sabato 3 giugno 2017

Studio n. 2 su «La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia

«Ma la mezza luna abbraccia la croce. 
Tra i banchi bruciati e tra i cespugli 
come fratelli vagano Maometto e Cristo 
raccogliendo dei bambini i pezzi»

Evgenij Evtušenko da «La scuola di Beslan»


Il titolo del presente testo allude al fatto che su questo blog è già stata pubblicata una sorta di parziale recensione de «La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia, scritta più col cuore e di getto (la si può leggere cliccando qui: http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2017/04/familiarizzarsi-con-la-morte-la.html). Quanto segue, invece, avrebbe dovuto costituire la recensione scritta più scientificamente e - come si suol dire - col cervello. Ma ne è venuto fuori più uno studio corredato di approfondimenti che una recensione vera e propria. Così è nata l'idea di scegliere un titolo che implicasse il concetto proprio di "studio" e, nel contempo, indicasse che il presente testo è frutto di un secondo approccio al nuovo libro di Fabrizio Coscia. Naturalmente gli aspetti più sentimentali (uso la parola in accezione positiva e non deteriore) sono evidenziati nella prima recensione e non qui. Sarebbe superfluo ricordare che i miei due testi vanno considerati complementari.


È il 1° settembre 2004. Presso la Scuola Elementare Numero 1 di Beslan, in Ossezia del Nord, si celebra il Giorno della Conoscenza. Ma trentadue terroristi fanno irruzione nella scuola: vogliono il riconoscimento dell'indipendenza della Cecenia. Trattengono come ostaggi milleduecento persone (alunni, parenti, insegnanti, personale). A Leonid Rošal, pediatra e attivista per i diritti umani, viene chiesto di trovare un accordo con i terroristi. Ha già provato a farlo in occasione di un analogo attacco contro il teatro moscovita Dubrovka.

Così inizia «La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia (Melville Edizioni, 2017): con una discesa agli Inferi, dai quali l'autore proverà gradualmente a riemergere, armato della forza che solo la bellezza insita nella Letteratura e nell'Arte può infondere. E riemergerà portando con sé l'Uomo: lo condurrà per mano verso quella stessa luce che permea di sé il finale dei Karamazov e quello del tolstojano «Resurrezione», quando tutto si ricompone nel miracolo del binomio indissolubile di Vita e Narrazione. Come il precedente «Soli eravamo» (qui una mia recensione: http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2015/07/soli-eravamo-di-fabrizio-coscia.html), anche «La bellezza che resta» è un testo la cui duttilità è in grado di innescare nella mente del lettore numerose associazioni, sebbene il nuovo libro di Coscia sia dotato di una struttura - anche a livello isotopico - più rigida e condizionata dai motivi che graniticamente percorrono tutto il testo: la morte del padre, Tolstoj e il suo «Chadži-Murat».

È dunque naturale che la mia mente sia subito corsa a quanto Gennaro Sangiuliano narra nel suo «Putin. Vita di uno zar» (Mondadori) alle pagine 227-233, a proposito proprio dell'attentato terroristico contro il teatro Dubrovka. Qui, nel 2002, mentre si dava «Nord-Est», cioè «il primo musical in stile occidentale prodotto in Russia» e tratto dal romanzo di Veniamin Kaverin «I due capitani» (1939), una trentina di terroristi in nero e armati anche di cinture esplosive (tra cui alcune donne) fecero irruzione, pronti a sacrificarsi per la causa dell'indipendenza cecena. Dopo quasi tre giorni di stenti per gli ostaggi, Putin diede l'ordine di innescare un blitz che prevedeva l'introduzione in teatro, attraverso i tubi dell'impianto di condizionamento dell'aria, di un gas la cui natura non venne subito resa nota. Si sarebbe poi scoperto che si trattava del Fentanyl, un terribile oppioide prodotto in laboratorio. Il bilancio fu tragico: oltre ai terroristi, morirono centoventinove ostaggi. Se ne salvarono più di seicento, ma quelli uccisi rimasero una macchia mai cancellata dalla trama della politica dello zar del III millennio. Eppure il massacro di Beslan, da cui non a caso Coscia parte, ha lasciato una ferita ancora più bruciante: ha dimostrato quanto grande e rovinoso sia il potere del male, se arriva a colpire bambini cui s'impedisce pure di sfogare la paura col pianto: «E mi tornarono in mente le parole di Ivan Karamazov sulla sofferenza dei bambini, nel suo dialogo con il fratello Alëša, nel capolavoro di Fëdor Dostoevskij, quando dice che né l'armonia eterna, né l'acquisto della verità possono valere il prezzo delle lacrime di un solo bambino torturato» afferma Coscia alla pagina 14, individuando peraltro nella notizia relativa al massacro di Beslan un punto di svolta per la propria vita di uomo; «E non abbiamo oggi scusa alcuna | se sulla terra tutto questo accade» sembra rispondergli il poeta che sto per citare e che ho recuperato dalla mia memoria a lungo termine insieme al racconto di Gennaro Sangiuliano.

