pienezza insieme alla prospettiva pittorica (segno e simbolo della conquista del proprio "punto di vista", cioè della propria centralità, dopo un Medioevo cristiano e mistico e un Umanesimo che al Rinascimento aveva spianato il cammino), aveva lasciato vergine la Grecia diventata bidimensionale grazie a un ethos ortodosso sovrappostosi a quello plastico di una classicità greca e di un ellenismo espressionista, El Greco però lo conobbe perché lascio Creta. Si recò infatti in Occidente, mettendo a frutto la maestria maturata presso gli iconografi cretesi, ma calandola in un connubio con la maniera artistica occidentale. Ne verranno i grandi capolavori cui tutti guardiamo con ammirazione e sacro rispetto.
Voglio concludere rapidamente l'excursus sulle cronache "geo-critiche" di Onofri su quella Grecia che tanto amo. Egli menziona ancora Theodorakis, Camus ed altri per affrontare infine l'inabissamento dell'isola di Elice (ne parlerà Saverio Scrofani in Viaggio in Grecia del 1799), che perciò risulta «isola all'ennesima potenza» e ci ricorda il destino della nostra piccola Ferdinandea che, nella struttura ad anello di Isolitudini, dopo circa quattrocento pagine (e non a caso, mi pare), assurgerà a dignità di protagonista del finale del libro.
Voglio saltare un po' e andare al Giappone e a La nave delle onde (1954) di Yukio Mishima, romanzo ambientato a Ute-jima, avendo l'autore compiuto un viaggio in Grecia e volendo ispirarsi al romanzo di Dafni e Cloe, cui Onofri associa del resto la xilografia di Hokusai Kotsushika, cioè Il monte Fuji visto da Kanagawa e nota anche come La grande onda. Debussy la volle sulla copertina della partitura per orchestra di La mer. Mishima aveva pubblicato, all'età di ventiquattro anni, l'autobiografia Confessioni di una maschera, in cui dedica alcune pagine al San Sebastiano di Guido Reni, legandolo al proprio primo atto autoerotico. Del resto Mishima si sarebbe fatto ritrarre nella posa del San Sebastiano dal fotografo Eikoh Hosac, nel 1963, forse in una ricerca di identificazione con qualcosa o con qualcuno che avrebbe finito per coinvolgere anche l'ideologia dello scrittore, poi suicidatosi ritualmente a soli quarantacinque anni.
M'imbatto pure nella citazione di Bernardin de Saint-Pierre e del suo Paul e Virginie, a proposito della natura piuttosto vergine della quasi indiana Île de France. Mi sovviene allora uno sceneggiato che vedevo da bambino, tratto proprio dal libro citato, e ricordo pure che ho in casa il libro stesso, in un'edizione del 1953 brutalmente recante il titolo di Paolo e Virginia. Più avanti leggo di Eugenio Turri e ancora di Jean-Marie Gustave Le Clézio e delle mascelle di animali marini da lui descritte. Istintivamente riguardo alcune foto di una mia visita di sei anni fa alle Fortificazioni Timoleontee del disgraziato paese in cui vivo. In quell'occasione fotografai qualcosa: i resti di una carcassa animale. Qualcosa di bianco come gli ossi di seppia... Tutto gira, a quanto pare. Ed è vero che vita e letteratura tendono a mescersi. Ma è anche vero, come ricorda Onofri, che la letteratura genera letteratura. «Questa ricurva mascella non rise / ma morse e morse e adesso è un cenotafio».
