sabato 3 giugno 2017

Studio n. 2 su «La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia

«Ma la mezza luna abbraccia la croce. 
Tra i banchi bruciati e tra i cespugli 
come fratelli vagano Maometto e Cristo 
raccogliendo dei bambini i pezzi»

Evgenij Evtušenko da «La scuola di Beslan»


Il titolo del presente testo allude al fatto che su questo blog è già stata pubblicata una sorta di parziale recensione de «La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia, scritta più col cuore e di getto (la si può leggere cliccando qui: http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2017/04/familiarizzarsi-con-la-morte-la.html). Quanto segue, invece, avrebbe dovuto costituire la recensione scritta più scientificamente e - come si suol dire - col cervello. Ma ne è venuto fuori più uno studio corredato di approfondimenti che una recensione vera e propria. Così è nata l'idea di scegliere un titolo che implicasse il concetto proprio di "studio" e, nel contempo, indicasse che il presente testo è frutto di un secondo approccio al nuovo libro di Fabrizio Coscia. Naturalmente gli aspetti più sentimentali (uso la parola in accezione positiva e non deteriore) sono evidenziati nella prima recensione e non qui. Sarebbe superfluo ricordare che i miei due testi vanno considerati complementari.


È il 1° settembre 2004. Presso la Scuola Elementare Numero 1 di Beslan, in Ossezia del Nord, si celebra il Giorno della Conoscenza. Ma trentadue terroristi fanno irruzione nella scuola: vogliono il riconoscimento dell'indipendenza della Cecenia. Trattengono come ostaggi milleduecento persone (alunni, parenti, insegnanti, personale). A Leonid Rošal, pediatra e attivista per i diritti umani, viene chiesto di trovare un accordo con i terroristi. Ha già provato a farlo in occasione di un analogo attacco contro il teatro moscovita Dubrovka.

Così inizia «La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia (Melville Edizioni, 2017): con una discesa agli Inferi, dai quali l'autore proverà gradualmente a riemergere, armato della forza che solo la bellezza insita nella Letteratura e nell'Arte può infondere. E riemergerà portando con sé l'Uomo: lo condurrà per mano verso quella stessa luce che permea di sé il finale dei Karamazov e quello del tolstojano «Resurrezione», quando tutto si ricompone nel miracolo del binomio indissolubile di Vita e Narrazione. Come il precedente «Soli eravamo» (qui una mia recensione: http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2015/07/soli-eravamo-di-fabrizio-coscia.html), anche «La bellezza che resta» è un testo la cui duttilità è in grado di innescare nella mente del lettore numerose associazioni, sebbene il nuovo libro di Coscia sia dotato di una struttura - anche a livello isotopico - più rigida e condizionata dai motivi che graniticamente percorrono tutto il testo: la morte del padre, Tolstoj e il suo «Chadži-Murat».

È dunque naturale che la mia mente sia subito corsa a quanto Gennaro Sangiuliano narra nel suo «Putin. Vita di uno zar» (Mondadori) alle pagine 227-233, a proposito proprio dell'attentato terroristico contro il teatro Dubrovka. Qui, nel 2002, mentre si dava «Nord-Est», cioè «il primo musical in stile occidentale prodotto in Russia» e tratto dal romanzo di Veniamin Kaverin «I due capitani» (1939), una trentina di terroristi in nero e armati anche di cinture esplosive (tra cui alcune donne) fecero irruzione, pronti a sacrificarsi per la causa dell'indipendenza cecena. Dopo quasi tre giorni di stenti per gli ostaggi, Putin diede l'ordine di innescare un blitz che prevedeva l'introduzione in teatro, attraverso i tubi dell'impianto di condizionamento dell'aria, di un gas la cui natura non venne subito resa nota. Si sarebbe poi scoperto che si trattava del Fentanyl, un terribile oppioide prodotto in laboratorio. Il bilancio fu tragico: oltre ai terroristi, morirono centoventinove ostaggi. Se ne salvarono più di seicento, ma quelli uccisi rimasero una macchia mai cancellata dalla trama della politica dello zar del III millennio. Eppure il massacro di Beslan, da cui non a caso Coscia parte, ha lasciato una ferita ancora più bruciante: ha dimostrato quanto grande e rovinoso sia il potere del male, se arriva a colpire bambini cui s'impedisce pure di sfogare la paura col pianto: «E mi tornarono in mente le parole di Ivan Karamazov sulla sofferenza dei bambini, nel suo dialogo con il fratello Alëša, nel capolavoro di Fëdor Dostoevskij, quando dice che né l'armonia eterna, né l'acquisto della verità possono valere il prezzo delle lacrime di un solo bambino torturato» afferma Coscia alla pagina 14, individuando peraltro nella notizia relativa al massacro di Beslan un punto di svolta per la propria vita di uomo; «E non abbiamo oggi scusa alcuna | se sulla terra tutto questo accade» sembra rispondergli il poeta che sto per citare e che ho recuperato dalla mia memoria a lungo termine insieme al racconto di Gennaro Sangiuliano.

Il grande Evgenij Entušenko
di cui è stata scelta volutamente
una foto che lo ritrae col sorriso
Evgenij Evtušenko, uno dei più interessanti poeti della Russia degli ultimi decenni insieme ad Arsenij Tarkovskij, il 9 settembre 2004 scriveva infatti «La scuola di Beslan», una poesia in diciassette strofe tramite cui versava il suo pianto di uomo che, pur non avendo mai finito di frequentare canonicamente alcuna scuola, s'inginocchiava davanti a quella di Beslan per imparare il dolore, per osservare i fratelli Cristo e Maometto mentre vagavano tra i banchi bruciati, raccogliendo pezzi di bambini. Evtušenko è morto il 1° aprile 2017, proprio mentre tenevo tra le mani «La bellezza che resta». Ne avevo iniziato la lettura il 25 marzo. Quella morte fu per me la forma concreta, il segno, la prova della sovrapposizione fra la mia vita di lettore (di Coscia nella fattispecie), di estimatore di Evtušenko, di "figlio" addolorato per la morte di quest'ultimo: dissi a me stesso che è vero che la Letteratura è un «potenziamento della vita stessa» e non un mero «rifugio da essa», esattamente come Fabrizio afferma alla pagina 24 del suo libro.


Ma la sovrapposizione fra Vita e Letteratura doveva essere ulteriormente riconfermata perché Fabrizio cita alla pagina 14 proprio Evtušenko ed un suo articolo apparso su «Repubblica», in cui il poeta afferma: «Se il presidente Eltsin avesse letto "Chadži-Murat" di Tolstoj, è assai improbabile che si sarebbe imbarcato in un conflitto coi ceceni». «Chadži-Murat» era stato pubblicato postumo. Narrava eventi vissuti anche dallo stesso Lev che, nell'aprile del 1851, era partito per il Caucaso, dov'era in corso da ben trentaquattro anni la guerra che la Russia portava avanti per sottrarre alle popolazioni locali il territorio. Il protagonista è un uomo che, pur macchiandosi di tradimento (ma in nome della difesa della propria famiglia), ha per Coscia caratteristiche eccezionali tali da incarnare in se stesso, fondendoli, gli eroi omerici Achille e Odisseo. Singolare risulta il fatto che quest'opera sia stata scritta da Tolstoj quando già agiva in lui quella sorta di "moralizzazione" che l'aveva quasi condotto a sconfessare tutta la sua produzione precedente, cioè quel rigetto dell'arte a proposito del quale Marina Cvetaeva avrebbe scritto: «Nell'appello di Tolstoj: sopprimere l'arte! - sono importanti le labbra che lo lanciano: se non fosse venuto da una così vertiginosa altezza artistica, se non fosse stato chiunque altro di noi a chiamarci, non ci saremmo neanche voltati. Nella crociata di Tolstoj contro l'arte l'importante è Tolstoj: l'artista [...] Quale predica di povertà è più convincente, è cioè più micidiale per la ricchezza: quella di un povero da sempre, o quella di un ricco apostata? La seconda, evidentemente. Lo stesso esempio vale per Tolstoj. Quale condanna dell'arte pura è più convincente (più micidiale per l'arte): quella di un tolstojano, che in arte è nessuno, o quella dello stesso Tolstoj, che in arte è tutto?» (Marina Cvetaeva, «Il poeta e il tempo», Adelphi, pp. 84-85).

Ciò che però più importa al momento è il fatto che «Chadži-Murat» fu scritto da Tolstoj durante i suoi ultimi giorni di vita. Ed è proprio da tale considerazione che il libro di Coscia si snoda attraverso l'analisi di opere che furono tutte opere ultime. «C'è una creatività che si fa vita pulsante, estasi di libertà nel seno stesso della morte» afferma Fabrizio alla pagina 99, alludendo anche al passo del «Fedone» di Platone in cui si spiega che i cigni cantano meglio del solito quando sentono che la morte si appressa, poiché sono felici all'idea che presto godranno delle gioie e dei beni a loro riservati (in quanto sacri ad Apollo) nell'Ade.