Il grande Evgenij Entušenko
di cui è stata scelta volutamente
una foto che lo ritrae col sorriso
Evgenij Evtušenko, uno dei più interessanti poeti della Russia degli ultimi decenni insieme ad Arsenij Tarkovskij, il 9 settembre 2004 scriveva infatti «La scuola di Beslan», una poesia in diciassette strofe tramite cui versava il suo pianto di uomo che, pur non avendo mai finito di frequentare canonicamente alcuna scuola, s'inginocchiava davanti a quella di Beslan per imparare il dolore, per osservare i fratelli Cristo e Maometto mentre vagavano tra i banchi bruciati, raccogliendo pezzi di bambini. Evtušenko è morto il 1° aprile 2017, proprio mentre tenevo tra le mani «La bellezza che resta». Ne avevo iniziato la lettura il 25 marzo. Quella morte fu per me la forma concreta, il segno, la prova della sovrapposizione fra la mia vita di lettore (di Coscia nella fattispecie), di estimatore di Evtušenko, di "figlio" addolorato per la morte di quest'ultimo: dissi a me stesso che è vero che la Letteratura è un «potenziamento della vita stessa» e non un mero «rifugio da essa», esattamente come Fabrizio afferma alla pagina 24 del suo libro.


Ma la sovrapposizione fra Vita e Letteratura doveva essere ulteriormente riconfermata perché Fabrizio cita alla pagina 14 proprio Evtušenko ed un suo articolo apparso su «Repubblica», in cui il poeta afferma: «Se il presidente Eltsin avesse letto "Chadži-Murat" di Tolstoj, è assai improbabile che si sarebbe imbarcato in un conflitto coi ceceni». «Chadži-Murat» era stato pubblicato postumo. Narrava eventi vissuti anche dallo stesso Lev che, nell'aprile del 1851, era partito per il Caucaso, dov'era in corso da ben trentaquattro anni la guerra che la Russia portava avanti per sottrarre alle popolazioni locali il territorio. Il protagonista è un uomo che, pur macchiandosi di tradimento (ma in nome della difesa della propria famiglia), ha per Coscia caratteristiche eccezionali tali da incarnare in se stesso, fondendoli, gli eroi omerici Achille e Odisseo. Singolare risulta il fatto che quest'opera sia stata scritta da Tolstoj quando già agiva in lui quella sorta di "moralizzazione" che l'aveva quasi condotto a sconfessare tutta la sua produzione precedente, cioè quel rigetto dell'arte a proposito del quale Marina Cvetaeva avrebbe scritto: «Nell'appello di Tolstoj: sopprimere l'arte! - sono importanti le labbra che lo lanciano: se non fosse venuto da una così vertiginosa altezza artistica, se non fosse stato chiunque altro di noi a chiamarci, non ci saremmo neanche voltati. Nella crociata di Tolstoj contro l'arte l'importante è Tolstoj: l'artista [...] Quale predica di povertà è più convincente, è cioè più micidiale per la ricchezza: quella di un povero da sempre, o quella di un ricco apostata? La seconda, evidentemente. Lo stesso esempio vale per Tolstoj. Quale condanna dell'arte pura è più convincente (più micidiale per l'arte): quella di un tolstojano, che in arte è nessuno, o quella dello stesso Tolstoj, che in arte è tutto?» (Marina Cvetaeva, «Il poeta e il tempo», Adelphi, pp. 84-85).