E adesso salto verso l'altro mio grande amore: la magnifica Russia presovietica, quella in cui i prigionieri politici venivano però (e ahimè...) inviati in una terra ingrata che era isola solo per caso, essendo il suo Nord quasi legato al continente per via di un fondale di profondità non importante, cioè Sachalin. Ed è magnifico il modo in cui Onofri ci guida lungo il percorso che Anton Čechov vi realizzò. Ma vorrei compiere un passo indietro, mettendo in campo alcuni appunti la cui stesura proprio Onofri mi ha ispirato. Quando infatti Massimo era impegnato nella composizione di Isolitudini, in molti avemmo modo di leggere su Facebook ciò che egli andava concependo su Čechov e Sachalin. E una sera mi venne voglia di rileggere Il gabbiano. Grazie anche agli studi di Orlando Figes dei quali mi sono nutrito, scoprii quindi che il suicidio, prima soltanto tentato, di Treplëv nel dramma del grande russo fu ispirato da un fatto realmente accaduto a Isaak Levitan. Quest'ultimo, nato in una famiglia ebrea lituana e rimasto presto orfano, era stato fraternamente adottato da Anton Čechov e da suo fratello Nikolaj, che sarebbe morto di tubercolosi prima di Anton, come prezioso amico. Peraltro era stato collega dello stesso Nikolaj presso la Scuola di Pittura di Mosca. Anche l'episodio relativo all'uccisione del gabbiano (quello che sarebbe poi stato impagliato, diventando metafora dell'infelice vita e della fragile identità della protagonista) pare fosse stato ispirato da un analogo episodio della vita di Levitan. Morto Nikolaj, l'amicizia che legava Anton ad Isaak divenne ancora più salda. Paradossalmente proprio la profonda conoscenza di Isaak da parte di Anton spinse quest'ultimo a sconsigliare alla sorella Marija, che s'era innamorata di Isaak e aveva chiesto ad Anton il suo parere su un eventuale matrimonio, di sposare l'amico. Infatti Levitan in gioventù amava trascorrere il tempo proprio come Anton, cioè frequentando lupanari e donne dalla dubbia moralità. Isaak decise di accompagnare Anton a Sachalin, la già menzionata isola situata a 800 Km a Nord del Giappone, dove Anton intendeva recarsi, dopo essersi esageratamente documentato soprattutto sulle asprezze del regime punitivo instaurato dagli zar. Volle recarvisi forse per compiere qualcosa di memorabile prima di morire: Čechov sapeva già d'avere contratto la tubercolosi e d'essere dunque condannato, anche se riuscirà a sopravvivere ancora per quattordici anni. Ma di fatto, compiuta la prima tappa del viaggio, il pittore preferì tornarsene indietro: diceva che gli pesava il fatto di dovere rimanere lontano per tanto tempo dalla sua amante, Sofi'ja Kuvšinnikova (e anche dal marito di lei). Čechov non gradì. Per tre anni i rapporti tra i due rimasero interrotti. Anzi Čechov alluse smaccatamente e rabbiosamente al pittore e alla sua amante nel suo «La sventata». La lite fu poi ricomposta. E Čechov scrisse a Levitan di Sachalin. Del resto il pittore era già interessato a tutto ciò che riguardava la Siberia. Fu così che (stando al racconto proprio della Kuvšinnikova), trovandosi per caso Isaak insieme alla donna sulla Vladimirka, la strada che i condannati ai lavori forzati dovevano percorrere per giungere in Siberia, egli fu pervaso da un senso di smarrimento e di colpa. Decise allora di raffigurare la stessa strada sotto un cielo immobile, freddo, che appare particolarmente esteso anche grazie allo stratagemma dell'abbassamento della linea d'orizzonte. Fa da contraltare al dipinto di Levitan, in letteratura ovviamente, il racconto «La steppa» dello stesso Čechov. Massimo Onofri non dovrà volermene se mi sono indegnamente permesso di "integrare" (parola grossa) quanto egli stesso narra di Čechov e Sachalin. Personalmente mi pare che tale integrazione sia un atto di omaggio allo stesso Onofri, atto che è prova di quanto Isolitudini sia in grado, nel lettore, di provocare la messa in moto dell'immaginazione e la voglia di continuare a studiare.
