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Giuseppe Loteta, «Romanzo messinese»,
Pungitopo, 2011 |
Intorno al 245 a.C., licenziando la nuova edizione degli «Aitia», Callimaco avrebbe premesso ai suoi distici un Prologo in cui attaccava i suoi detrattori denominandoli Telchini (nome di alcune creature che popolavano l'immaginario mitologico: sorta di folletti maligni che lavoravano i metalli a Rodi e a Ceo). Essi in precedenza avevano forse criticato il poeta perché si era rifiutato di scrivere un lungo carme continuo. Non è facile oggi comprendere a chi Callimaco alludesse, sebbene il pensiero corra spontaneo ad Apollonio Rodio e alle sue «Argonautiche»: lungo, complesso e monumentale poema epico sulle gesta di Giasone, che riportava in auge l'epos di ascendenza omerica. Callimaco, poeta di circoscritti e raffinati quadri mitologici da cui non erano banditi gli aspetti sentimentali, dichiarava così la sua avversione al «grande libro», percepito come «grande male».
Ho appena letto «Romanzo messinese» di Giuseppe Loteta, siciliano trapiantato a Roma dal 1959, giornalista (è stato – fra l'altro – caposervizio interni e inviato de «L'Astrolabio», poi inviato de «Il Messaggero»), già cimentatosi nella scrittura non giornalistica (soprattutto da un ventennio. È autore infatti di una biografia di Fernando De Rosa per Marsilio e di «Messina 1908» per Pungitopo).
Una certa ritrosìa non mi aveva permesso di decidermi a leggere il libro di Loteta prima di adesso: quel messinese del titolo non mi piaceva. Mi faceva pensare che avrei letto il solito testo dai risvolti paesano-campanilistici: legato, cioè, non solo geograficamente, ma anche "eticamente", a una realtà troppo circoscritta e pervasa di bummuli, marranzani, arance rosse, scialli neri e lunghi fin dietro il deretano, coppole e facce sfregiate, lupare, cannoli, madonnine in mezzo al mare benedicenti noi «et ipsam civitatem», Scilla e Cariddi in lotta contro il ponte sullo Stretto e stocco in tutte le salse (in verità lo stocco c'è e in "ghiotta" presenza). Personalmente mi bastano i libri di Andrea Camilleri e il Giuseppe Culicchia di «Sicilia, o cara», che contribuiscono già a cristallizzare l'oleografia in cui la Sicilia viene ridicolmente e anacronisticamente ingabbiata pure in epoca di globalizzazione galoppante. Alla fine ho ceduto.
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Giuseppe Loteta con Vittorio Gassman e Marco Pannella
(L'Aquila, processo per il caso Braibanti) |
Nel titolo figura anche la parola romanzo. Sicché mi sarei aspettato una narrazione articolata, dotata di un intreccio quantomeno intrigante e di un corpo sufficientemente tridimensionale (se c'è una cosa che caratterizza in genere il romanzo, essa è il suo sviluppo in larghezza e profondità, ancor più che in mera lunghezza. Anzi la lunghezza è proporzionale all'entità delle altre due dimensioni. Provate a tradurre un romanzo in un ipertesto e ve ne renderete conto). Ma il sottotitolo, «Racconti», si contrappone subito al titolo. Evidentemente Loteta sa bene che 'romanzo' è anche il libro di racconti legati da uno specifico fil rouge. Tale filo, nel caso specifico, sembra essere fornito dall'origine geografica messinese dei personaggi che popolano tutti i racconti (di ogni personaggio è peraltro lecito cogliere, pur nella sintesi cui fisiologicamente obbliga la brevità della forma scelta, un ritratto completo). Però quinte sceniche dei racconti sono non soltanto Messina, Mandanici, Milazzo e Stromboli, ma anche la Spagna, l'Africa, Milano e Napoli.