Ciò che però più importa al momento è il fatto che «Chadži-Murat» fu scritto da Tolstoj durante i suoi ultimi giorni di vita. Ed è proprio da tale considerazione che il libro di Coscia si snoda attraverso l'analisi di opere che furono tutte opere ultime. «C'è una creatività che si fa vita pulsante, estasi di libertà nel seno stesso della morte» afferma Fabrizio alla pagina 99, alludendo anche al passo del «Fedone» di Platone in cui si spiega che i cigni cantano meglio del solito quando sentono che la morte si appressa, poiché sono felici all'idea che presto godranno delle gioie e dei beni a loro riservati (in quanto sacri ad Apollo) nell'Ade.

Pierre-Auguste Renoir
«Le bagnanti» (1818-1819)
Parigi, Museo d'Orsay
Ed ecco che Pierre-Auguste Renoir dipinge, fra il 1918 e il 1919, nel corso degli ultimi suoi giorni di vita, «Le bagnanti». Lo fa nel giardino pieno di ulivi della sua villa delle Collettes, dimora da lui acquistata a Cagnes-sur-Mer, nel sud della Francia. Il soggetto non è nuovo per Renoir: già fra il 1884 e il 1887 il pittore lo ha trattato nel dipinto noto come «Le grandi bagnanti» (oggi al Museum of Art di Philadelphia). Ma «Le bagnanti» del 1918-19 ha qualcosa in più. Ne fu modella la sedicenne Andrée Heuschling che sarebbe diventata moglie di Jean Renoir, il figlio regista del pittore, e diva del cinema muto col nome di Catherine Hessling. La gioia provata tutte le mattine da Renoir, che giungeva addirittura a rimproverare la propria assistente in quanto gli medicava e fasciava le piaghe dovute all'artrite reumatoide troppo lentamente (differendo così, per il pittore, il piacere di rivedere tempestivamente Andrée), si opponeva con forza alle sofferenze causate dalla malattia e si alimentava della visione di quelle bianchissime, giunoniche e sensuali forme femminili: la carne muliebre (intesa non certo
Catherine Hessling
volgarmente, ma come riflesso della vita lucrezianamente panica che pervade il creato) riusciva a tenere in vita il pittore. E nel dipinto tutto è vita: la luce che sembra levigare (pur non ledendone la calda rotondità) i corpi delle due giovani donne, ma che pure da quei corpi promana (la Heuscling posò per entrambe le figure principali), la sensualità che essi sprigionano potentemente, la grazia un po' maliziosa delle pose, il trasparente sorriso di quella fra le due giovani protagoniste che insiste in posizione quasi frontale, i dettagli anatomici della ragazza di spalle sulla destra. Peraltro, rispetto all'analogo dipinto di trentacinque anni prima, l'impostazione è stilisticamente rinascimentale (non si può non pensare ad artisti nostrani, in particolare a Tiziano Vecellio e ai suoi nudi). Allora ci spieghiamo anche come mai Fabrizio abbia tratto il titolo del suo libro dalla risposta che Renoir diede ad Henri Matisse, quando quest'ultimo gli chiese perché, nonostante le sofferenze provocategli dalla malattia, Renoir continuasse a dipingere quel quadro: «Perché il dolore passa, ma la bellezza resta». Ed è singolare il fatto che tale titolo finisca per suonare pure dostoevskijano.

Del resto sembra che anche Leopardi avesse concesso a se stesso la possibilità di assaporare maggiormente la vita proprio quando essa stava ormai volgendo al termine: aveva preso l'abitudine di passeggiare lungo le vie di Napoli, di respirarne l'aria a pieni polmoni, di ingurgitare avidamente gelati, seduto per ore al tavolino del caffè. Intanto scriveva i suoi ultimi, meravigliosi canti (con scorno - direi - di Patrizia Valduga che, un giorno molto lontano del giugno 2013, avrebbe manifestato tutta la sua sconsideratezza, affermando che il recanatese non fu un poeta). I turbamenti e i movimenti interiori del «giovane favoloso» nei suoi ultimi giorni sono illustrati con singolare efficacia da Fabrizio alle pagine 43-47, aspirando a buona ragione a fare da contraltare interamente verbale alle scene dell'ormai celebre film di Martone.