Adesso citerò altri spunti che emergono da Isolitudini. Tra le decine e decine di nomi e di luoghi che costituiscono le tappe umane e geografiche del libro, scelgo di ricordare Saramago con i Quaderni di Lanzarote, pubblicati poco dopo la morte e ovviamente scritti nell'isola del titolo; le isole Fortunate o dei Beati, identificate con le Canarie e citate da Esiodo, Omero, Pindaro, Orazio. Ancora certe isole in cui convergono i fantasmi della vita di un uomo, come Masafuera in cui Jonathan Franzen si rifugiò dopo la morte dell'amico David Foster Wallace, proprio con le ceneri di quest'ultimo, in un eremitaggio laico dal quale emersero «le potenzialità salvifiche della letteratura». Poi c'è Fårö, isola che mi coinvolge affettivamente non tanto e non solo perché vi morì Bergman, ma soprattutto perché un albero della stessa isola fu immortalato da Andrej Tarkovskij nel suo Sacrificio del 1986. Posso continuare con l'isolotto di Grand Bé, a 400 metri da Saint-Malo, in cui François-René de Chateaubriand volle essere sepolto, cosa che avvenne il 4 luglio 1848; l'isolotto di Skelling Michael, in Britannia, con il suo monastero medievale abbandonato e i clochans, cioè sorta di igloo lapidei che fecero da rifugio ai primi santi asceti. Degna di interesse mi appare ancora la menzione delle Azzorre, vero e proprio confine tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, tanto più che fino al 1970 - ricorda Onofri - Horta, sull'isola di Faial, era il porto da cui si snodava il cavo sottomarino che garantiva le comunicazioni telegrafiche fra i due Mondi e che a me ricorda quanto letto in Geografia umana. Teoria e prassi di Adalberto Vallega, a proposito di una prima forma di globalizzazione coincidente proprio con il collegamento, tramite un cavo depositato sul fondale oceanico, tra l'Europa e l'America. Proprio dirimpetto Horta ecco Pico con l'imponente vulcano che, situato proprio appena varcate le Colonne d'Ercole dal bacino del Mediterraneo, potrebbe richiamare la collina del Purgatorio dantesco che sarebbe anche quella vista da Ulisse, secondo il racconto che Dante fa dell'estrema impresa fallimentare del Laertiade nel XXVI canto del suo Inferno. E ancora la Corsica e l'esilio di Seneca, la Sardegna e quello di Ponziano (primo papa ad abdicare nel 235 e poi condannato ad metalla in Sardegna, dove morì insieme all'antipapa Ippolito). Non manca Ventotene, dove Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi avrebbero concepito, nel 1941, il famoso Manifesto, conferendo all'idea di Europa uno statuto quasi ontologico, sebbene ancora embrionale, e dove la virtuosa Agrippina Maggiore, ivi confinata da Tiberio, aveva trovato la morte per fame. E ancora... meglio che io mi fermi.
Non so esattamente che cosa sia questo mio scritto. Recensione? Minisaggio? Tentativo di sistematizzare quanto mi è rimasto della lettura di Isolitudini? Uno strumento per legare alcuni dati a quanto prima della lettura rientrava già tra le mie conoscenze? Non lo so. So bene però che il libro di Massimo Onofri mi sembra pionieristico. Mi risulta infatti che solo raramente sia stata tentata l'impresa di comporre un atlante letterario, cioè un corpus in cui romanzi, saggi, raccolte di poesie, drammi, ecc., unitamente ai loro autori, fossero collocati su uno spazio fisico che, nella fattispecie, è quello delle isole di tutto il mondo. Il lettore viene, così, guidato in un viaggio virtuale che coincide con una vera e propria circumnavigazione del globo terrestre: si parte dalla Grecia e si procede quindi in direzione orientale, finché non si approda alle isole della Campania e del Mediterraneo, tornando quasi al punto di partenza. Del resto se Ischia, Procida, ecc., accolgono le avventure dei grandi personaggi della letteratura nazionale (si pensi ai magnifici inserti riguardanti Amendola, la Morante, la Serao), è pure vero che esse sanno di Grecia poiché alla Magna Graecia appartennero. Le 476 pagine effettive di Isolitudini costituiscono un magnifico atlante che tutti gli appassionati di letteratura e tutti gli amanti dei viaggi dovrebbero possedere, leggere e - perché no? - consultare prima di partire per una di quelle isole o uno di quegli arcipelaghi che spesso, nel nostro immaginario, assumono un'identità soltanto oleografica e folcloristica. Se la formula avviata da Onofri con i precedenti Passaggio in Sardegna e Passaggio in Sicilia aveva convinto ed era piaciuta, essa viene adesso portata alle estreme conseguenze con risultati esaltanti (e alle estreme conseguenze viene condotto il senso di un termine - isolitudine appunto - coniato da Gesualdo Bufalino che, per così dire, reagiva alla sicilitudine sciasciana). Se a ciò si aggiungono la luminosa leggerezza e l'arguzia che connotano la scrittura di Onofri, se si guarda anche alla veste grafica, si può affermare che Isolitudini è un libro la cui presenza, nelle nostre librerie, è necessaria.