Pierre-Auguste Renoir
«Le bagnanti» (1818-1819)
Parigi, Museo d'Orsay
Ed ecco che Pierre-Auguste Renoir dipinge, fra il 1918 e il 1919, nel corso degli ultimi suoi giorni di vita, «Le bagnanti». Lo fa nel giardino pieno di ulivi della sua villa delle Collettes, dimora da lui acquistata a Cagnes-sur-Mer, nel sud della Francia. Il soggetto non è nuovo per Renoir: già fra il 1884 e il 1887 il pittore lo ha trattato nel dipinto noto come «Le grandi bagnanti» (oggi al Museum of Art di Philadelphia). Ma «Le bagnanti» del 1918-19 ha qualcosa in più. Ne fu modella la sedicenne Andrée Heuschling che sarebbe diventata moglie di Jean Renoir, il figlio regista del pittore, e diva del cinema muto col nome di Catherine Hessling. La gioia provata tutte le mattine da Renoir, che giungeva addirittura a rimproverare la propria assistente in quanto gli medicava e fasciava le piaghe dovute all'artrite reumatoide troppo lentamente (differendo così, per il pittore, il piacere di rivedere tempestivamente Andrée), si opponeva con forza alle sofferenze causate dalla malattia e si alimentava della visione di quelle bianchissime, giunoniche e sensuali forme femminili: la carne muliebre (intesa non certo
Catherine Hessling
volgarmente, ma come riflesso della vita lucrezianamente panica che pervade il creato) riusciva a tenere in vita il pittore. E nel dipinto tutto è vita: la luce che sembra levigare (pur non ledendone la calda rotondità) i corpi delle due giovani donne, ma che pure da quei corpi promana (la Heuscling posò per entrambe le figure principali), la sensualità che essi sprigionano potentemente, la grazia un po' maliziosa delle pose, il trasparente sorriso di quella fra le due giovani protagoniste che insiste in posizione quasi frontale, i dettagli anatomici della ragazza di spalle sulla destra. Peraltro, rispetto all'analogo dipinto di trentacinque anni prima, l'impostazione è stilisticamente rinascimentale (non si può non pensare ad artisti nostrani, in particolare a Tiziano Vecellio e ai suoi nudi). Allora ci spieghiamo anche come mai Fabrizio abbia tratto il titolo del suo libro dalla risposta che Renoir diede ad Henri Matisse, quando quest'ultimo gli chiese perché, nonostante le sofferenze provocategli dalla malattia, Renoir continuasse a dipingere quel quadro: «Perché il dolore passa, ma la bellezza resta». Ed è singolare il fatto che tale titolo finisca per suonare pure dostoevskijano.

Del resto sembra che anche Leopardi avesse concesso a se stesso la possibilità di assaporare maggiormente la vita proprio quando essa stava ormai volgendo al termine: aveva preso l'abitudine di passeggiare lungo le vie di Napoli, di respirarne l'aria a pieni polmoni, di ingurgitare avidamente gelati, seduto per ore al tavolino del caffè. Intanto scriveva i suoi ultimi, meravigliosi canti (con scorno - direi - di Patrizia Valduga che, un giorno molto lontano del giugno 2013, avrebbe manifestato tutta la sua sconsideratezza, affermando che il recanatese non fu un poeta). I turbamenti e i movimenti interiori del «giovane favoloso» nei suoi ultimi giorni sono illustrati con singolare efficacia da Fabrizio alle pagine 43-47, aspirando a buona ragione a fare da contraltare interamente verbale alle scene dell'ormai celebre film di Martone.

Tra le pagine più belle de «La bellezza che resta» si pongono quelle dedicate da Coscia a Sigmund Freud. Il 4 giugno 1938 egli lasciò la sua abitazione, situata nel nono distretto di Vienna, e salì sull'Orient-Express insieme alla moglie Martha, alla figlia Anna (che il 22 marzo era stata portata all'Hotel Metropole, dove aveva sede il quartier generale della Gestapo, v'era stata interrogata per presunte attività illecite e subito rilasciata), la domestica Paula, la dottoressa Stross e la cagnetta Lün. Dopo l'arrivo e il pernottamento a Parigi, attraversò la Manica e andò a stabilirsi a Londra, dove trascorse l'ultimo anno e mezzo della propria vita tra onori e terribili sofferenze dovute al cancro mandibolare e alla diffusione delle metastasi che gli corrodevano il viso fino alla base dell'occhio. E proprio in tali circostanze, in quei giorni estremi, egli decise di porre mano a una sorta di romanzo storico relativo a Mosè (ne sarebbe venuto fuori «L'uomo Mosè e il monoteismo», costituito da tre saggi), in cui Freud riprende una tesi secondo la quale Mosè non era ebreo, ma un egiziano vissuto alla corte di Amenofi IV, il faraone che instaurò il monoteismo del dio Atòn. Mosè si sarebbe impadronito di tale religione monoteistica e avrebbe dunque spinto gli Ebrei a ribellarsi agli Egiziani. Ma gli Ebrei non sarebbero stati disposti a tollerare a lungo il rigore di Mosè e lo avrebbero ucciso, dandosi alla venerazione di altri idoli. Col tempo essi avrebbero quindi cercato di cancellare la memoria dell'omicidio di Mosè. Ma, una volta abbracciato il credo di una tribù beduina del Madian dedita a Yahvé, gli Ebrei avrebbero pure cercato di liberarsi del senso di colpa per quell'omicidio. La soluzione sarebbe stata un altro omicidio: quello di Cristo. Tra le righe Coscia sembra stemperare (questa è la mia impressione) l'idea della singolarità insita nella coincidenza fra l'opera sul monoteismo mosaico, scritta da Freud alla fine della propria vita (peraltro col recupero del senso di «Totem e tabù»), e il fatto che tema di fondo ne sia l'uccisione del padre (Mosè è "padre" degli Ebrei), quasi l'ultima opera di Freud fosse inconsciamente stata concepita come un tentativo di compiere un estremo atto di omaggio nei confronti appunto del proprio padre e di espiare, così, il parricidio, secondo il meccanismo che regola il funzionamento delle nevrosi: quel meccanismo che lo stesso Freud aveva teorizzato e che prevede talora, in età matura, il recupero di quelle stesse pulsioni di cui la nevrosi è figlia.

La statua michelangiolesca di Mosè
Roma, Chiesa di San Pietro in Vincoli
Leggendo il Freud di Coscia, ci s'imbatte anche ne «Il Mosè di Michelangelo», saggio scritto da Freud alcuni anni prima de «L'uomo Mosè e il monoteismo», a testimonianza di quanto la figura del presunto egizio costituisse una sorta di fissazione per Freud stesso. Fabrizio Coscia non me ne vorrà se mi permetto di aggiungere occasionalmente alcuni dati a quanto da lui scritto, ma come il precedente «Soli eravamo», anche «La bellezza che resta» ha avuto il potere - sebbene in modo più contenuto - di coinvolgermi a tal punto da volere quasi rendermi partecipe della scrittura stessa di Coscia. «Il Mosè di Michelangelo» fu scritto in occasione di un soggiorno romano compiuto da Freud forse in seguito a dissapori con alcuni allievi (fra cui Adler e Steckel). Tutte le mattine lo psicoanalista si recava nella chiesa di San Pietro in Vincoli per ammirare ciò che Michelangelo aveva portato a compimento di quello che, nel progetto originario ideato insieme al papa Giulio II (Giuliano Della Rovere) a partire dal 1505, sarebbe dovuto essere un arditissimo monumento funerario di base quadrata, a tre piani e dotato di ben quaranta statue in marmo di Carrara. Tale monumento avrebbe dovuto eternare la memoria dello stesso pontefice, permettendone la conservazione delle spoglie in un tale, grandioso mausoleo collocato a sua volta all'interno della Basilica di San Pietro, la cui nuova fabbrica (che avrebbe portato il tempio per eccellenza della cristianità cattolica ad assumere l'aspetto oggi noto) si doveva appunto all'iniziativa dei Della Rovere. Di ciò che rimane del progetto è parte la statua del Mosè, il cui viso avrebbe i tratti di Giulio II. Tutti i giorni Freud si recava a studiarla, convinto del fatto che anche alle opere d'arte raffiguranti esseri umani potessero essere applicate le strategie analitiche che egli usava per il comportamento dell'uomo. Colpivano Freud la posa, i dettagli mimici, l'espressione facciale di Mosè: tutti elementi che lasciavano intendere il fatto che Mosè fosse stato raffigurato nel momento in cui, quasi fuori di sé a causa dell'ira
Schema ricostruttivo dei movimenti che - in teoria - Mosè
avrebbe compiuto per assumere la posizione finale
in cui è stato eternato da Michelangelo
provata alla scoperta della realizzazione da parte del suo popolo del vitello d'oro, cerca di contenersi e di esercitare il proprio autocontrollo, forse temendo che una reazione esagerata potesse non tanto riportare a sé gli Ebrei apostati, quanto allontanarli ulteriormente. Non ci sorprende dunque il fatto che Freud torni, dopo quasi venticinque anni, ad occuparsi di un padre talmente autorevole e autoritario tanto per sé, quanto per il popolo che si avviava a patire il dramma della Shoah (discorso peraltro affrontato da Coscia alle pagine 84-85. Per completezza informativa, aggiungo che probabilmente da un blocco di marmo destinato al mausoleo di Giulio II fu scolpita da Michelangelo - e poi presa a martellate - la cosiddetta Pietà Bandini, fra il 1547 e il 1555. Il Buonarroti forse avrebbe voluto realizzarla per la propria tomba subito dopo la morte di Vittoria Colonna. Al viso di Nicodemo lo scultore pare avesse attribuito le proprie fattezze).