Tra le pagine più belle de «La bellezza che resta» si pongono quelle dedicate da Coscia a Sigmund Freud. Il 4 giugno 1938 egli lasciò la sua abitazione, situata nel nono distretto di Vienna, e salì sull'Orient-Express insieme alla moglie Martha, alla figlia Anna (che il 22 marzo era stata portata all'Hotel Metropole, dove aveva sede il quartier generale della Gestapo, v'era stata interrogata per presunte attività illecite e subito rilasciata), la domestica Paula, la dottoressa Stross e la cagnetta Lün. Dopo l'arrivo e il pernottamento a Parigi, attraversò la Manica e andò a stabilirsi a Londra, dove trascorse l'ultimo anno e mezzo della propria vita tra onori e terribili sofferenze dovute al cancro mandibolare e alla diffusione delle metastasi che gli corrodevano il viso fino alla base dell'occhio. E proprio in tali circostanze, in quei giorni estremi, egli decise di porre mano a una sorta di romanzo storico relativo a Mosè (ne sarebbe venuto fuori «L'uomo Mosè e il monoteismo», costituito da tre saggi), in cui Freud riprende una tesi secondo la quale Mosè non era ebreo, ma un egiziano vissuto alla corte di Amenofi IV, il faraone che instaurò il monoteismo del dio Atòn. Mosè si sarebbe impadronito di tale religione monoteistica e avrebbe dunque spinto gli Ebrei a ribellarsi agli Egiziani. Ma gli Ebrei non sarebbero stati disposti a tollerare a lungo il rigore di Mosè e lo avrebbero ucciso, dandosi alla venerazione di altri idoli. Col tempo essi avrebbero quindi cercato di cancellare la memoria dell'omicidio di Mosè. Ma, una volta abbracciato il credo di una tribù beduina del Madian dedita a Yahvé, gli Ebrei avrebbero pure cercato di liberarsi del senso di colpa per quell'omicidio. La soluzione sarebbe stata un altro omicidio: quello di Cristo. Tra le righe Coscia sembra stemperare (questa è la mia impressione) l'idea della singolarità insita nella coincidenza fra l'opera sul monoteismo mosaico, scritta da Freud alla fine della propria vita (peraltro col recupero del senso di «Totem e tabù»), e il fatto che tema di fondo ne sia l'uccisione del padre (Mosè è "padre" degli Ebrei), quasi l'ultima opera di Freud fosse inconsciamente stata concepita come un tentativo di compiere un estremo atto di omaggio nei confronti appunto del proprio padre e di espiare, così, il parricidio, secondo il meccanismo che regola il funzionamento delle nevrosi: quel meccanismo che lo stesso Freud aveva teorizzato e che prevede talora, in età matura, il recupero di quelle stesse pulsioni di cui la nevrosi è figlia.