È sufficiente un dato geo-anagrafico – il «nato a Messina» o «in provincia di Messina» scritto sulla carta d'identità – per fare di diciassette racconti – in cui i titolari di quella carta d'identità agiscono – un romanzo? Secondo me no, soprattutto se si considera che Loteta (con mio infinito piacere però) supera la dimensione campanilistica e non fa della "messinitudine" una condizione esistenziale limitante (a differenza di quanto accade con una categoria ben nota e inflazionata quale la "sicilitudine"). Si è messinesi, ma si è anche greci: «Come viene fuori a Mandanici un nome proprio dell'antica Grecia?», si chiede l'autore nel primo racconto intitolato «Aristide», provvedendo quasi programmaticamente a rinsaldare i vincoli fra la Sicilia dei nostri giorni e la Magna Grecia, non diversamente da quanto fece Pirandello dichiarando di essere nato «in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti…corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xaos…». Si è messinesi, ma si è anche italiani: si va a combattere in Africa in nome della gloriosa Italia del Duce per non perdere il posto alla Banca Commerciale, la cui nuova direzione è in vena di licenziamenti a causa delle conseguenze della crisi del '29, piegandosi peraltro alle esigenze di una vita borghese uguale a Messina come a Milano (i toni e certe atmosfere ricordano «La gioia e la legge», uno dei «Racconti» di Tomasi di Lampedusa). Si è messinesi, ma si è anche un po' cosmopoliti: si vive in prima persona il fallito colpo di stato del 1981 in Spagna (e qui davvero farebbe ben poca differenza se Loteta fosse non messinese, ma napoletano, torinese o romano).
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L'autore alla presentazione di «Romanzo messinese»
presso l'Università di Messina il 14 maggio 2011 |
Ma allora, caro Peppino (come ti chiamano gli amici), perché 'romanzo'? Forse perché «Romanzo messinese» è il classico Bildungsroman, cioè un romanzo di formazione, come peraltro rileva Vanni Ronsisvalle in quella prefazione che io ho voluto leggere soltanto dopo avere divorato i diciassette racconti e non prima (e ho fatto male perché, se l'avessi letta prima dei racconti, mi sarei risparmiato la fatica di spremermi le meningi). Peraltro è interessante rilevare che Ronsisvalle dichiara di avere ricevuto i racconti in bozza quando il titolo non era ancora stato scelto dall'autore. E ciò farebbe sospettare che Loteta per primo potrebbe essersi chiesto, dopo la redazione dei racconti: «Che cosa mai avrò scritto?» (si sa che il momento in cui si sceglie il titolo della propria fatica può essere quello in cui tutti i nodi vengono al pettine). Insomma è come se le vicende capitate ai personaggi disseminati nei racconti avessero segnato Loteta portandolo ad essere ciò che è: su quelle vicende ha fatto esperienza, in quelle vicende si è riflesso, quelle vicende ha introiettato ed elaborato. Non concordo con Ronsisvalle invece su un punto: eccetto che in un caso (il racconto «Come il nonno», di cui si dirà più avanti), non mi sembra affatto che i racconti di Loteta siano tutti (o quasi) romanzi non sviluppati (come appunto ritiene Ronsisvalle). Mi appaiono infatti equilibrati nella loro architettura, nonché perfettamente compiuti. Insomma «Romanzo messinese» non potrebbe mai essere il calviniano «Se una notte d'inverno un viaggiatore» (sebbene nel caso calviniano i dieci romanzi non siano abortiti, ma semplicemente interrotti).
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Nilde Jotti a «Il Messaggero» durante gli anni '80.