Il volto di Nicodemo nella michelangiolesca Pietà Bandini

Se non avessi timore di portare alle estreme conseguenze il pensiero di Coscia, se non avessi paura di rendere un pessimo servizio alla Filologia rischiando di forzare l'interpretazione del magnifico «La bellezza che resta», se dovessi non contravvenire al monito di Umberto Eco il quale (in uno dei saggi confluiti nella raccolta «Sulla letteratura») affermò che la Letteratura stessa ci insegna a rispettare la volontà dell'autore, senza macchiarci di quella disonestà intellettuale che talvolta diventa effetto collaterale di un'ermeneusi fantasiosa, troppo spinta ed esageratamente libera, oserei un'ulteriore associazione. Ma compio ugualmente l'azzardo («absit iniuria verbis»). Alla pagina 56, concludendo il suo discorso su Freud, Coscia ci ricorda che le azioni compiute dallo psicoanalista negli ultimi giorni della sua vita sembrerebbero ispirate al desiderio di acquisire familiarità con la morte. E l'afferma tanto sulla base dell'analisi che Freud aveva compiuto di «Re Lear» in un saggio del 1913 («Il motivo della scelta degli scrigni»), quanto in nome delle parole usate da Martin Lutero nel «Sermone sulla preparazione della morte» («dovremmo familiarizzarci con la nostra morte durante la nostra vita»). Dice Coscia che bisogna farsi trovare pronti dalla morte «come i servi della parabola evangelica che attendono il ritorno del padrone svegli, "con la cintura ai fianchi e le lucerne accese"». Poi, alla pagina 77, Coscia cita i passi di «Chadži-Murat» riguardanti il ferimento e la morte del soldato russo Andèev, il quale per due volte dice a un commilitone: «Dammi la candela. Devo cominciare a morire». Aggiunge Coscia: «Come se morire richiedesse un lavoro, uno sforzo, una concentrazione. E come se richiedesse un po' di luce, per illuminare ciò che non può essere illuminato». La mia mente corre subito alla scena finale di «Nostalghia» di Andrej Tarkovskij (1983). In essa il poeta Andrej Gončakov deve compiere una sorta di rito salvifico per conto di Domenico (un uomo prima ritenuto folle poiché per sette anni si era chiuso in casa con la sua famiglia attendendo la fine del mondo, poi morto suicida appiccandosi il fuoco): attraversare la piscina termale di Bagno Vignoni con una candela accesa in mano senza farla spegnere. Dopo i primi due tentativi falliti, Gončakov riesce a compiere quella sorta di rito, ma viene colto da un attacco cardiaco. Forse mai il senso della morte fu trattato con tale poesia, ma pure rendendo palpabile (se devo usare le parole di Coscia) il lavoro, lo sforzo, la concentrazione necessari al morire e generati anche dallo sforzo di tenere la luce accesa attendendo il «ritorno del padrone». So del resto che Coscia è un estimatore di Andrej Tarkovskij (più volte ci siamo scambiati pareri su mia adorata lettura: quella di «Martirologio», cioè dei diarî del regista).

L'eccellente Oleg Jankovskij nella piscina di Bagno Vignoni
(Andrej Gončakov in «Nostalghia»)

Un bellissimo, quasi elegiaco, microtema che percorre «La bellezza che resta» è quello del canto degli usignoli che fa spesso da sfondo acustico alle situazioni di cui la morte sta per diventare protagonista. Coscia lo ritrova nel più volte citato «Chadži-Murat», nell'«Ode a un usignolo» di John Keats, ma anche nell'incipit di «Edipo a Colono» di Sofocle, tragedia che ne «La bellezza che resta» viene interpretata alla luce di quella stessa necessità di acquisire familiarità con la morte, di cui resta traccia in quasi tutte le opere e gli autori citati da Coscia stesso. In questa specie di indefinibile testo che provo a scrivere lasciandomi trasportare - come già accennato - dalle mie personali associazioni, non posso fare a meno di dire che la citazione della tragedia sofoclea mi tocca profondamente in quanto essa è, insieme ad «Antigone» dello stesso autore, forse la tragedia che più amo tra quelle greche che ci sono pervenute. Ad essa lego peraltro un ricordo divenuto incancellabile anche a causa del carattere di straordinarietà assunto da una sua messa in scena alla quale assistetti qualche anno fa.

Al centro Giorgio Albertazzi nelle vesti di Edipo
«Edipo a Colono» di Sofocle
Teatro Geco di Siracusa, maggio-giugno 2009
Era il 26 maggio 2009. Mi trovavo al Teatro Greco di Siracusa e la tragedia sofoclea veniva messa in scena per iniziativa dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico. «Edipo a Colono» - come rilevato del resto da Coscia - fu scritta da un Sofocle vecchissimo e ha come protagonista un Edipo vecchissimo. Quella sera l'incolpevole e incestuoso parricida veniva interpretato da un vecchissimo (quasi ottantacinquenne), magnifico, superbo, miracoloso Giorgio Albertazzi, che ruggiva sulla scena come un leone (soprattutto nel colloquio con Polinice, figlio che Edipo malediceva come facevano quei padri che oggi - purtroppo - non esistono più perché hanno abdicato al loro ruolo, essendosi trasformati ciascuno in un Telemaco che, al pari dei propri figli, è rimasto immaturo. Ce ne ha parlato, in uno dei suoi purtroppo non numerosi momenti migliori, Massimo Recalcati). Ne venne fuori un trionfo della saggezza e della bellezza della vecchiaia, sulla quale pure la Moira più spietata decide di stendere il velo di una giusta misericordia e della serenità eternata dalla morte. Regista era il bravissimo Daniele Salvo che introdusse però due soluzioni drammaturgicamente spiazzanti: portò sulla scena le Erinni (sette esseri strani e inquietanti che si muovevano ostentando un tremore perturbante e minaccioso) e la morte stessa di Edipo (che, dopo essere stato condotto per mano da Teseo, si distese addormentandosi per sempre proprio fra le braccia delle Erinni). Nonostante l'evidente forzatura antifilologica, tale finale non mancò di risultare suggestivo.

«Edipo a Colono» di Sofocle (26 maggio 2009)
Insieme a Edipo e Antigone
Le sette Erinni
Volute in scena dal regista Daniele Salvo
Quando si legge «Edipo a Colono», la bellezza del testo, la lapidaria profondità (che sembra pure un ossimoro) di alcuni passi, la struggente debolezza del cieco Edipo che viene guidato e sorretto da Antigone (i due mi richiamano il vecchio Timur della pucciniana «Turandot» e la fedele e tenera Liù che l'ha accompagnato per amore di suo figlio Calaf), l'arrivo ad Atene, l'aura di sospensione in cui insiste il luogo sacro alle Eumenidi (che appunto sempre Erinni restano), il generoso - ma anche interessato - trasporto con cui Teseo si fa protettore del vecchio cieco, la delicatezza di Ismene, la volgare tracotanza di Creonte, il bruto interesse di Polinice, la morte (dovuta alla terra che s'è forse aperta ingoiando Edipo) che sopraggiunge come serenatrice, vera e propria "dea ex machina": tutto, proprio tutto appare miracolosamente perfetto in questa tragedia scritta da quel Sofocle, ormai prossimo alla morte, che parla di se stesso. Perché Edipo è Sofocle che torna al materno demo di Colono dov'era nato nel 496 a.C. E nella mia mente avvenne una singolare fusione: Sofocle-Edipo-Albertazzi. Per me oggi sia il vecchio Sofocle che il vecchio Edipo hanno i tratti del grande Giorgio, al punto che quando quest'ultimo morì (lo scorso anno), pensai che le Eumenidi fossero venute a prenderlo e lo avessero sepolto con il loro tenero, rispettoso, sacro abbraccio. Sono sicuro del fatto (e mi si perdoni la mia mancanza di modestia) che Fabrizio Coscia approverebbe ciò che ho appena affermato.

Il maestro Arturo Toscanini
Sofocle fece in tempo a concludere il suo capolavoro (anche se non lo vide sulla scena). Altri no. È il caso - ci racconta Coscia - di Johann Sebastian Bach (autore peraltro della «Suite per violoncello», sulle note della quale Ingmar Bergman inizia a far chiudere il suo celebre «Sussurri e grida» del 1972, mentre Ingrid Thulin e Liv Ullmann si scambiano effusioni da sorelle e la morte per tumore della terza si avvicina inesorabilmente). La «Fuga a tre soggetti» del compositore tedesco s'interrompe a metà della terza parte (stando alla testimonianza del figlio Carl Philipp Emanuel) a causa della sopraggiunta morte dell'autore. Ed io penso subito al 25 aprile 1926, quando andò per la prima volta in scena la già citata «Turandot» di Giacomo Puccini. Dirigeva Arturo Toscanini. Egli preferì non eseguire il finale dell'opera composto da Franco Alfano dopo la morte dello stesso Puccini. Subito dopo il triste coro che accompagna l'uscita dalla scena di Liù (che preferisce suicidarsi pur di non rivelare il nome del Principe Ignoto e la cui tenerezza - vale la pena ricordarlo - era particolarmente amata da Giacomo), Toscanini posò la bacchetta e, voltatosi verso il pubblico, disse: «Qui finisce l'opera, perché a questo punto il maestro è morto». Non si capirà mai se egli volesse non solo intendere che proprio lì l'opera s'interrompeva per la morte del compositore, ma pure alludere profeticamente alla morte del melodramma italiano di tradizione. E del resto voglio ricordare che anche il principe decabrista Sergej Volkonskij, parente di Tolstoj per parte di madre e fonte d'ispirazione per il personaggio del principe Andrej Bolkonskij di «Guerra e pace», morì mentre scriveva alcune sue memorie, dopo avere ricevuto il permesso di tornare a casa dalla Siberia. Ma v'è pure chi muore - e torno a Coscia - perché ha esaurito il proprio ruolo: «Una settimana dopo l'uscita del nuovo album, infatti, Gould morì, stroncato da un ictus [...] O è morto semplicemente perché dopo quell'ultimo disco aveva suonato tutto ciò che c'era da suonare» dice Fabrizio alla pagina 117. E ciò non può non ricordarmi il modo in cui Tolstoj giustifica la morte del generale Michail Illarionovič Goleniščev-Kutuzov, l'artefice - insieme a tutto il popolo russo - della vittoria su Napoleone Bonaparte: «Kutuzov non capiva che cosa volessero dire l'Europa, l'equilibrio, Napoleone. Non lo poteva capire. Al rappresentante del popolo russo ora che il nemico era stato distrutto, la Russia liberata e posta al massimo della gloria, al russo come russo non restava più nulla da fare. Al rappresentante della guerra nazionale non restava altro che la morte. Ed egli morì» (Lev Tolstoj, «Guerra e pace», Einaudi, 1955, II, 577).