Ivo Flavio Abela
Antoine Watteau Pellegrinaggio per l'isola di Citera (1717) |
Leonard e Marianne |
Spostiamoci a Egina, l'isola recante il nome della ninfa che fu madre di Eaco per virtù di Zeus, il quale la possedette trasformatosi in aquila. La gelosissima Era inviò dunque sull'isola una pestilenza che falciò quasi tutta la popolazione. Eaco ottenne da Zeus che tutte le formiche dell'isola fossero mutate in uomini, così da rimpinguare il popolo ucciso dal morbo: i Mirmidoni, dunque, non sono altro che formiconi (del resto più avanti, a proposito del labirinto cretese, il mito tornerà: sarà ricordato da Massimo che la figlia di Agenore di Tiro e Telefassa, cioè Europa, fu rapita da Zeus trasformato in toro. Dalla loro unione nacquero Minosse, Radamanto e Sarpedone). E chissà perché (in verità è scontato per me) mi torna in mente Il principe fulvo di Salvatore Silvano Nigro, in cui il grande italianista rileva che Tomasi di Lampedusa, dopo un'iniziale adesione al fascismo, se ne distaccò e individuò negli uomini implotonati in camicia nera... proprio dei formiconi! Appunto contro quei formiconi fascisti s'abbatte la palinodia del fascismo stesso messa in opera dal cantore di Fabrizio Salina (cfr. su questo stesso blog http://ivoflavio-abela.blogspot.com/2012/03/il-principe-fulvo-di-salvatore-silvano.html).
Non posso però rendere di certo conto di Isolitudini in modo dettagliato. Mi limiterò ancora, per le isole greche, a commuovermi per avere letto che Massimo cita uno dei miei cantanti greci preferiti, cioè Ghiannis Parios (a cui del resto devo personalmente l'emozione che mi coglie quando ascolto le sue versioni di due pezzi tra i più belli partoriti, musicalmente, dal genio di Mikis Theodorakis e - in quanto ai testi - da due glorie della poesia nazionale ellenica moderna, cioè il già citato Odysseas Elytis e Iakovos Kampanellis. I due pezzi sono Marina e Margarita Maghiopoula, rispettivamente ascoltabili qui https://www.youtube.com/watch?v=daYgui6RYyw e qui https://www.youtube.com/watch?v=4k1Ix8bJWno). E cito ancora Patmos, da Onofri menzionata poiché l'evangelista Giovanni vi concepì l'Apocalisse: quel Giovanni immaginato e immortalato da Hieronymus Bosch intorno al 1505. Ancora ecco El Greco, al secolo Dominikos Theotokopoulos che (val la pena ricordarlo) andò letteralmente (cioè fisicamente) incontro al Rinascimento spagnolo: se infatti quel movimento culturale, in cui l'uomo trionfò nella sua pienezza insieme alla prospettiva pittorica (segno e simbolo della conquista del proprio "punto di vista", cioè della propria centralità, dopo un Medioevo cristiano e mistico e un Umanesimo che al Rinascimento aveva spianato il cammino), aveva lasciato vergine la Grecia diventata bidimensionale grazie a un ethos ortodosso sovrappostosi a quello plastico di una classicità greca e di un ellenismo espressionista, El Greco però lo conobbe perché lascio Creta. Si recò infatti in Occidente, mettendo a frutto la maestria maturata presso gli iconografi cretesi, ma calandola in un connubio con la maniera artistica occidentale. Ne verranno i grandi capolavori cui tutti guardiamo con ammirazione e sacro rispetto.