La statua michelangiolesca di Mosè
Roma, Chiesa di San Pietro in Vincoli
Leggendo il Freud di Coscia, ci s'imbatte anche ne «Il Mosè di Michelangelo», saggio scritto da Freud alcuni anni prima de «L'uomo Mosè e il monoteismo», a testimonianza di quanto la figura del presunto egizio costituisse una sorta di fissazione per Freud stesso. Fabrizio Coscia non me ne vorrà se mi permetto di aggiungere occasionalmente alcuni dati a quanto da lui scritto, ma come il precedente «Soli eravamo», anche «La bellezza che resta» ha avuto il potere - sebbene in modo più contenuto - di coinvolgermi a tal punto da volere quasi rendermi partecipe della scrittura stessa di Coscia. «Il Mosè di Michelangelo» fu scritto in occasione di un soggiorno romano compiuto da Freud forse in seguito a dissapori con alcuni allievi (fra cui Adler e Steckel). Tutte le mattine lo psicoanalista si recava nella chiesa di San Pietro in Vincoli per ammirare ciò che Michelangelo aveva portato a compimento di quello che, nel progetto originario ideato insieme al papa Giulio II (Giuliano Della Rovere) a partire dal 1505, sarebbe dovuto essere un arditissimo monumento funerario di base quadrata, a tre piani e dotato di ben quaranta statue in marmo di Carrara. Tale monumento avrebbe dovuto eternare la memoria dello stesso pontefice, permettendone la conservazione delle spoglie in un tale, grandioso mausoleo collocato a sua volta all'interno della Basilica di San Pietro, la cui nuova fabbrica (che avrebbe portato il tempio per eccellenza della cristianità cattolica ad assumere l'aspetto oggi noto) si doveva appunto all'iniziativa dei Della Rovere. Di ciò che rimane del progetto è parte la statua del Mosè, il cui viso avrebbe i tratti di Giulio II. Tutti i giorni Freud si recava a studiarla, convinto del fatto che anche alle opere d'arte raffiguranti esseri umani potessero essere applicate le strategie analitiche che egli usava per il comportamento dell'uomo. Colpivano Freud la posa, i dettagli mimici, l'espressione facciale di Mosè: tutti elementi che lasciavano intendere il fatto che Mosè fosse stato raffigurato nel momento in cui, quasi fuori di sé a causa dell'ira
Schema ricostruttivo dei movimenti che - in teoria - Mosè
avrebbe compiuto per assumere la posizione finale
in cui è stato eternato da Michelangelo
provata alla scoperta della realizzazione da parte del suo popolo del vitello d'oro, cerca di contenersi e di esercitare il proprio autocontrollo, forse temendo che una reazione esagerata potesse non tanto riportare a sé gli Ebrei apostati, quanto allontanarli ulteriormente. Non ci sorprende dunque il fatto che Freud torni, dopo quasi venticinque anni, ad occuparsi di un padre talmente autorevole e autoritario tanto per sé, quanto per il popolo che si avviava a patire il dramma della Shoah (discorso peraltro affrontato da Coscia alle pagine 84-85. Per completezza informativa, aggiungo che probabilmente da un blocco di marmo destinato al mausoleo di Giulio II fu scolpita da Michelangelo - e poi presa a martellate - la cosiddetta Pietà Bandini, fra il 1547 e il 1555. Il Buonarroti forse avrebbe voluto realizzarla per la propria tomba subito dopo la morte di Vittoria Colonna. Al viso di Nicodemo lo scultore pare avesse attribuito le proprie fattezze).

