«C'è sempre un di più d'indugio, un edonismo fonico-lessicale
in questa, come in ogni scrittura così densa»
Cesare Segre, La costruzione a chiocciola,
in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento,
Torino, Einaudi, 1991, p. 85
A metà febbraio Orazio, praticamente non conoscendomi se non tramite i miei post di Facebook, mi inviò un messaggio col quale mi chiedeva di presentare questa sua raccolta di racconti il giorno in cui sarebbe ufficialmente uscita in tutta Italia, cioè il 16 marzo (per LiberAria). Ringraziai Orazio della fiducia che mi manifestava. E accettai innanzitutto perché nutro un debole nei confronti delle persone che risultano garbate senza essere affettate (e Orazio Labbate è uomo garbato per natura). Poi perché sapevo che aveva già pubblicato «Lo scuru» e «Piccola enciclopedia dei mostri e delle creature fantastiche» (del primo avevo letto parecchie recensioni. Una, in particolare, era stata scritta da Domenico Calcaterra che aveva presentato peraltro «Lo scuru» a Messina insieme all'autore). Infine - devo ammetterlo - poiché ero a conoscenza dell'amicizia che lega Orazio ad Antonio Moresco (sono all'antica. E le referenze per me hanno una certa importanza, sebbene vadano sempre verificate).
Ho iniziato a leggere prima «Lo scuru». E sono rimasto bene impressionato dall'incipit. L'architettura della pagina, la luminosa atmosfera, il nitore dell'eloquio: tutto mi appariva perfetto. Ma di lì a poco alla luce si è sostituito il buio. Ho proseguito la lettura con una certa fatica (ho dovuto addirittura leggere il romanzo due volte): la lingua - quella griglia che saussurianamente incorpora in un sol colpo il magma informe del pensabile e tutta la materia fonica fino ad allora confusa e indistinta - andava complicandosi sia lessicalmente (con l'ulteriore aggravante dell'uso di uno sperimentalistico code switching oscillante tra italiano e dialetto) che morfosintatticamente e retoricamente. Fra una lettura e l'altra de «Lo scuru» ho inserito quella di «Stelle ossee» che mi ha alleggerito il compito. Ho ricevuto l'impressione che il percorso di Orazio Labbate vada al momento seguito tappa per tappa poiché Orazio è uno scrittore "adolescente" e in formazione. Ed è anche uno scrittore siciliano dotato, però, di un retroterra nutrito di numerosissime letture (afferenti soprattutto al southern gothic) e di tanto cinema d'autore. Mentre leggevo i suoi scritti, mi chiedevo che cosa potrebbe venirne fuori tra qualche anno: come sarà l'Orazio maturo? Ma torno alla lingua. Sottolineo fin d'ora che mi risulta impossibile esprimere le mie riflessioni, per i motivi già espressi, scindendo «Lo scuru» da «Stelle ossee».
Le recensioni che ho letto su «Lo scuru» dicono che Labbate si pone linguisticamente sulla stessa linea di alcuni grandi scrittori siciliani, fra cui Vincenzo Consolo. Leggendo simili affermazioni, ho pensato a questo passo tratto da «Il sorriso dell'ignoto marinaio» (operazione metodologica istintiva e dunque non scientifica), per quanto in esso non appaiano elementi dialettali. Ma l'atmosfera da barocco trionfo della morte che v'è trasfusa m'ha fatto pensare pure a certi dettagli di «Stelle ossee»: «Oltre i lumi, nell'ombra del soffitto e delle mura, precipitare di teschi digrignanti, voli di tibie in croce, guizzare di scheletri da sotto lastre, sorgere da arche, avelli, scivolare da loculi, angeli in diagonale con ali di membrana che soffiano le trombe».
Se ho pensato a questo passo, l'ho fatto in verità per opposizione: nulla esiste di più lontano dalla lingua di Orazio, che non mi sembra talmente barocca né quando si presenta come lingua quasi interamente italiana (quella che domina in «Stelle ossee»), né quando assume la forma di codice mistilingue, come ne «Lo scuru». Qualcuno potrebbe dirmi che è ovvio: Labbate s'ispira al gotico americano, non a certo lugubre barocco polveroso di casa nostra. È vero. Però «Lo scuru», prima ancora di essere imbevuto del gotico americano, gronda di superstizione popolare e di religione magica dell'entroterra siculo, di dettagli geo-toponomastici anch'essi siculi, di personaggi che talvolta appartengono all'infanzia e ai ricordi di Orazio (e quindi siciliani). Ridimensionerei, almeno per «Lo scuru», il portato degli americani e considererei molto più rilevante quello dell'autobiografico humus buterese, e dunque siciliano, dell'autore.