Voglio concludere rapidamente l'excursus sulle cronache "geo-critiche" di Onofri su quella Grecia che tanto amo. Egli menziona ancora Theodorakis, Camus ed altri per affrontare infine l'inabissamento dell'isola di Elice (ne parlerà Saverio Scrofani in Viaggio in Grecia del 1799), che perciò risulta «isola all'ennesima potenza» e ci ricorda il destino della nostra piccola Ferdinandea che, nella struttura ad anello di Isolitudini, dopo circa quattrocento pagine (e non a caso, mi pare), assurgerà a dignità di protagonista del finale del libro.
Voglio saltare un po' e andare al Giappone e a La nave delle onde (1954) di Yukio Mishima, romanzo ambientato a Ute-jima, avendo l'autore compiuto un viaggio in Grecia e volendo ispirarsi al romanzo di Dafni e Cloe, cui Onofri associa del resto la xilografia di Hokusai Kotsushika, cioè Il monte Fuji visto da Kanagawa e nota anche come La grande onda. Debussy la volle sulla copertina della partitura per orchestra di La mer. Mishima aveva pubblicato, all'età di ventiquattro anni, l'autobiografia Confessioni di una maschera, in cui dedica alcune pagine al San Sebastiano di Guido Reni, legandolo al proprio primo atto autoerotico. Del resto Mishima si sarebbe fatto ritrarre nella posa del San Sebastiano dal fotografo Eikoh Hosac, nel 1963, forse in una ricerca di identificazione con qualcosa o con qualcuno che avrebbe finito per coinvolgere anche l'ideologia dello scrittore, poi suicidatosi ritualmente a soli quarantacinque anni.
M'imbatto pure nella citazione di Bernardin de Saint-Pierre e del suo Paul e Virginie, a proposito della natura piuttosto vergine della quasi indiana Île de France. Mi sovviene allora uno sceneggiato che vedevo da bambino, tratto proprio dal libro citato, e ricordo pure che ho in casa il libro stesso, in un'edizione del 1953 brutalmente recante il titolo di Paolo e Virginia. Più avanti leggo di Eugenio Turri e ancora di Jean-Marie Gustave Le Clézio e delle mascelle di animali marini da lui descritte. Istintivamente riguardo alcune foto di una mia visita di sei anni fa alle Fortificazioni Timoleontee del disgraziato paese in cui vivo. In quell'occasione fotografai qualcosa: i resti di una carcassa animale. Qualcosa di bianco come gli ossi di seppia... Tutto gira, a quanto pare. Ed è vero che vita e letteratura tendono a mescersi. Ma è anche vero, come ricorda Onofri, che la letteratura genera letteratura. «Questa ricurva mascella non rise / ma morse e morse e adesso è un cenotafio».