Il volto di Nicodemo nella michelangiolesca Pietà Bandini

Se non avessi timore di portare alle estreme conseguenze il pensiero di Coscia, se non avessi paura di rendere un pessimo servizio alla Filologia rischiando di forzare l'interpretazione del magnifico «La bellezza che resta», se dovessi non contravvenire al monito di Umberto Eco il quale (in uno dei saggi confluiti nella raccolta «Sulla letteratura») affermò che la Letteratura stessa ci insegna a rispettare la volontà dell'autore, senza macchiarci di quella disonestà intellettuale che talvolta diventa effetto collaterale di un'ermeneusi fantasiosa, troppo spinta ed esageratamente libera, oserei un'ulteriore associazione. Ma compio ugualmente l'azzardo («absit iniuria verbis»). Alla pagina 56, concludendo il suo discorso su Freud, Coscia ci ricorda che le azioni compiute dallo psicoanalista negli ultimi giorni della sua vita sembrerebbero ispirate al desiderio di acquisire familiarità con la morte. E l'afferma tanto sulla base dell'analisi che Freud aveva compiuto di «Re Lear» in un saggio del 1913 («Il motivo della scelta degli scrigni»), quanto in nome delle parole usate da Martin Lutero nel «Sermone sulla preparazione della morte» («dovremmo familiarizzarci con la nostra morte durante la nostra vita»). Dice Coscia che bisogna farsi trovare pronti dalla morte «come i servi della parabola evangelica che attendono il ritorno del padrone svegli, "con la cintura ai fianchi e le lucerne accese"». Poi, alla pagina 77, Coscia cita i passi di «Chadži-Murat» riguardanti il ferimento e la morte del soldato russo Andèev, il quale per due volte dice a un commilitone: «Dammi la candela. Devo cominciare a morire». Aggiunge Coscia: «Come se morire richiedesse un lavoro, uno sforzo, una concentrazione. E come se richiedesse un po' di luce, per illuminare ciò che non può essere illuminato». La mia mente corre subito alla scena finale di «Nostalghia» di Andrej Tarkovskij (1983). In essa il poeta Andrej Gončakov deve compiere una sorta di rito salvifico per conto di Domenico (un uomo prima ritenuto folle poiché per sette anni si era chiuso in casa con la sua famiglia attendendo la fine del mondo, poi morto suicida appiccandosi il fuoco): attraversare la piscina termale di Bagno Vignoni con una candela accesa in mano senza farla spegnere. Dopo i primi due tentativi falliti, Gončakov riesce a compiere quella sorta di rito, ma viene colto da un attacco cardiaco. Forse mai il senso della morte fu trattato con tale poesia, ma pure rendendo palpabile (se devo usare le parole di Coscia) il lavoro, lo sforzo, la concentrazione necessari al morire e generati anche dallo sforzo di tenere la luce accesa attendendo il «ritorno del padrone». So del resto che Coscia è un estimatore di Andrej Tarkovskij (più volte ci siamo scambiati pareri su mia adorata lettura: quella di «Martirologio», cioè dei diarî del regista).

L'eccellente Oleg Jankovskij nella piscina di Bagno Vignoni
(Andrej Gončakov in «Nostalghia»)

Un bellissimo, quasi elegiaco, microtema che percorre «La bellezza che resta» è quello del canto degli usignoli che fa spesso da sfondo acustico alle situazioni di cui la morte sta per diventare protagonista. Coscia lo ritrova nel più volte citato «Chadži-Murat», nell'«Ode a un usignolo» di John Keats, ma anche nell'incipit di «Edipo a Colono» di Sofocle, tragedia che ne «La bellezza che resta» viene interpretata alla luce di quella stessa necessità di acquisire familiarità con la morte, di cui resta traccia in quasi tutte le opere e gli autori citati da Coscia stesso. In questa specie di indefinibile testo che provo a scrivere lasciandomi trasportare - come già accennato - dalle mie personali associazioni, non posso fare a meno di dire che la citazione della tragedia sofoclea mi tocca profondamente in quanto essa è, insieme ad «Antigone» dello stesso autore, forse la tragedia che più amo tra quelle greche che ci sono pervenute. Ad essa lego peraltro un ricordo divenuto incancellabile anche a causa del carattere di straordinarietà assunto da una sua messa in scena alla quale assistetti qualche anno fa.

Al centro Giorgio Albertazzi nelle vesti di Edipo
«Edipo a Colono» di Sofocle
Teatro Geco di Siracusa, maggio-giugno 2009
Era il 26 maggio 2009. Mi trovavo al Teatro Greco di Siracusa e la tragedia sofoclea veniva messa in scena per iniziativa dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico. «Edipo a Colono» - come rilevato del resto da Coscia - fu scritta da un Sofocle vecchissimo e ha come protagonista un Edipo vecchissimo. Quella sera l'incolpevole e incestuoso parricida veniva interpretato da un vecchissimo (quasi ottantacinquenne), magnifico, superbo, miracoloso Giorgio Albertazzi, che ruggiva sulla scena come un leone (soprattutto nel colloquio con Polinice, figlio che Edipo malediceva come facevano quei padri che oggi - purtroppo - non esistono più perché hanno abdicato al loro ruolo, essendosi trasformati ciascuno in un Telemaco che, al pari dei propri figli, è rimasto immaturo. Ce ne ha parlato, in uno dei suoi purtroppo non numerosi momenti migliori, Massimo Recalcati). Ne venne fuori un trionfo della saggezza e della bellezza della vecchiaia, sulla quale pure la Moira più spietata decide di stendere il velo di una giusta misericordia e della serenità eternata dalla morte. Regista era il bravissimo Daniele Salvo che introdusse però due soluzioni drammaturgicamente spiazzanti: portò sulla scena le Erinni (sette esseri strani e inquietanti che si muovevano ostentando un tremore perturbante e minaccioso) e la morte stessa di Edipo (che, dopo essere stato condotto per mano da Teseo, si distese addormentandosi per sempre proprio fra le braccia delle Erinni). Nonostante l'evidente forzatura antifilologica, tale finale non mancò di risultare suggestivo.