Fra le tante personalità citate da Fabrizio Coscia (impossibile passarle tutte in rassegna), mi limito a ricordare ancora Kostantinos Petrou Kavafis e Tadeusz Kantor: il primo in quanto autore di «Miris-Alessandria, 340 d.C.», da cui viene fuori l'immagine di una morte che minaccia di rendere estraneo chi ci è caro, il secondo poiché fu interprete di un'idea di teatro che mi sembra ben riassunta in queste sue parole (traggo la citazione non da «La bellezza che resta», ma da «Il teatro zero» dello stesso Kantor): «La mia realizzazione di un teatro autonomo non è né l’esplicazione di un testo drammatico né la sua traduzione in linguaggio teatrale, ma molto più di un’interpretazione o un’attualizzazione. Non è la ricerca di un preteso equivalente scenico che assumerebbe il ruolo di un’azione parallela qualificata erroneamente come autonoma. Un obiettivo di questo genere è ai miei occhi una stilizzazione ingenua. Ciò che io creo è una realtà, un concorso di circostanze che non hanno con il dramma dei rapporti né logici né analogici né paralleli o inversi. Creo un campo di tensioni capaci di spezzare la superficie aneddotica del dramma». Il Kavafis e il Kantor di Coscia si fondono ai miei occhi perché entrambi ci restituiscono frammenti di arte dell'interpretazione (anche Kavafis: che cos'altro viene cantato in «Miris» se non la continua recita realizzata nella vita quotidiana da un cristiano che si è sempre comportato come un gaudente e rissoso pagano?). E del resto sono personalità che sembrano toccare profondamente l'animo dell'autore il quale in gioventù ha fatto parte di una compagnia teatrale. «Per questo a volte ho l'impressione di non aver mai smesso di recitare in quelle commedie, di continuare a prepararmi ogni sera, ancora come trent'anni fa, la mia camicia bianca con la pistagna, i pantaloni alla zuava, gli stivali, il berretto, la cintura di cuoio, stipati nel baule puzzolente di muffa; di sedermi sulla panchina del parco, con gli alberi dipinti alle pareti, di sentire il samovar bollire sul fuoco, di immaginare le stagioni passare tra un atto e l'altro, portandosi dietro anche i rimpianti» dice Coscia alla pagina 125. Riprende così le analoghe righe vergate alla pagina 25, ricreando quella formularità che contribuisce a dare un respiro epico a «La bellezza che resta» e lo assimila alla stessa atmosfera che permea di sé le vicende di Achille, di Odisseo e di Chadži-Murat.

Ivo Flavio Abela

P.S. Venerdì 9 giugno avrò l'onore di presentare «La bellezza che resta».


lunedì 15 maggio 2017

«Nomi di donna» di Gianluca Pirozzi. Quando delle donne parla un uomo

«Quando passa davanti ad un campo di girasoli e nella sua testa risente la voce di Aristea e, soprattutto, rivede le lentiggini su tutto il suo corpo», Ottavio riconosce di non essere ancora padrone delle proprie emozioni, nonostante il fatto che siano passati otto anni da quando proprio Aristea, la giovane e discretamente colta prostituta di cui s'era praticamente innamorato, è morta durante l'incendio appiccato chissà da chi alla roulotte nella quale viveva (il corsivo nella citazione è mio). La storia di Aristea è solo una delle tredici narrazioni di cui si compone «Nomi di donna» di Gianluca Pirozzi (L'Erudita, 2016): un bel libro, scritto con nitore non solo di forma, ma pure di senso. Ed anche con una certa, per nulla spiacevole, cerebralità. Il lettore viene infatti calvinianamente invitato ad immergersi nel gioco enigmistico della ricerca delle connessioni fra i racconti idealmente distribuiti lungo le quattro fasi di cui suole comporsi la giornata (ed in particolare a partire da «Fabiana» e dal già citato «Aristea»).

Fabiana decide di diventare Andrea dopo avere compiuto un viaggio a Parigi ed avere alloggiato presso l'Hotel Passy Eiffel, lo stesso in cui ha lavorato Nadia, protagonista del terzo e omonimo racconto. Il già menzionato Ottavio narra quanto accaduto otto anni prima mentre ha già una relazione con Diana, la protagonista dell'omonima narrazione, che ha «quella sua fissa per gli animali». Galatea (appartenente alla quinta generazione di una famiglia di artisti circensi) è la sorella della già menzionata Nadia, scomparsa all'età di quindici anni durante un incendio che ha divorato parte del circo di famiglia e in particolare la roulotte di Amélie e dello zio Marco, in cui Nadia si trovava per esercitare il suo francese conversando con la coppia; Nadia non è dunque morta durante l'incendio scoppiato quella notte, come tutta la famiglia ha sempre creduto, ma ha solo approfittato dell'occasione per fuggire da una vita che non amava e trasferirsi a Parigi, per poi diventare un'inserviente del citato Hotel Passy Eiffel: impiegata talmente perfetta da suscitare l'invidia delle colleghe. Ma l'incendio che ha distrutto parte delle strutture del circo e la roulotte di Amélie e Marco è uno dei due incendi menzionati nel primo racconto, «Monica», e che è avvenuto venticinque anni prima della disavventura accaduta di notte alla protagonista. In entrambi i casi una tigre è fuggita dal circo: venticinque anni prima a causa appunto dell'incendio, adesso - e in una cornice magicamente realistica che evoca in scena il compagno defunto della stessa Monica - a causa di un violento temporale.

E v'è poi un altro personaggio che sembra assumere la funzione di un vero e proprio fil rouge a causa della ricorsività con cui si presenta: Giovanna, che appare in «Louise» ed è un'insegnante di Filosofia con cui ama intrattenersi Stella, cioè la protagonista del secondo racconto. Per Giovanna svolge alcuni servizi Bianca (l'ossimorica protagonista dell'omonima narrazione relativa ad una donna giunta dall'Africa nera insieme alla madre-sorella e che ha fatto pure da balia a Stella), la quale diviene protagonista dell'ultima storia: una sorta di summa di tutta la raccolta. Non è un caso che vi vengano menzionati nomi che hanno popolato - a titolo vario - le narrazioni pregresse, fra cui quelli di Louise e Sonia, entrambe protagoniste di un racconto il cui titolo ho già menzionato e del quale riporto una citazione che mi fa pensare al kintsugi, cioè all'arte di riparare con l'oro le crepe degli oggetti rotti, a significare che ciò che ha subìto un danno è più prezioso: «Infine, su tutto Louise stenderà un colore, ma questa volta, forse, sarà diverso. Non sarà il suo unico e imparziale nero - il colore, per lei, più aristocratico che ci sia; né il bianco assoluto e puro che riesce ad ammantare di mistero ogni forma, proprio come la neve quando ricopre la città nei mesi d'inverno, quella neve che Louise si porta sempre nel cuore. Per questi pezzi, infatti, Louise vorrebbe osare lo splendore alchemico dell'oro, quello sacro delle divinità che l'hanno incantata nei templi e nelle edicole votive dell'India».

Una vena di raffinata e leggiadra tenerezza può essere individuata nel racconto intitolato «Clara», la ceramista che ha la singolare abitudine di dormire portandosi sotto le lenzuola alcuni oggetti ai quali è affezionata. E alla fine del libro, leggendo i ringraziamenti, comprendiamo anche il motivo di tale tenerezza: la donna non è altro che Clara Garesio, la madre di Gianluca Pirozzi, autrice anche dei gradevoli, onirici, stilizzati disegni che sono disseminati lungo il libro, precedendo ciascuno ogni specifico racconto. Non è un caso, forse, che questa narrazione non sia intranodata con le altre (almeno così pare): quasi come se a Clara si volesse riservare uno spazio ed una collocazione speciali.

A Gianluca va dato poi il merito di avere parlato in modo non stereotipato, e senza quella retorica stucchevole e vetero-femminista con cui viene (è ovvio) condannato mediaticamente, anche di quello che, con termine odioso, terribilmente ideologizzato, ipocritamente e sinistramente moralista, viene chiamato «femminicidio». Quando si intraprende la lettura di «Agata», ci s'imbatte in una donna che le ristrettezze hanno reso insopportabile, incontentabile, frustrata, capricciosa al punto da non riuscire a vedere anche quel po' di positivo che il marito prova a realizzare. Non è politically correct dirlo (del resto chi scrive il presente testo detesta il politically correct), ma quasi si è portati a comprendere pienamente il gesto estremo che ai danni di Agata viene compiuto da un marito portato all'esasperazione. È un "merito" ulteriore che l'autore di questa recensione riconosce al coraggioso Pirozzi. Ma v'è di più: Gianluca, quasi a riequilibrare la materia trattata, narra pure che la già citata Diana, adesso convivente con Ottavio, il cliente-amante di Aristea, segue un percorso psicoterapeutico, ma ammazza il dottor Vinti poiché ella scopre per caso, nella propria mente vagamente malata, che egli le ricorda un grande corvo nero. Sembra quasi che Gianluca, che considera la donna una creatura a volte addirittura straordinaria, voglia tuttavia ridimensionare il peso di quel male che, nell'odierna società dei media, viene attribuito sempre e soltanto all'uomo.

