mercoledì 5 febbraio 2014

Iside, Demetra o semplicemente Agata?

Foto da me scattata il 4 febbraio 2011
A Catania la grande festa barocca di Sant'Agata ricalca un cerimoniale che affonda le sue radici nel periodo compreso fra il '500 e il '600, ma che a sua volta accoglie ancestrali suggestioni.

Il 4 febbraio si svolge il cosiddetto giro esterno, il cui percorso ricalca il circuito delle mura che delimitavano la Catania medievale. Il momento topico è costituito dalla famosa acchianata de' Cappuccini (in genere fra le 17:00 e le 18:00). Un tempo la si faceva di corsa: i devoti affastellati nel reggere i due cordoni di circa 110 metri ciascuno, cui è legato il pesantissimo fercolo, andavano appunto di corsa. Dopo l'ultimo morto, qualche anno fa, si vietò la corsa e i devoti salgono da allora ad andatura normale. In genere il rientro in Duomo avviene intorno alle 5:00 del mattino del 5 febbraio.

Ancora il 5 febbraio si svolge quindi, a partire dalle 17:30, il cosiddetto giro interno lungo l'arteria di via Etnea fino a piazza Borgo. Il percorso ricalca la prima espansione urbanistica in seno alla ricostruzione promossa dopo due eventi disastrosi: 1) la colava lavica del 1669. Originatasi dai monti Rossi, essa avrebbe separato il Castello Ursino dal mare, mentre un altro braccio avrebbe attraversato l'area dell'odierno corso Italia per gettarsi in mare ad Ognina; 2) il sisma del 1693 che avrebbe lasciato in piedi le absidi della ecclesia munita, cioè del Duomo normanno.

I devoti col sacco tradizionale e i pesantissimi ceri
in genere portati su una spalla
(qui posati sul piano di calpestio durante una pausa)
Rimarrebbe tanto da dire circa i problemi topografici relativi ai rapporti (non solo in ambito propriamente archeologico, ma anche antropologico-religioso) fra l'Anfiteatro romano di piazza Stesicoro, la Chiesa di San'Agata alla Fornace (nota anche come Chiesa di San Biagio), la Chiesa di Sant'Agata al Carcere, la Chiesa di Sant'Agata La Vetere con annesse valutazioni sul sarcofago in essa contenuto, tutte considerazioni che porterebbero il discorso a sconfinare verso la Chiesa di San Gaetano alle Grotte e da lì, a causa dell'acqua nel sotterraneo, verso l'Amenano e via Vittorio Emanuele col Teatro greco. E ancora verso la fonte di Gammazita con la sua stratigrafia. Senonché - parlando della Chiesa di Sant'Agata al Carcere - sarebbe necessario poi aprire una parentesi sul portale che era quello dell'antico Duomo crollato nel 1693. Non si finirebbe più. Meglio dunque fermarsi.

Il busto-reliquiario di Sant'Agata, opera dell'orafo senese Giovanni Di Bartolo, fu a lui commissionato nel 1373 dal vescovo di Catania, un benedettino originario di Limoges, dove lo stesso Di Bartolo lavorava. Fu completato nel 1376 e lavorato in argento con incarnato in smalto e capelli in oro. La calotta contiene ovviamente il cranio (a quanto pare avvolto in una sorta di fazzoletto bianco chiuso mediante un nastro rosso). Sul busto fu posta una rete - anch'essa d'argento e a trama fitta - alla quale sono attualmente appesi più di trecento oggetti preziosi donati nel corso dei secoli. Risaltano la massiccia collana quattrocentesca offerta dal viceré Ferdinando Acugna (attualmente sepolto in Duomo nella cappella di Sant'Agata), la croce di Cavaliere della Legion D'Onore di Vincenzo Bellini (donata da alcuni familiari del cigno catanese al rientro a Catania delle sue spoglie, poi sepolte all'interno del duomo fra la navata centrale e quella di destra), la croce di papa Leone XIII, un anello donato da Gregorio Magno, un anello donato nel 1881 dalla regina d'Italia Margherita di Savoia. Sul capo fu posta la corona del peso di milletrecentosettanta grammi, tempestata di pietre preziose, che Riccardo I d'Inghilterra Cuor di Leone aveva offerto alla Santa nel 1190 (quando peraltro il busto non esisteva ancora), trovandosi in Sicilia mentre si recava in Terrasanta per la Terza Crociata.

Si è spesso parlato di una presunta conversione cristiana del culto di Iside (di cui esistono attestazioni nella Catania antica), il cui prodotto sarebbe proprio il culto di Agata con annessi e connessi (processione, fercolo, cordoni, sacco). Si è tanto parlato anche della possibilità di "rivivere" la festa di Sant'Agata in opere come «L'asino d'oro» di Apuleio. E con tutto il rispetto per chi la pensa così, mi limiterei a dire quanto segue.