Alla sua sinistra Giuseppe Loteta |
Se la lettura di «Romanzo messinese» viene condotta alla luce di quanto appena detto, ogni singolo dato contenuto nei racconti acquisisce senso e valore in rapporto sistemico con tutti i particolari presenti negli altri racconti, a partire da quelli apparentemente più insignificanti quali i tetti e le antenne televisive colpiti dalla luce lunare alla fine di «Aristide». Per poi proseguire, ad esempio, con la vittoria del pragmatismo e della concretezza sull'intellettualismo di una sinistra e di un comunismo inconcludenti nel vagamente sciasciano «Il ragazzo rosso»: il rosso protagonista accetterà di trasferirsi in America per vivere, come lo zio che in America ha fatto fortuna, da «stimato cittadino della patria del capitalismo e dell'anticomunismo». Altri particolari: l'umorismo pirandelliano da «Uno, nessuno e centomila» de «Il sosia», in cui il proprietario di un bar, Totò, si fa sostituire per noia da un individuo in tutto e per tutto uguale a se stesso, il ragionier Passera, salvo poi riprendere il proprio posto, alimentando però nel lettore fino alla fine il dubbio se Passera sia lo stesso Totò che si prende gioco degli avventori del proprio bar o un sostituto che gli somiglia perfettamente; l'atmosfera da «Ultimi giorni di Pompei» de «L'isola» dove, attraverso la tessitura di due fili narrativi, si finisce per trovarsi in mezzo ad un'apocalittica eruzione; la prova del fatto che la Letteratura possa insegnare la Storia meglio della Storiografia in «Mezzanotte è passata da un pezzo», in cui – se n'è già fatto accenno – Loteta narra in prima persona il fallito colpo di stato spagnolo del 1981; la superstizione del fascistissimo don Luigi in «Sciopero al bar», con quello sciopero attuato dai dipendenti di don Luigi per protestare contro l'ingiusto licenziamento di uno di loro; quel bruciante 1943 di «Sfollamento», fra le cui righe sembra di risentire nostalgici echi dei «Ricordi d'infanzia» di Tomasi di Lampedusa a proposito del modo in cui i Loteta, Giuseppe e la madre rifugiatisi a Mandanici, conservavano i mobili della loro casa di Messina, che avevano portato con sé insieme ai libri appartenuti al padre morto due anni prima, e avevano collocato in una stanza affittata. Quest'ultimo racconto contiene peraltro un'originale definizione di 'cultura classica': «una cultura che sapeva vedere nelle cose, distinguere, setacciare e alla fine soffermarsi su ciò che è veramente importante per il genere umano, tralasciando aristocraticamente il resto», cosa di cui sarebbe bene informare Profumo, la Gelmini, ma anche Berlinguer; la straordinaria umanità di un sensato e pragmatico Don Chisciotte, ovvero il tenente Crimi di «Si torna a casa». E si potrebbe ancora continuare.
Un discorso a parte va fatto per il già citato «Come il nonno»: un potenziale grande romanzo. Quanto attiene infatti alla storia del marchese Duilio, nonno del protagonista, avrebbe potuto essere ampliato e forse avrebbe costituito una sorta di saga familiare (magari un po' derobertiana o tomasiana) sulla vecchia aristocrazia isolana. Singolare anche la prosa linda e asettica, quasi l'autore stesse scrivendo una cronaca giornalistica. Il finale risulta scolpito in quel reciproco integrarsi di Alfredo e della statua del nonno Duilio, sorta di puškiniano convitato di pietra in grado di vendicare se stesso attraverso il suo doppio animato Alfredo: una grande staffilata inferta all'ipocrisia paesana.
Loteta riesce a riconciliarmi con il panorama editoriale contemporaneo (fin troppo infarcito di spazzatura) anche per quella sua prosa linda, semplice, calvinianamente leggera, a tratti di un nitore neoclassico, tessuta su un italiano (finalmente) normativo, prova del fatto che non è necessario prodursi in artificiosi sperimentalismi linguistici per dimostrare di sapere scrivere.
La passione di Loteta per il racconto breve e raffinato sarebbe tornata gradita a Callimaco. E chissà che Peppino, non trasformando «Come il nonno» in un grande romanzo, non ci abbia in fondo risparmiato un grande male.
Il presente testo è dedicato a Onofrio Pirrotta che è scomparso appena due settimane fa, lasciando un grande vuoto. Proprio tramite il simpatico e brillante Onofrio ho avuto modo di conoscere ed apprezzare Peppino Loteta.
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Da sinistra Giuseppe Loteta, Bettino Craxi e Onofrio Pirrotta
nel Transatlantico di Montecitorio |