È bello vedere come un uomo sia riuscito a parlare delle sfumature dell'animo femminile conducendo un'analisi essenziale, priva di orpelli potenzialmente esornativi, a volte anche fredda, ma sempre efficace e linguisticamente elegante. «Nomi di donna» va letto.

Ivo Flavio Abela

lunedì 1 maggio 2017

Lingua e tempo in «Stelle ossee» di Orazio Labbate. Ma anche in «Lo scuru»

«C'è sempre un di più d'indugio, un edonismo fonico-lessicale
in questa, come in ogni scrittura così densa»
Cesare Segre, La costruzione a chiocciola,
in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento,
Torino, Einaudi, 1991, p. 85


Da qualche tempo non riesco più a produrmi in recensioni canoniche. Perché mai come adesso mi è capitato di "diventare" il libro che leggo e interpreto. E così è stato anche per «Stelle ossee» di Orazio Labbate.

A metà febbraio Orazio, praticamente non conoscendomi se non tramite i miei post di Facebook, mi inviò un messaggio col quale mi chiedeva di presentare questa sua raccolta di racconti il giorno in cui sarebbe ufficialmente uscita in tutta Italia, cioè il 16 marzo (per LiberAria). Ringraziai Orazio della fiducia che mi manifestava. E accettai innanzitutto perché nutro un debole nei confronti delle persone che risultano garbate senza essere affettate (e Orazio Labbate è uomo garbato per natura). Poi perché sapevo che aveva già pubblicato «Lo scuru» e «Piccola enciclopedia dei mostri e delle creature fantastiche» (del primo avevo letto parecchie recensioni. Una, in particolare, era stata scritta da Domenico Calcaterra che aveva presentato peraltro «Lo scuru» a Messina insieme all'autore). Infine - devo ammetterlo - poiché ero a conoscenza dell'amicizia che lega Orazio ad Antonio Moresco (sono all'antica. E le referenze per me hanno una certa importanza, sebbene vadano sempre verificate).

Ho iniziato a leggere prima «Lo scuru». E sono rimasto bene impressionato dall'incipit. L'architettura della pagina, la luminosa atmosfera, il nitore dell'eloquio: tutto mi appariva perfetto. Ma di lì a poco alla luce si è sostituito il buio. Ho proseguito la lettura con una certa fatica (ho dovuto addirittura leggere il romanzo due volte): la lingua - quella griglia che saussurianamente incorpora in un sol colpo il magma informe del pensabile e tutta la materia fonica fino ad allora confusa e indistinta - andava complicandosi sia lessicalmente (con l'ulteriore aggravante dell'uso di uno sperimentalistico code switching oscillante tra italiano e dialetto) che morfosintatticamente e retoricamente. Fra una lettura e l'altra de «Lo scuru» ho inserito quella di «Stelle ossee» che mi ha alleggerito il compito. Ho ricevuto l'impressione che il percorso di Orazio Labbate vada al momento seguito tappa per tappa poiché Orazio è uno scrittore "adolescente" e in formazione. Ed è anche uno scrittore siciliano dotato, però, di un retroterra nutrito di numerosissime letture (afferenti soprattutto al southern gothic) e di tanto cinema d'autore. Mentre leggevo i suoi scritti, mi chiedevo che cosa potrebbe venirne fuori tra qualche anno: come sarà l'Orazio maturo? Ma torno alla lingua. Sottolineo fin d'ora che mi risulta impossibile esprimere le mie riflessioni, per i motivi già espressi, scindendo «Lo scuru» da «Stelle ossee».

Le recensioni che ho letto su «Lo scuru» dicono che Labbate si pone linguisticamente sulla stessa linea di alcuni grandi scrittori siciliani, fra cui Vincenzo Consolo. Leggendo simili affermazioni, ho pensato a questo passo tratto da «Il sorriso dell'ignoto marinaio» (operazione metodologica istintiva e dunque non scientifica), per quanto in esso non appaiano elementi dialettali. Ma l'atmosfera da barocco trionfo della morte che v'è trasfusa m'ha fatto pensare pure a certi dettagli di «Stelle ossee»: «Oltre i lumi, nell'ombra del soffitto e delle mura, precipitare di teschi digrignanti, voli di tibie in croce, guizzare di scheletri da sotto lastre, sorgere da arche, avelli, scivolare da loculi, angeli in diagonale con ali di membrana che soffiano le trombe».

Se ho pensato a questo passo, l'ho fatto in verità per opposizione: nulla esiste di più lontano dalla lingua di Orazio, che non mi sembra talmente barocca né quando si presenta come lingua quasi interamente italiana (quella che domina in «Stelle ossee»), né quando assume la forma di codice mistilingue, come ne «Lo scuru». Qualcuno potrebbe dirmi che è ovvio: Labbate s'ispira al gotico americano, non a certo lugubre barocco polveroso di casa nostra. È vero. Però «Lo scuru», prima ancora di essere imbevuto del gotico americano, gronda di superstizione popolare e di religione magica dell'entroterra siculo, di dettagli geo-toponomastici anch'essi siculi, di personaggi che talvolta appartengono all'infanzia e ai ricordi di Orazio (e quindi siciliani). Ridimensionerei, almeno per «Lo scuru», il portato degli americani e considererei molto più rilevante quello dell'autobiografico humus buterese, e dunque siciliano, dell'autore.

A conferma di tale convinzione, del resto, credo di potere affermare che il codice mistilingue di Orazio sia il risultato della (a volte mera) giustapposizione di parole italiane e siciliane. Dunque è un codice ancora acerbo, spontaneo, quasi meccanico, poco o per nulla filtrato attraverso una rete a fittissime maglie quale quella che usavano Consolo, Bufalino, ecc. Mi sembra di non avere ravvisato neanche significativi tentativi di adattare morfologicamente le parole siciliane all'italiano. Forse più diffusa è la tendenza al calco di espressioni dialettali o comunque popolari: «Non gli uscivano le lacrime dagli occhi», esempio che, peraltro, traggo volutamente non da «Lo scuru», ma da «Stelle ossee», dove il codice mistilingue viene ridotto al minimo - se si eccettua l'uso massiccio che se ne fa in «La Madonna verde». E non può essere un caso: Orazio - dicevo - è uno scrittore ancora "adolescente". E in «Stelle ossee» mi sembra che fatichi ad affrancarsi dal proprio ethos siciliano. Al punto che, quando prova a farlo, lo fa scegliendo la via più agevole e meno rischiosa: parte dalla morfologia. Cioè dalla forma linguistica. Altri dettagli (la sostituzione dell'indicativo al congiuntivo anche in dipendenza dei verbi di pensiero o di opinione e un caso di plateale concordanza a senso) non mi sembrano rilevanti. In ogni caso quella di Orazio è una lingua molto originale.

Il codice mistilingue ricompare, e pure questo non mi sembra casuale, a partire dal quartultimo racconto di «Stelle ossee», quando cioè si risveglia la natura siciliana dei personaggi e delle situazioni. Insomma, ammesso che sia vero che Orazio cerchi di fondere la letteratura gotica americana con la tradizione siciliana (come da più parti si dice), personalmente credo che tale esperimento non potrà essere da lui reiterato a lungo. Ne «Lo scuru» prevale l'ethos dello scrittore siciliano. E prevale a tal punto che l'uso del dialetto è ancora plateale e non dissimulato. In «Stelle ossee» prevale l'italiano (fisiologicamente lingua della traduzione dall'americano) perché la maggioranza dei racconti è volutamente ispirata al southern gothic a partire dall'ambientazione. Quando compare il dialetto, anche l'ambientazione e i personaggi ridiventano siculi. E allora «La Madonna verde», che è pure il più lungo di tutti i racconti (quasi un romanzo brevissimo che non mi stupirebbe se un giorno venisse ampliato)? Mi si può obiettare infatti che in esso la geografia è americana e la lingua è spesso sicula. È vero. Ma in questo racconto di gotico, di mortuario, di cimiteriale, di luttuoso, non v'è nulla, a differenza di quanto avviene in tutti gli altri e ne «Lo scuru». E il racconto stesso - del resto abbastanza gradevole - sembra potere essere sottoposto a una lettura "sociale", come molta della letteratura e tanto di quel cinema che trattano l'emigrazione di tanti siciliani verso gli Stati Uniti, all'epoca in cui partivano i bastimenti e si fermavano innanzitutto ad Ellis Island. Peraltro la genuinità usata da Labbate nell'uso di un idioma siciliano verace ha portato Roberto Sottile ad analizzare «Lo scuru» e a menzionarlo quasi sistematicamente nel suo «Le parole del tempo perduto ritrovate tra le pagine di Camilleri, Sciascia, Consolo e molti altri» (Navarra Editore, novembre 2016): un ottimo traguardo.