«Edipo a Colono» di Sofocle (26 maggio 2009)
Insieme a Edipo e Antigone
Le sette Erinni
Volute in scena dal regista Daniele Salvo
Quando si legge «Edipo a Colono», la bellezza del testo, la lapidaria profondità (che sembra pure un ossimoro) di alcuni passi, la struggente debolezza del cieco Edipo che viene guidato e sorretto da Antigone (i due mi richiamano il vecchio Timur della pucciniana «Turandot» e la fedele e tenera Liù che l'ha accompagnato per amore di suo figlio Calaf), l'arrivo ad Atene, l'aura di sospensione in cui insiste il luogo sacro alle Eumenidi (che appunto sempre Erinni restano), il generoso - ma anche interessato - trasporto con cui Teseo si fa protettore del vecchio cieco, la delicatezza di Ismene, la volgare tracotanza di Creonte, il bruto interesse di Polinice, la morte (dovuta alla terra che s'è forse aperta ingoiando Edipo) che sopraggiunge come serenatrice, vera e propria "dea ex machina": tutto, proprio tutto appare miracolosamente perfetto in questa tragedia scritta da quel Sofocle, ormai prossimo alla morte, che parla di se stesso. Perché Edipo è Sofocle che torna al materno demo di Colono dov'era nato nel 496 a.C. E nella mia mente avvenne una singolare fusione: Sofocle-Edipo-Albertazzi. Per me oggi sia il vecchio Sofocle che il vecchio Edipo hanno i tratti del grande Giorgio, al punto che quando quest'ultimo morì (lo scorso anno), pensai che le Eumenidi fossero venute a prenderlo e lo avessero sepolto con il loro tenero, rispettoso, sacro abbraccio. Sono sicuro del fatto (e mi si perdoni la mia mancanza di modestia) che Fabrizio Coscia approverebbe ciò che ho appena affermato.

Il maestro Arturo Toscanini
Sofocle fece in tempo a concludere il suo capolavoro (anche se non lo vide sulla scena). Altri no. È il caso - ci racconta Coscia - di Johann Sebastian Bach (autore peraltro della «Suite per violoncello», sulle note della quale Ingmar Bergman inizia a far chiudere il suo celebre «Sussurri e grida» del 1972, mentre Ingrid Thulin e Liv Ullmann si scambiano effusioni da sorelle e la morte per tumore della terza si avvicina inesorabilmente). La «Fuga a tre soggetti» del compositore tedesco s'interrompe a metà della terza parte (stando alla testimonianza del figlio Carl Philipp Emanuel) a causa della sopraggiunta morte dell'autore. Ed io penso subito al 25 aprile 1926, quando andò per la prima volta in scena la già citata «Turandot» di Giacomo Puccini. Dirigeva Arturo Toscanini. Egli preferì non eseguire il finale dell'opera composto da Franco Alfano dopo la morte dello stesso Puccini. Subito dopo il triste coro che accompagna l'uscita dalla scena di Liù (che preferisce suicidarsi pur di non rivelare il nome del Principe Ignoto e la cui tenerezza - vale la pena ricordarlo - era particolarmente amata da Giacomo), Toscanini posò la bacchetta e, voltatosi verso il pubblico, disse: «Qui finisce l'opera, perché a questo punto il maestro è morto». Non si capirà mai se egli volesse non solo intendere che proprio lì l'opera s'interrompeva per la morte del compositore, ma pure alludere profeticamente alla morte del melodramma italiano di tradizione. E del resto voglio ricordare che anche il principe decabrista Sergej Volkonskij, parente di Tolstoj per parte di madre e fonte d'ispirazione per il personaggio del principe Andrej Bolkonskij di «Guerra e pace», morì mentre scriveva alcune sue memorie, dopo avere ricevuto il permesso di tornare a casa dalla Siberia. Ma v'è pure chi muore - e torno a Coscia - perché ha esaurito il proprio ruolo: «Una settimana dopo l'uscita del nuovo album, infatti, Gould morì, stroncato da un ictus [...] O è morto semplicemente perché dopo quell'ultimo disco aveva suonato tutto ciò che c'era da suonare» dice Fabrizio alla pagina 117. E ciò non può non ricordarmi il modo in cui Tolstoj giustifica la morte del generale Michail Illarionovič Goleniščev-Kutuzov, l'artefice - insieme a tutto il popolo russo - della vittoria su Napoleone Bonaparte: «Kutuzov non capiva che cosa volessero dire l'Europa, l'equilibrio, Napoleone. Non lo poteva capire. Al rappresentante del popolo russo ora che il nemico era stato distrutto, la Russia liberata e posta al massimo della gloria, al russo come russo non restava più nulla da fare. Al rappresentante della guerra nazionale non restava altro che la morte. Ed egli morì» (Lev Tolstoj, «Guerra e pace», Einaudi, 1955, II, 577).

