Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Alessandra Wolff |
Lucio Piccolo |
Questo sulfureo e beffardo (ma anche irredimibilmente aristocratico e redimibilmente fascista e antisemita) Tomasi di Lampedusa, che si firma pure «Mostro», è il protagonista de «Il Principe fulvo» di Salvatore Silvano Nigro (Sellerio, 2012): il racconto di un romanzo («Il Gattopardo» ovviamente), ma anche dei «Racconti brevi» e – come dovrebbe essere ormai chiaro – dell'epistolario, nonché una biografia attraverso la quale Nigro ripercorre la "storia interna" del Lampedusa. Il libro fu fortemente voluto – come dichiara l'Autore – da Elvira Sellerio che non ebbe tuttavia il tempo di vederlo concluso. Nigro possiede la stessa sconfinata conoscenza bibliografica e artistica di Tomasi e ne fa tesoro costruendo un testo che è il trionfo del genio dell'esegeta, del ricercatore e del tessitore di trame, del linguista raffinato, dello stilista leggero capace di infondere orgasmiche gioie intellettuali.
Iniziamo dunque a familiarizzare con questo Lampedusa nigriano che ritiene il fascismo l'antidoto contro le «perversioni dei bolscevichi» (come già pare avesse fatto sua madre). E ai bolscevichi vengono assimilati i pederasti. Ma per fortuna l'Italia ha Mussolini che Tomasi crede pure di vedere in sogno, fiero peraltro di riceverne l'invito a dargli del "tu". Il Lampedusa odia del resto gli Ebrei («la inverosimile "grascia" dei lunghi cappotti verdi, il sudore che scorreva sotto i riccioli impomatati; il puzzo caprino») al punto da giustificare «i periodici massacri eseguiti, proprio a Kauno, dai saggissimi Russi». Maschere letterarie? Forse. Se si considera che dal 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali, Tomasi lavora alla sofferta palinodia del Fascismo, finendo per attribuire al Minculpop la responsabilità di certo appiattimento dell'informazione e ponendosi dalla parte di una coppia di amici Ebrei costretti a fuggire. Della palinodia è testimone il romanzo, in cui il principe Fabrizio muore nel 1883, lo stesso anno in cui a Predappio nasce Benito Mussolini: «i Gattopardi, i Leoni» appaiono così destinati ad essere soppiantati da creature meschine come «gli sciacalletti, le iene» e i «formiconi fascisti».
Una parata militare fascista in una piazza di Torino |
Tre furono le figlie femmine di Fabrizio: Caterina, Carolina e Concetta. Quest'ultima fu il nervo scoperto della prole saliniana fin dal nome: «La rima isola Concetta» precisa Nigro. Perché a lei, aristocratica quanto il padre, Tomasi affida il compito di spazzare via una volta per tutte ciò che di Fabrizio rimane: Bendicò che è nome, stemma, casato. Proprio lei, che il padre volle preservare dall'ingresso in un mondo nel quale non si sarebbe mai integrata (non permettendole di amare Tancredi), lancia dalla finestra ciò che resta dell'alano. E nel corso di quel volo «au ralenti» per un istante la carcassa di Bendicò assume la forma del «Gattopardo araldico di casa Salina con il quale il Principe si era sempre identificato. Il quadrupede tiene sollevato "l'anteriore destro". Pare che imprechi. La visione è dantesca»: se Vanni Fucci nel canto XXIV dell'«Inferno» dantesco «fa le fiche con entrambe le mani alzate. Qui basta una zampa sola». È una conclusione densa di disperazione e di rabbia. Forse Fabrizio (come La Ciura) sta ormai godendo dell'immortalità donatagli da Venere, ma sulla terra si è immortali finché dura la «memoria attiva del casato». Concetta la cancella. Fabrizio muore definitivamente per la seconda volta dopo un ultimo cinematografico e fiero – ma disperato – tentativo di "danza araldica". Di questa morte avrebbe sicuramente gioito quel «cornuto» di Garibaldi.
Ivo Flavio Abela
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