Da «Sacrificio» di Andrej Tarkovskij (1986)
Vediamo adesso quale atmosfera si respira in «Stelle ossee». Mi vengono in mente alla rinfusa alcuni dettagli: l'apocalisse di morti (l'uomo del Minnesota abbandonato da Nathalie due giorni dopo la nascita-morte del loro bambino, il cane Tom, il manoscritto che viene gettato - appunto come cosa morta - nel burrone in cui s'è trasformato, a causa del gelo, un lago); gli incendi perpetrati da Horace (nome autobiografico?) e Malcom ai danni delle case che s'impadroniscono delle anime di chi le abita, nel vano tentativo di riappropriarsi di quelle dei propri genitori (non so se sia un caso, ma chissà che Orazio Labbate non abbia visto il celeberrimo «Sacrificio» di Andrej Tarkovskij e anche «Nostalghia» dello stesso regista, ed in particolare la scena in cui un uomo si dà fuoco per protesta, dopo aver pronunciato le seguenti parole: «Bisogna alimentare il desiderio, dobbiamo tirare l'anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all'infinito. Se volete che il mondo vada avanti, dobbiamo tenerci per mano, ci dobbiamo mescolare, i cosiddetti sani e i cosiddetti ammalati. Ehi, voi sani! Cosa significa la vostra salute?». Non ho badato a chiederglielo la sera della presentazione); le magicamente realistiche visioni dei genitori morti da parte del figlio rimasto orfano, grazie al nascondersi sotto il letto; il tenero confronto tra un bambino che si chiede il motivo per cui gli esseri umani debbano separarsi con la morte e il nonno che cerca di proteggerlo dalle sue paure, ma non può riuscirvi veramente perché muore. E potrei continuare snocciolando, del resto, un nutrito armamentario di oggetti legati a contesti cimiteriali (comprese le bare di cui si citano anche dettagli apparentemente indifferenti, come il tipo di chiodi con cui ne saranno serrati i coperchi).

Ma un oggetto ha attratto particolarmente la mia attenzione: l'orologio. Riporto uno scambio di battute tratto dal racconto «Buio sotto il letto»:
« - Questa terra non è stata costruita da un orologiaio, convieni figlio mio?
- Sì madre, ma io percepisco meccanismi delicati attorno a me, i secondi procedono quando arriva un altro giorno, le ore scadono condannando quest'omicidio buio all'inconsumazione: io invecchio e non c'è cosa più certa, nella mia intelligenza, che essere succube di un mostro orologiaio».

Dettaglio...
La sera della presentazione raccontavo ad Orazio che in casa mia esiste un orologio a pendolo (confesso che adesso riporto una parte di un mio vecchio testo che mai avrei pensato di dovere richiamare in causa un giorno). Gli sono legatissimo: mi ricorda la scansione del tempo della mia infanzia, legata peraltro alle fantasie relative a fantasmi e ad anime ormai oltremondane di cui erano pervasi certi racconti (laddove l'orologio a pendolo era sempre e comunque la dimora degli spiriti). L'orologio smise di funzionare. Tutti gli orologiai chiamati per la riparazione avevano gettato la spugna. Poi, nel maggio del 2008 morì mio padre ed io lasciai quest'orologio al suo destino di oggetto ormai inutile (ricordo però che l'indomani della cerimonia funebre ne spostai le lancette alle 16:35, cioè all'ora in cui mio padre era morto. Non so perché lo feci. Forse per cercare di eternare quel momento: unica, stupida arma da me usata per combattere contro l'eternità della separazione).

Nell'estate del 2012 decisi di aprire i piccoli sportelli laterali del suo involucro ligneo. Mi trovai così proiettato in un universo di catene, viti, pioli, ruote dentate, rotelle di tutte le misure, martelletti dalla testina morbida. La tentazione di smontarlo fu irresistibile. Riuscii a liberare il meccanismo dalla sua carcassa lignea, così da potermelo studiare in pace dopo averlo posato su un tavolo. Quando, tremando come una foglia, rimontai tutto, il mio «Tempus fugit» si mosse: il pendolo ricominciò ad oscillare, le lancette (appena tornate al loro posto) iniziarono a ruotare, i martelletti riprodussero ciascuno il proprio tono urtando contro le piccole assi metalliche deputate a produrre i suoni (sebbene in modo attutito, cosa che mi portò a smontare i martelletti stessi uno per uno, a ripulirli e a rimontarli correggendone la posizione. Risultato: suoni vivi e brillanti anche più di prima).

Leggendo il racconto di Orazio, non solo mi è tornato in mente quanto appena narrato, ma pure una poesia tratta dall'«Antologia di Spoon River», cioè «Walter Simmons», dalla quale traggo alcuni versi che meritano di essere riletti qui: «Ma poi a ventun anni mi sposai / e dovevo vivere, e così, per vivere / imparai il mestiere dell’orologiaio / e avevo una gioielleria in piazza, / e pensavo, pensavo, pensavo, pensavo, / non agli affari, ma alla macchina / che progettavo di costruire. / E tutta Spoon River aspettava impaziente / di vederla in funzione, ma non funzionò mai. / E qualche anima buona pensò che il mio genio / fosse in qualche modo impedito dal negozio. / Non era vero. La verità era questa: / non ero un genio».

Tessendo questa mia rete di associazioni (ho detto fin dall'inizio che mi è ormai difficile scrivere recensioni canoniche e ne ho spiegato il motivo) sono giunto all'ovvia conclusione che l'orologio, al di là della sua funzione innocentemente pratica, è un oggetto terribilmente legato alla materialità del male. Ma vedo che chi lo manovra, chi lo mette in funzione, chi lo costruisce, è anche per Orazio Labbate un «mostro orologiaio»: un essere diabolico, cosa che altri del resto confermano. Anche in contesti completamente lontani da quelli di Labbate (cioè in contesti che nulla hanno da dividere con la letteratura gotica americana e la Sicilia) l'oggetto che scandisce il passare del tempo e batte le ore diventa il simbolo della materialità indifferente e spietata, se non di quella demoniaca. Per esempio, il notissimo teologo ortodosso Pavel Evdokimov, in «Teologia della bellezza» (Roma, 1981, p. 38, nota n. 5), ricorda che, ne «La mite», Dostoevskij «ci pone davanti il contrasto insopportabile tra l'infinito della sofferenza e l'indifferenza del tempo: Uomini, amatevi gli uni gli altri, chi ha detto questo? Il pendolo batte, insensibile, con una monotonia ripugnante». Aggiunge che «in "Delitto e castigo" appare il fantasma della donna assassinata da Svidrigàjlov e gli ricorda "che ha dimenticato di ricaricare l'orologio"». Ma la citazione più bella è quella seguente. Evdokimov aggiunge infatti: «Si può fermare l'orologio ma non il tempo, che si dirige implacabilmente verso il Giudizio. Il tempo fermato è l'immagine più terribile. Kierkegaard descrive il ridestarsi di un peccatore agli inferi: "Che ora è?", esclama, e con una indifferenza glaciale Satana gli risponde: "L'eternità"». E a tale aneddoto mi sembra chiaro che si richiami il poeta Osip Mandel'štam in una sua poesia del 1912, nella quale narra gli ultimi giorni di Konstantin Batjuškov. Quest'ultimo era il poeta che, ormai impazzito, era solito chiedere a se stesso: «Che ora è?». E rispondersi: «Quella eterna» (dal che deduciamo che anche la mania di Gigi Marzullo di chiedere ai suoi ospiti di farsi una domanda e darsi una risposta ha un'origine perversamente diabolica!). Lo ricorda pure Marina Cvetaeva nel suo saggio «Il poeta e il tempo».

Mi sono lasciato prendere la mano da troppe associazioni (ed anche da qualcosa di personale) e me ne scuso in particolare con Orazio Labbate (se mai mi leggerà). Ma voglio concludere questo mio folle testo, augurando ad Orazio di proseguire con successo sulla strada intrapresa, non mancando però di calibrare fin d'ora la propria scrittura. La sera della presentazione gli dissi che vorrei adesso leggere un Labbate più luminoso. Mi rispose che ritiene di non avere ancora esaurito del tutto il potenziale oscuro di cui sono pregni il suo mondo e la sua formazione. Bene: è giusto e legittimo il fatto che si prenda tutto il tempo che gli serve. Continuerò attentamente a seguire i suoi passi, aspettando nel contempo anche il suo «Fiat lux».

Ivo Flavio Abela

P.S. L'uscita ufficiale di «Stelle ossee« è stata celebrata presso la Libreria di Felicia Randazzo e Roberto Furnari, ai quali vanno i ringraziamenti più sinceri non solo per la realizzazione dell'evento, ma anche per l'attenzione costante e instancabile da loro rivolta alla promozione della lettura e alla mai smorzata diffusione di elevati prodotti culturali.

lunedì 17 aprile 2017

Familiarizzarsi con la morte. «La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia

«La bellezza che resta». Dalle parole di Renoir, ma il risultato è un titolo vagamente dostoevskijano. Non troppo però. Se si considera che questo libro sembra essere stato scritto per familiarizzarsi con la morte: quella del padre dell'autore, mai del tutto metabolizzata forse, se è vero che Fabrizio Coscia ha sentito la pressante necessità di scriverne così come ne ha scritto (a nulla sono serviti gli anni - per così dire - preparatori, durante i quali l'autore si è sottoposto a un trattamento psicoanalitico), quella che può colpire ciascuno di noi in qualsiasi momento e che si manifesta attraverso ogni minimo dolore procuratoci dalla vita quotidiana, quella che può colpire chi amiamo, strappandocelo e lasciandoci inermi al cospetto di un evento di enorme potenza e di quel mistero compiutosi pure davanti a Nataša Rostova, quando Bolkonskij spirò.

E proprio la scena della morte del principe tolstojano incarna lo spirito che la morte possiede per Coscia: un evento in grado di scatenare reazioni incontrollate e irrazionali, come volere gettarsi nella terra che sta accogliendo la bara del padre, il cui corpo è avvolto in un pigiama di seta blu. E sembra quasi di rileggere il racconto omerico dei riti funebri in onore di Ettore il glorioso: «... ed ecco che / Le bianche ossa raccolsero familiari e compagni / Gemendo. E il pianto scorreva abbondante lungo le guance. / Dopo averle prese, le posero in un'urna d'oro, / Avvoltele in morbidi pepli purpurei. / Quindi posero l'urna in una fossa profonda e da sopra / La ricoprirono con fitte pietre grandi» (la traduzione è mia). E già: perché pure per Coscia narrare è fare epos. Perché il modo di familiarizzare con la morte, il dolore universale in cui si raccolgono tanti dolori individuali (quello innescato dalla notizia dell'assassinio dei bambini di Beslan, il dolore provato davanti alle manciate di terra gettata sulla bara del padre, l'amarezza disperata dell'unica donna che inveisce contro gli assassini di Chadži-Murat, lo sgomento delle migliaia di persone accorse al funerale di Tolstoj, la rassegnata consapevolezza della fine vicina di Tadeusz Kantor e ancora tanti, tanti altri dolori), le vicende di scrittori, pittori, musicisti (pure quelle di Freud e del suo feticcio Mosé), sono trattati con uno spirito quasi epico (e non è un caso che proprio Omero venga chiamato in causa dall'autore).