Isaak Levitan Vladimirka |
Adesso citerò altri spunti che emergono da Isolitudini. Tra le decine e decine di nomi e di luoghi che costituiscono le tappe umane e geografiche del libro, scelgo di ricordare Saramago con i Quaderni di Lanzarote, pubblicati poco dopo la morte e ovviamente scritti nell'isola del titolo; le isole Fortunate o dei Beati, identificate con le Canarie e citate da Esiodo, Omero, Pindaro, Orazio. Ancora certe isole in cui convergono i fantasmi della vita di un uomo, come Masafuera in cui Jonathan Franzen si rifugiò dopo la morte dell'amico David Foster Wallace, proprio con le ceneri di quest'ultimo, in un eremitaggio laico dal quale emersero «le potenzialità salvifiche della letteratura». Poi c'è Fårö, isola che mi coinvolge affettivamente non tanto e non solo perché vi morì Bergman, ma soprattutto perché un albero della stessa isola fu immortalato da Andrej Tarkovskij nel suo Sacrificio del 1986. Posso continuare con l'isolotto di Grand Bé, a 400 metri da Saint-Malo, in cui François-René de Chateaubriand volle essere sepolto, cosa che avvenne il 4 luglio 1848; l'isolotto di Skelling Michael, in Britannia, con il suo monastero medievale abbandonato e i clochans, cioè sorta di igloo lapidei che fecero da rifugio ai primi santi asceti. Degna di interesse mi appare ancora la menzione delle Azzorre, vero e proprio confine tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, tanto più che fino al 1970 - ricorda Onofri - Horta, sull'isola di Faial, era il porto da cui si snodava il cavo sottomarino che garantiva le comunicazioni telegrafiche fra i due Mondi e che a me ricorda quanto letto in Geografia umana. Teoria e prassi di Adalberto Vallega, a proposito di una prima forma di globalizzazione coincidente proprio con il collegamento, tramite un cavo depositato sul fondale oceanico, tra l'Europa e l'America. Proprio dirimpetto Horta ecco Pico con l'imponente vulcano che, situato proprio appena varcate le Colonne d'Ercole dal bacino del Mediterraneo, potrebbe richiamare la collina del Purgatorio dantesco che sarebbe anche quella vista da Ulisse, secondo il racconto che Dante fa dell'estrema impresa fallimentare del Laertiade nel XXVI canto del suo Inferno. E ancora la Corsica e l'esilio di Seneca, la Sardegna e quello di Ponziano (primo papa ad abdicare nel 235 e poi condannato ad metalla in Sardegna, dove morì insieme all'antipapa Ippolito). Non manca Ventotene, dove Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi avrebbero concepito, nel 1941, il famoso Manifesto, conferendo all'idea di Europa uno statuto quasi ontologico, sebbene ancora embrionale, e dove la virtuosa Agrippina Maggiore, ivi confinata da Tiberio, aveva trovato la morte per fame. E ancora... meglio che io mi fermi.
Non so esattamente che cosa sia questo mio scritto. Recensione? Minisaggio? Tentativo di sistematizzare quanto mi è rimasto della lettura di Isolitudini? Uno strumento per legare alcuni dati a quanto prima della lettura rientrava già tra le mie conoscenze? Non lo so. So bene però che il libro di Massimo Onofri mi sembra pionieristico. Mi risulta infatti che solo raramente sia stata tentata l'impresa di comporre un atlante letterario, cioè un corpus in cui romanzi, saggi, raccolte di poesie, drammi, ecc., unitamente ai loro autori, fossero collocati su uno spazio fisico che, nella fattispecie, è quello delle isole di tutto il mondo. Il lettore viene, così, guidato in un viaggio virtuale che coincide con una vera e propria circumnavigazione del globo terrestre: si parte dalla Grecia e si procede quindi in direzione orientale, finché non si approda alle isole della Campania e del Mediterraneo, tornando quasi al punto di partenza. Del resto se Ischia, Procida, ecc., accolgono le avventure dei grandi personaggi della letteratura nazionale (si pensi ai magnifici inserti riguardanti Amendola, la Morante, la Serao), è pure vero che esse sanno di Grecia poiché alla Magna Graecia appartennero. Le 476 pagine effettive di Isolitudini costituiscono un magnifico atlante che tutti gli appassionati di letteratura e tutti gli amanti dei viaggi dovrebbero possedere, leggere e - perché no? - consultare prima di partire per una di quelle isole o uno di quegli arcipelaghi che spesso, nel nostro immaginario, assumono un'identità soltanto oleografica e folcloristica. Se la formula avviata da Onofri con i precedenti Passaggio in Sardegna e Passaggio in Sicilia aveva convinto ed era piaciuta, essa viene adesso portata alle estreme conseguenze con risultati esaltanti (e alle estreme conseguenze viene condotto il senso di un termine - isolitudine appunto - coniato da Gesualdo Bufalino che, per così dire, reagiva alla sicilitudine sciasciana). Se a ciò si aggiungono la luminosa leggerezza e l'arguzia che connotano la scrittura di Onofri, se si guarda anche alla veste grafica, si può affermare che Isolitudini è un libro la cui presenza, nelle nostre librerie, è necessaria.
Ivo Flavio Abela