Fra le tante personalità citate da Fabrizio Coscia (impossibile passarle tutte in rassegna), mi limito a ricordare ancora Kostantinos Petrou Kavafis e Tadeusz Kantor: il primo in quanto autore di «Miris-Alessandria, 340 d.C.», da cui viene fuori l'immagine di una morte che minaccia di rendere estraneo chi ci è caro, il secondo poiché fu interprete di un'idea di teatro che mi sembra ben riassunta in queste sue parole (traggo la citazione non da «La bellezza che resta», ma da «Il teatro zero» dello stesso Kantor): «La mia realizzazione di un teatro autonomo non è né l’esplicazione di un testo drammatico né la sua traduzione in linguaggio teatrale, ma molto più di un’interpretazione o un’attualizzazione. Non è la ricerca di un preteso equivalente scenico che assumerebbe il ruolo di un’azione parallela qualificata erroneamente come autonoma. Un obiettivo di questo genere è ai miei occhi una stilizzazione ingenua. Ciò che io creo è una realtà, un concorso di circostanze che non hanno con il dramma dei rapporti né logici né analogici né paralleli o inversi. Creo un campo di tensioni capaci di spezzare la superficie aneddotica del dramma». Il Kavafis e il Kantor di Coscia si fondono ai miei occhi perché entrambi ci restituiscono frammenti di arte dell'interpretazione (anche Kavafis: che cos'altro viene cantato in «Miris» se non la continua recita realizzata nella vita quotidiana da un cristiano che si è sempre comportato come un gaudente e rissoso pagano?). E del resto sono personalità che sembrano toccare profondamente l'animo dell'autore il quale in gioventù ha fatto parte di una compagnia teatrale. «Per questo a volte ho l'impressione di non aver mai smesso di recitare in quelle commedie, di continuare a prepararmi ogni sera, ancora come trent'anni fa, la mia camicia bianca con la pistagna, i pantaloni alla zuava, gli stivali, il berretto, la cintura di cuoio, stipati nel baule puzzolente di muffa; di sedermi sulla panchina del parco, con gli alberi dipinti alle pareti, di sentire il samovar bollire sul fuoco, di immaginare le stagioni passare tra un atto e l'altro, portandosi dietro anche i rimpianti» dice Coscia alla pagina 125. Riprende così le analoghe righe vergate alla pagina 25, ricreando quella formularità che contribuisce a dare un respiro epico a «La bellezza che resta» e lo assimila alla stessa atmosfera che permea di sé le vicende di Achille, di Odisseo e di Chadži-Murat.

Ivo Flavio Abela

P.S. Venerdì 9 giugno avrò l'onore di presentare «La bellezza che resta».


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