«Rivedendo quelle immagini, riscoprivo così per l'ultima volta la bellezza di mio padre. La bellezza che resta, come diceva Renoir. Mi piaceva vederlo da giovane: mi rassicurava e leniva un poco il dolore della perdita. Il padre incupito, debole e invecchiato degli ultimi anni svaniva per sempre, lasciando il posto al giovane uomo sicuro di sé che era stato». La bellezza resiste alla morte e qui prende corpo in una scrittura luminosa e a tratti tenera, che tale si mantiene anche quando diviene struggente e lacerante. Una scrittura che è oggi necessaria perché tiene in vita la Letteratura e le restituisce quel senso e quella dignità che in tanti le hanno sottratto, perdendosi in inutili quanto patetiche controversie a chi sa più turbare e scandalizzare (ed è necessaria anche a noi per continuare a vivere): la Bellezza eterna non ha bisogno di scandalo.

Quando iniziai a leggere «La bellezza che resta», giunto alla pagina 25, riflettevo su ciò che stavo facendo. Avevo preparato il mio Moleskine per prendere appunti. Una penna. Una matita trovata nel cassetto dello scrittoio appartenuto a mio padre (che era pure lì, impresso sulla foto chiusa nella cornice d'argento). La matita era stata usata l'ultima volta da lui. Era bene appuntita (lui le lasciava appuntite per la volta successiva in cui le avrebbe usate). La usava (ne sono quasi sicuro) quando - nelle notti di gennaio, febbraio e marzo del 2008 - disegnava e scriveva perché non dormiva (a maggio sarebbe morto) a causa della malattia e della chemio. Si chiudeva nella camera in cui leggevo il libro di Fabrizio. Al mattino si trasferiva nella cucina-soggiorno e lo trovavo disteso e sonnecchiante sulla poltrona. Le gambe appoggiate su una sedia. Il plaid a quadri marroni sulle gambe. Sullo scrittoio un datario regalatogli tanti anni prima da un alunno, lasciato al 18 aprile, l'ultimo giorno da lui fissato con le proprie mani. Perché quello fu pure l'ultimo giorno in cui (barcollando con le gambe gonfie di liquido che non riusciva più ad espellere a causa della funzionalità renale ridotta e della metastasi epatica) riuscì a sedersi a quella scrivania. Poi venti giorni di inferno fino alla morte. Dicevo... giunto alla pagina 25, non avevo ancora preso un appunto. Ero solo riuscito ad apporre qualche segno su alcune pagine. E già avevo la netta sensazione - come lo stesso Fabrizio sottolinea - che la letteratura è parte della vita e non solo un mero rifugio da essa.

Da giorni preparo materiali per scrivere una sorta di recensione-saggio su questo libro, come è mia abitudine e come ho fatto per il precedente «Soli eravamo» dello stesso Coscia (qui: http://ivoflavio-abela.blogspot.it/2015/07/soli-eravamo-di-fabrizio-coscia.html). Ma stasera ho preferito fare così. Scrivere in mezz'ora ciò che adesso leggete (usando anche qualche espressione da me già in precedenza vergata sul mio profilo facebookiano). Perché non riesco a fare altrimenti. Questo libro è intimamente legato a un momento strano, difficile, disorientante. E pure adulterato dalla cattiveria umana.

Insomma questa non è una recensione. E non è il testo che avrei voluto scrivere e sul quale lavoravo da un pezzo. Forse più avanti ne riparleremo... E del resto non voglio neanche rileggerlo.

Ivo Flavio Abela

N.B. Andrea Caterini è colui che ha voluto fortemente che questo libro fosse scritto. Questo testo è pure per lui.


domenica 2 aprile 2017

Il «magnifico» Arnaldo Colasanti

Lo scrittore Piero Aprile sta per partire: andrà finalmente negli States insieme alla crema della narrativa contemporanea. E potrà viaggiare in Magnifica, la business class di Alitalia, dove tutto risulta lussuoso, accessoriato all'esagerazione, splendido. Ma l'attesa per il check-in si trasforma in una complessa parentesi di analisi e autoanalisi, preludente a quella che, nelle recensioni che iniziano a circolare, viene paragonata a una discesa agli Inferi dell'editoria e del mercato librario contemporanei. Direi che, più di una discesa agli Inferi, Piero compie invece una complessa operazione di chirurgia necroscopica: una maniacale autopsia sul cadavere (una sorta di morto vivente) della letteratura di oggi, che corrisponde però ad un profondersi verso i meandri più reconditi della propria coscienza (azione rischiosissima e stressante. Il lettore si renderà conto, alla fine del libro, di quanto essa sarà risultata infelice e insostenibile per Piero).

«La magnifica» (Fazi Editore, 2017) è l'opera di uno scrittore con cui si vola alto. Egli è tale per la maestria con la quale maneggia una lingua che spazia dai registri più elevati a quelli dotati della freddezza tutta tecnica della perizia giurata, fino a quello disfemico (senza mai sprofondare in una volgarità gratuita). Si aggiunga la gioia narrativa con cui Arnaldo oscilla tra l'uso della prima e della terza persona, fino a scomodare un narratore onnisciente che talora giunge a spezzare la linea del racconto per apostrofare pure il lettore, il quale si sente quasi inerme dinanzi a tale esuberanza narrativa. Per non dire della vena creativa particolarmente prolifica che si concretizza in trame intrecciantisi in una sorta di confusione calviniana e pure umoristica (nel senso pirandelliano).

Colasanti si chiede (ma pure noi ce lo chiediamo insieme a lui) che cosa siano oggi la scrittura e la letteratura. E se sia ancora possibile dedicarsi ad esse onestamente, cioè se uno scrittore possa davvero essere autentico e dunque narrare la vita interiore secondo la verità. Perché i condizionamenti imposti in particolare dall'editore, il cui unico interesse è quello di fare soldi, hanno trasformato lo scrittore in nulla più di un mestierante che scrive soltanto storie sulla base dei gusti di un pubblico che vuole distrarsi, che non desidera riflettere attraverso la lettura, ma semplicemente essere intrattenuto nel più commerciale dei modi. Ecco dunque le staffilate che, tra le righe, Arnaldo infligge alle scuole di scrittura creativa (la Holden non viene certo risparmiata), all'appiattimento culturale e intellettuale di un pubblico che non si fa fatica a identificare con quello di Maria De Filippi o di certe fiction televisive, e che talvolta si materializza, nel corso del libro, in straordinari ritratti nell'ambito dei quali i dettagli fisici, estetici, i tentativi di apparire talora grotteschi compiuti dalla persona ritratta, i dettagli relativi ai capi di abbigliamenti e al modo in cui essi vestono soprattutto i corpi femminili, restituiscono le immagini di un'umanità stupida, banale, piatta, rispetto alla quale Mario (o Arnaldo?) si pone su un piano di superiorità tale da dargli la forza di rinunciare a quel mondo, a quel viaggio, a quella compagnia fatta di maschere (l'Esordiente, il Narratore arrivato, la Puerpera, il giovane accademico, ecc.), per vivere senza più condizionamenti ed in modo più vero. Allora pure operazioni come la ricerca di una toilette e lo svuotamento della propria vescica diventano una lotta finalizzata a liberarsi di tutte le menzogne che l'uomo, suo malgrado, si porta dietro come una zavorra. Il guaio è che l'unica forma di autenticità sembra garantita solo in una dimensione che non può affatto essere quella della vita quotidiana (se ne renderà conto il lettore, come già accennato, solo alla fine del libro. E con grande sua sorpresa).

Colasanti è stato bravissimo nel confezionare un libro che è come un vortice dal quale si viene attratti fino ad esserne riassorbiti. E da questo libro traspare la sua grande umanità, cioè la straordinaria qualità della sua natura. Perché «La magnifica» è comunque un libro in cui v'è sofferenza (anche nelle parti più umoristiche). Ho avuto la netta impressione che quel Piero Aprile non sia altro che Arnaldo. Credo che soltanto chi abbia vissuto sulla propria pelle la sofferenza dello scrittore isolato in un panorama letterario ipocrita e ostile, che è del resto quella dell'uomo condannato a stare ai margini della società in una dimensione vitale altrettanto a lui nemica, possa riuscire a scrivere in tal modo. E a toccarci così profondamente.