Un momento della famigerata salita dei Cappuccini
Considerando che l'opera di Apuleio è del II secolo e la vicenda del presunto martirio di Sant'Agata si
collocherebbe alla metà del III, forse sarebbe meglio dire che potremmo rivivere la processione di Iside nella festa di Sant'Agata (invertendo i termini. E quelli cronologici sono sempre ineludibili). Ma nell'opera di Apuleio non c'è traccia alcuna (per ovvie ragioni) di quello che si configurerebbe come il cerimoniale cinquecentesco codificato da don Alvaro Paternò Castello (che ha peculiarità assolutamente rinascimentali e in seno al quale - per fare solo un esempio - non veniva usato neanche l'odierno sacco, ma i devoti andavano nudi con solo un drappo bianco che ne copriva le pudenda. Il sacco sarebbe stato usato posteriormente per puri motivi pratici - il rigore delle temperature invernali - e di decenza. Se poi sacerdoti e sacerdotesse di Iside usavano un abbigliamento simile, perché non potrebbe trattarsi di una coincidenza?). Nell'opera di Apuleio non esiste traccia dell'esasperato barocchismo ispaneggiante (e non certo egizio) della festa di Sant'Agata, né ancora di quell'atmosfera carnascialesca ben indicata da Verga ne «La coda del diavolo» (secondo l'autore a Catania la Quaresima veniva senza il Carnevale, ma in compenso la festa di Sant'Agata era «un gran veglione di cui la città era teatro»). Peraltro la vara (il fercolo) è pure cinquecentesca (il suo creatore, Archifel, lavorò a Catania dal 1486 al 1533 e il fercolo fu portato in processione per la prima volta nel 1519), ma nasceva da un'esigenza di pura pompa e da quella (più pratica) di portare "sistemicamente" in processione il busto-reliquiario (garantendone sempre e comunque l'incolumità: meglio fissarlo su un piano che farlo traballare sulle spalle dei devoti) e le altre reliquie. Su un dato concorderei tuttavia: l'ipotesi in base alla quale i devoti che trascinano i cordoni del fercolo costituiscono un'eco di quanto facevano in antico gli alatori mi sembra molto verosimile.

Il rientro in Duomo
intorno alle 5:00 del mattino del 5 febbraio 2013
Né è detto che sia più convincente pensare a una «conversione cristiana» di un culto preesistente, semmai potrebbe darsi che il culto cristiano abbia utilizzato schemi cultuali e liturgici che erano ormai diventati parte integrante della tradizione culturale locale. In altri termini alle forme del culto di Iside si sarebbero ispirati i catanesi per celebrare un personaggio che però non era Iside, un po' come le basiliche paleocristiane usarono la pianta di quelle romane e di certi edifici termali romani. Ciò non significa che nelle basiliche paleocristiane si facesse il bagno o la sauna o che vi prendesse vita il negotium.

Esisterebbe del resto un'altra ipotesi. È vero che il Cinquecento è il secolo dell'egittomania. Ma è anche il secolo in cui si concretizza l'attenzione globale verso il passato riaccesasi nell'Umanesimo, e in cui nascono le prime grandi collezioni d'arte anche e soprattutto classica (greco-romana). Il culto di Sant'Agata potrebbe dunque ispirarsi anche a quello (tutto greco) di Demetra, alla quale era stato verosimilmente eretto un santuario situato presso l'odierna piazza San Francesco, se è vero che alla metà del secolo scorso fu rinvenuta una corposa e nutrita stipe votiva proprio laddove oggi vediamo la statua del beato Dusmet, segno che il culto di Demetra era molto praticato in città.

Ivo Flavio Abela


Foto da me scattata il 4 febbraio 2011

1 commento:

  1. «A Catania la quaresima vien senza Carnevale; ma in compenso c'è la festa di Sant'Agata - gran veglione di cui tutta la città è il teatro - nel quale le signore, ed anche le pedine, hanno il diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d'intrigare amici e conoscenti, e d'andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia diritto di metterci la punta del naso. Questo si chiama il diritto di 'ntuppatedda, diritto il quale, checché ne dicano i cronisti, dovette esserci lasciato dai Saraceni, a giudicarne dal gran valore che ha per la donna dell'harem. Il costume componesi di un vestito elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi per intero nel manto, il quale poi copre tutta la persona e lascia scoperto soltanto un occhio per vederci e per far perdere la tramontana, o per far dare al diavolo. La sola civetteria che il costume permette è una punta di guanto, una punta di stivalino, una punta di sottana o di fazzoletto ricamato, una punta di qualche cosa da far valere insomma, tanto da lasciare indovinare il rimanente.

    Dalle quattro alle otto o alle nove di sera la 'ntuppatedda è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo valore), delle strade, dei ritrovi, di voi, se avete la fortuna di esser conosciuto da lei, della vostra borsa e della vostra testa, se ne avete; è padrona di staccarvi dal braccio di un amico, di farvi piantare in asso la moglie o l'amante, di farvi scendere di carrozza, di farvi interrompere gli affari, di prendervi dal caffè, di chiamarvi se siete alla finestra, di menarvi pel naso da un capo all'altro della città, fra il mogio e il fatuo, ma in fondo con cera parlante d'uomo che ha una paura maledetta di sembrar ridicolo; di farvi pestare i piedi dalla folla, di farvi comperare, per amore di quel solo occhio che potete scorgere, sotto pretesto che ne ha il capriccio, tutto ciò che lascereste volentieri dal mercante, di rompervi la testa e le gambe - le 'ntuppatedde più delicate, più fragili, sono instancabili - di rendervi geloso, di rendervi innamorato, di rendervi imbecille, e allorché siete rifinito, intontito, balordo, di piantarvi lì, sul marciapiede della via, o alla porta del caffè, con un sorriso stentato di cuor contento che fa pietà, e con un punto interrogativo negli occhi, un punto interrogativo fra il curioso e l'indispettito. Per dir tutta la verità, c'è sempre qualcuno che non è lasciato così, né con quel viso; ma sono pochi gli eletti, mentre voi ve ne restate colla vostra curiosità in corpo, nove volte su dieci, foste anche il marito della donna che vi ha rimorchiato al suo braccio per quattro o cinque ore - il segreto della 'ntuppatedda è sacro.

    Singolare usanza in un paese che ha la riputazione di possedere i mariti più suscettibili di cristianità! È vero che è un'usanza che se ne va». Giovanni Verga da «La coda del diavolo».

    Nel 2013 le 'ntuppatedde sono tornate ... a modo loro! Sarebbe stato meglio evitare: http://catania.livesicilia.it/wp-content/uploads/2013/02/ntuppatedde1.jpg

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