A conferma di tale convinzione, del resto, credo di potere affermare che il codice mistilingue di Orazio sia il risultato della (a volte mera) giustapposizione di parole italiane e siciliane. Dunque è un codice ancora acerbo, spontaneo, quasi meccanico, poco o per nulla filtrato attraverso una rete a fittissime maglie quale quella che usavano Consolo, Bufalino, ecc. Mi sembra di non avere ravvisato neanche significativi tentativi di adattare morfologicamente le parole siciliane all'italiano. Forse più diffusa è la tendenza al calco di espressioni dialettali o comunque popolari: «Non gli uscivano le lacrime dagli occhi», esempio che, peraltro, traggo volutamente non da «Lo scuru», ma da «Stelle ossee», dove il codice mistilingue viene ridotto al minimo - se si eccettua l'uso massiccio che se ne fa in «La Madonna verde». E non può essere un caso: Orazio - dicevo - è uno scrittore ancora "adolescente". E in «Stelle ossee» mi sembra che fatichi ad affrancarsi dal proprio ethos siciliano. Al punto che, quando prova a farlo, lo fa scegliendo la via più agevole e meno rischiosa: parte dalla morfologia. Cioè dalla forma linguistica. Altri dettagli (la sostituzione dell'indicativo al congiuntivo anche in dipendenza dei verbi di pensiero o di opinione e un caso di plateale concordanza a senso) non mi sembrano rilevanti. In ogni caso quella di Orazio è una lingua molto originale.
Il codice mistilingue ricompare, e pure questo non mi sembra casuale, a partire dal quartultimo racconto di «Stelle ossee», quando cioè si risveglia la natura siciliana dei personaggi e delle situazioni. Insomma, ammesso che sia vero che Orazio cerchi di fondere la letteratura gotica americana con la tradizione siciliana (come da più parti si dice), personalmente credo che tale esperimento non potrà essere da lui reiterato a lungo. Ne «Lo scuru» prevale l'ethos dello scrittore siciliano. E prevale a tal punto che l'uso del dialetto è ancora plateale e non dissimulato. In «Stelle ossee» prevale l'italiano (fisiologicamente lingua della traduzione dall'americano) perché la maggioranza dei racconti è volutamente ispirata al southern gothic a partire dall'ambientazione. Quando compare il dialetto, anche l'ambientazione e i personaggi ridiventano siculi. E allora «La Madonna verde», che è pure il più lungo di tutti i racconti (quasi un romanzo brevissimo che non mi stupirebbe se un giorno venisse ampliato)? Mi si può obiettare infatti che in esso la geografia è americana e la lingua è spesso sicula. È vero. Ma in questo racconto di gotico, di mortuario, di cimiteriale, di luttuoso, non v'è nulla, a differenza di quanto avviene in tutti gli altri e ne «Lo scuru». E il racconto stesso - del resto abbastanza gradevole - sembra potere essere sottoposto a una lettura "sociale", come molta della letteratura e tanto di quel cinema che trattano l'emigrazione di tanti siciliani verso gli Stati Uniti, all'epoca in cui partivano i bastimenti e si fermavano innanzitutto ad Ellis Island. Peraltro la genuinità usata da Labbate nell'uso di un idioma siciliano verace ha portato Roberto Sottile ad analizzare «Lo scuru» e a menzionarlo quasi sistematicamente nel suo «Le parole del tempo perduto ritrovate tra le pagine di Camilleri, Sciascia, Consolo e molti altri» (Navarra Editore, novembre 2016): un ottimo traguardo.
Da «Sacrificio» di Andrej Tarkovskij (1986) |
Ma un oggetto ha attratto particolarmente la mia attenzione: l'orologio. Riporto uno scambio di battute tratto dal racconto «Buio sotto il letto»:
« - Questa terra non è stata costruita da un orologiaio, convieni figlio mio?
- Sì madre, ma io percepisco meccanismi delicati attorno a me, i secondi procedono quando arriva un altro giorno, le ore scadono condannando quest'omicidio buio all'inconsumazione: io invecchio e non c'è cosa più certa, nella mia intelligenza, che essere succube di un mostro orologiaio».
Dettaglio... |
Nell'estate del 2012 decisi di aprire i piccoli sportelli laterali del suo involucro ligneo. Mi trovai così proiettato in un universo di catene, viti, pioli, ruote dentate, rotelle di tutte le misure, martelletti dalla testina morbida. La tentazione di smontarlo fu irresistibile. Riuscii a liberare il meccanismo dalla sua carcassa lignea, così da potermelo studiare in pace dopo averlo posato su un tavolo. Quando, tremando come una foglia, rimontai tutto, il mio «Tempus fugit» si mosse: il pendolo ricominciò ad oscillare, le lancette (appena tornate al loro posto) iniziarono a ruotare, i martelletti riprodussero ciascuno il proprio tono urtando contro le piccole assi metalliche deputate a produrre i suoni (sebbene in modo attutito, cosa che mi portò a smontare i martelletti stessi uno per uno, a ripulirli e a rimontarli correggendone la posizione. Risultato: suoni vivi e brillanti anche più di prima).
Leggendo il racconto di Orazio, non solo mi è tornato in mente quanto appena narrato, ma pure una poesia tratta dall'«Antologia di Spoon River», cioè «Walter Simmons», dalla quale traggo alcuni versi che meritano di essere riletti qui: «Ma poi a ventun anni mi sposai / e dovevo vivere, e così, per vivere / imparai il mestiere dell’orologiaio / e avevo una gioielleria in piazza, / e pensavo, pensavo, pensavo, pensavo, / non agli affari, ma alla macchina / che progettavo di costruire. / E tutta Spoon River aspettava impaziente / di vederla in funzione, ma non funzionò mai. / E qualche anima buona pensò che il mio genio / fosse in qualche modo impedito dal negozio. / Non era vero. La verità era questa: / non ero un genio».
Tessendo questa mia rete di associazioni (ho detto fin dall'inizio che mi è ormai difficile scrivere recensioni canoniche e ne ho spiegato il motivo) sono giunto all'ovvia conclusione che l'orologio, al di là della sua funzione innocentemente pratica, è un oggetto terribilmente legato alla materialità del male. Ma vedo che chi lo manovra, chi lo mette in funzione, chi lo costruisce, è anche per Orazio Labbate un «mostro orologiaio»: un essere diabolico, cosa che altri del resto confermano. Anche in contesti completamente lontani da quelli di Labbate (cioè in contesti che nulla hanno da dividere con la letteratura gotica americana e la Sicilia) l'oggetto che scandisce il passare del tempo e batte le ore diventa il simbolo della materialità indifferente e spietata, se non di quella demoniaca. Per esempio, il notissimo teologo ortodosso Pavel Evdokimov, in «Teologia della bellezza» (Roma, 1981, p. 38, nota n. 5), ricorda che, ne «La mite», Dostoevskij «ci pone davanti il contrasto insopportabile tra l'infinito della sofferenza e l'indifferenza del tempo: Uomini, amatevi gli uni gli altri, chi ha detto questo? Il pendolo batte, insensibile, con una monotonia ripugnante». Aggiunge che «in "Delitto e castigo" appare il fantasma della donna assassinata da Svidrigàjlov e gli ricorda "che ha dimenticato di ricaricare l'orologio"». Ma la citazione più bella è quella seguente. Evdokimov aggiunge infatti: «Si può fermare l'orologio ma non il tempo, che si dirige implacabilmente verso il Giudizio. Il tempo fermato è l'immagine più terribile. Kierkegaard descrive il ridestarsi di un peccatore agli inferi: "Che ora è?", esclama, e con una indifferenza glaciale Satana gli risponde: "L'eternità"». E a tale aneddoto mi sembra chiaro che si richiami il poeta Osip Mandel'štam in una sua poesia del 1912, nella quale narra gli ultimi giorni di Konstantin Batjuškov. Quest'ultimo era il poeta che, ormai impazzito, era solito chiedere a se stesso: «Che ora è?». E rispondersi: «Quella eterna» (dal che deduciamo che anche la mania di Gigi Marzullo di chiedere ai suoi ospiti di farsi una domanda e darsi una risposta ha un'origine perversamente diabolica!). Lo ricorda pure Marina Cvetaeva nel suo saggio «Il poeta e il tempo».
Mi sono lasciato prendere la mano da troppe associazioni (ed anche da qualcosa di personale) e me ne scuso in particolare con Orazio Labbate (se mai mi leggerà). Ma voglio concludere questo mio folle testo, augurando ad Orazio di proseguire con successo sulla strada intrapresa, non mancando però di calibrare fin d'ora la propria scrittura. La sera della presentazione gli dissi che vorrei adesso leggere un Labbate più luminoso. Mi rispose che ritiene di non avere ancora esaurito del tutto il potenziale oscuro di cui sono pregni il suo mondo e la sua formazione. Bene: è giusto e legittimo il fatto che si prenda tutto il tempo che gli serve. Continuerò attentamente a seguire i suoi passi, aspettando nel contempo anche il suo «Fiat lux».
Ivo Flavio Abela
P.S. L'uscita ufficiale di «Stelle ossee« è stata celebrata presso la Libreria di Felicia Randazzo e Roberto Furnari, ai quali vanno i ringraziamenti più sinceri non solo per la realizzazione dell'evento, ma anche per l'attenzione costante e instancabile da loro rivolta alla promozione della lettura e alla mai smorzata diffusione di elevati prodotti culturali.
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