Ivo Flavio Abela

Il testo è dedicato a chi per primo mi ha fatto conoscere «La magnifica», cioè ad Andrea Caterini.

venerdì 31 marzo 2017

«Passaggio in Sicilia» di Massimo Onofri. Riflessioni e cortocircuiti associativi

Sono stato invitato a presentare «Passaggio in Sicilia» di Massimo Onofri due settimane prima della presentazione stessa. Lo avevo acquistato in tempi non sospetti, quando non immaginavo certo che un giorno avrei dovuto parlarne con l'autore, peraltro presso il Liceo in cui sto insegnando. Ma l'avevo messo da parte, ripromettendomi di leggerlo se i ritmi della quotidianità mi avessero permesso di farlo. Ricevuta la richiesta, sono corso ai ripari. Diversamente da quanto immaginavo, leggere le trecentonovantuno pagine scritte da Onofri non mi è costato fatica: le ho consumate in un solo giorno, una domenica, concedendomi anche qualche intervallo dedicato a un'altra lettura che avrei pure dovuto completare in tempi brevi. Se ciò è stato possibile, significa che il libro lo permette (è scritto con accattivante leggerezza). Eppure è denso di dati, citazioni e riferimenti bibliografici, dettagliate descrizioni di luoghi (città, strade, edifici, locali nei quali si possono mangiare specialità gastronomiche e dolciarie), vicende storiche, personaggi vivi e morti.

«Passaggio in Sicilia» è un resoconto di viaggio: quello che Onofri ha compiuto in Sicilia, insieme ad alcuni amici e allievi, seguendo un percorso antiorario quasi sempre coincidente con il perimetro dell'isola (da Palermo a Messina, con qualche deviazione dovuta a motivi logistico-geografici). È una dotta guida turistica. Ma pure una summa della Letteratura Siciliana di oggi, che contempla soprattutto autori e titoli poco o per nulla noti ai siciliani stessi come, solo per riportare un esempio significativo, Michele Perriera (che a me stesso oggi è noto grazie innanzitutto a un conoscente, Domenico Calcaterra, che ha del resto pubblicato una monografia dal titolo «Perriera sentimentale»).

La Sicilia di Massimo non è affatto oleografica. Lo sottolineo per motivi che appariranno chiari più avanti. In questa mia riflessione, al momento sento di dovere tornare indietro di qualche anno, cioè al 2012. Il 31 dicembre di quell'anno Francesco Merlo pubblicava su «Repubblica» un articolo dal titolo «La sicilitudine e l'imbroglio dell'identità. Siamo tutti melanzane confuse». Ecco che cosa racconta: «Quando lavoravo a Milano ho conosciuto un correttore di bozze che invitava a casa solo siciliani, il menù era pasta alla norma, baccalà alla messinese e cannoli di ricotta, sul giradischi metteva "Ciuri ciuri", aveva la casa decorata come un teatro dei pupi, ci chiamava tutti "mpare" e incoraggiava il figlio sempre allo stesso modo: "Ricordati che sei siciliano". Gli feci notare che il ragazzo era cresciuto a Milano, era nato a Como, la madre era di Piacenza. Mi guardò storto: "Il sangue siciliano non è acqua". E certe volte mi diceva: "Ti parlo da siciliano". Oppure: "Scusa le mie contorsioni da siciliano". Prima pensai che non era siciliano ma scemo. Poi decisi che, nel suo caso, ‘siciliano’ e ‘scemo’ erano sinonimi».

Qualche anno fa (credo fosse il 2010) seppi della presentazione, alle Ciminiere di Catania, di «Sicilia, o cara» di Giuseppe Culicchia. Conoscendo il libro, immaginai che il viale Africa di Catania fosse, quella sera, percorso da tanti carretti siciliani sui quali sedevano comari con gli scialli orlati di merletto e tirati su fino alla fronte, in un tripudio di pizzi e fazzoletti ricamati e di caviglie appena scoperte. I loro uomini (coppola in testa, marranzanu appeso al collo e all'uopo portato alla bocca, coltello al fianco, fasciona rossa a cingere le vita) sedevano accanto alle loro mogli e, con fare spertu (tanti compari Alfî insomma), reggevano le redini con cui guidavano i cavalli. Tenevano però a bada con lo sguardo le donne e guai se le poverette avessero volto gli occhi, avidi come succose pesche vulviformi, verso la strada. Era tutta una festa di sonorità tipiche miste a versi di canzoni siciliane, di fichi d'India che venivano privati della scorza spinosa da scalzi viddani disposti ad ogni angolo di vanedda e di trazzera, ad ogni pizzuddu libero di piazza, di bummuli dipinti che venivano lanciati in aria e riacciuffati con maestria da ominazzi (nenti omini, menzi omini, ominicchi, quaquaraquà. Men che meno pigghianculu) cu a facci tagghiata. «Immaginai» dicevo prima. Perché «Sicilia, o cara» di Giuseppe Culicchia recava, praticamente stampata su ogni pagina, la cartolina della Sicilia in bianco e nero (o sovradipinta a posteriori) con la scritta «Saluti da...». Forse quella sera s'erano dati appuntamento pure tutti i camillerian-montalbaniani (un po' meno, forse, i camillerian-redigirgentani). Perché solo certi terremotati cognitivi non hanno ancora compreso che la globalizzazione ha toccato pure la Sicilia. E che una cosa è scrivere con la consapevolezza che, pur parlando di una Sicilia da Malavoglia, quella Sicilia comunque non esiste più, un'altra è scrivere ignorando scientemente (e non è un ossimoro) che i Malavoglia esistono ormai solo sulle pagine di Verga o di certe guide turistiche vendute insieme ai souvenir in pietra lavica e dotate del profumo di fiori di zagara ormai irrimediabilmente marciti.

Ecco: Camilleri. E il grande bluff Montalbano, la cui lingua andrebbe riconsiderata: una parlata che non sta né in cielo, né in alcun luogo della terra di Trinacria. Inautentica, ruffiana, stucchevole. Se si pensa che Camilleri è stato anche sceneggiatore della serie televisiva con Montalbano protagonista, si ha la prova di quanto egli sia pertinace nel proporre un modello linguistico discutibile (non mi serve sapere che la lingua di Camilleri venga spacciata per lingua d'arte) e una Sicilia fatta di macchiette, di residenze dai soffitti alti e dalle ampie camere una dentro l'altra (arredate con mobili d'epoca generalmente ispirati a certo barocco palermitano), di donne vestite e acconciate come Maria Callas all'epoca in cui sperava di sposare Aristoteles Onassis. E nel pensare in simili termini a Camilleri, mi sento alquanto confortato dallo stesso Onofri che non gli ha invero dimostrato tanta stima, se lo stesso empedoclino, nel libro 
«Il nipote del negus» del 2010, lo avrebbe ridimensionato, anzi (direi) proprio rimpicciolito, inserendo un personaggio di nome Minimo Onofri, reo di appropriazione indebita proprio - pensa Massimo - della professione di critico.

Mi sono lasciato prendere la mano. Ma l'ho fatto perché amo la Sicilia tratteggiata da Onofri: non quella appunto da cartolina, ma un'isola non diversa da tante altre, in più connotata da una dimensione individualistica. Massimo si distacca, cioè, dalla categoria sciasciana della sicilitudine (in 
«Sicilia e sicilitudine» Sciascia - è noto - affermava che la sicilitudine è il risultato di quel complesso di abitudini, di modi di pensare e di elaborare la realtà, tipica appunto dei siciliani, quasi l'essere siciliano si trasmetta, come lo stesso Massimo ricorda, attraverso il liquido seminale). Sceglie invece la categoria bufaliniana della isolitudine, riferita all'universo di chi vive in qualsiasi contesto isolano. L'isolitudine è una sorta di doppia solitudine: quella insita nel vivere all'interno dei confini dell'isola, oltre i quali non v'è più terra, e quella implicita nel vivere isolati. E l'isolitudine ha pure un doppio risvolto: l'azione positiva che essa provoca sull'isolato, il quale deve darsi da fare per essere sufficiente a se stesso, e la solitudine che può farne un essere frustrato, talvolta roso dal delirio d'onnipotenza.

Che, ad onta di questioni bizantine quali quella relativa all'identità, l'isolitudine sia la condizione tipica di chi vive su un'isola qualsiasi, del resto emergeva già dal volume «Isolitudine. Scrittrici e scrittori della Sardegna» (Iacobellieditore, 2010) di Laura Fortini e Paola Pittalis, in cui si affrontava lo sviluppo della Letteratura Sarda da Grazia Deledda a contemporanei come Michela Murgia. E proprio il concetto di isolitudine si attaglia perfettamente, per fare un esempio, alla situazione in cui versa il servizio di trasporto offerto dalla Tirrenia nel tratto che collega la Sardegna alla Sicilia: «ascensori guasti, cabine consegnate per pulite e invece coi letti disfatti, saponette usate e capelli nei lavandini. E non voglio parlare dell'odore di muffa perenne, ormai metafisico, che emana dalle poltroncine di seconda classe, o quello di legno scrostato dei tavolini del bar» (contro il quale il vanitoso autore chic sfodera e spruzza, in una sorta di climax, un campioncino di Royal Oud di Creed, poi «il fiorentino Lorenzo Villoresi, fragranza Uomo; il parigino Mancera Lemon Line. Profumi da usare così, in successione ascendente, per sconfiggere ogni puzzo»).

Mi attrae quel gioco di ossimori che Massimo concepisce: la nostalgia per una donna che comunque si possiede, la Palermo che non esiste, la Messina "senza". Palermo, nell'edizione parigina del 1765 dell'
«Encyclopédie», risulta così definita: «In latino "Panormus"; città distrutta della Sicilia, nel val di Mazara, con un arcivescovado e un piccolo porto. Palermo, prima della sua distruzione causata da un terremoto, disputava a Messina il titolo di capitale» (ed ecco dunque una Palermo che c'è e non c'è). Messina fu privata di se stessa in particolare dal sisma del 1908, che distrusse, a causa del maremoto abbattutosi sulla città, innanzitutto la palazzata: il primo elemento scorto da chi veniva dal mare, la cui costruzione era stata iniziata il 27 agosto del 1622 (ed eccoci al cospetto della Messina senza se stessa o parte di se stessa).

Esiste anche una città gaudente: Catania che è infatti felix, se è vero che il suo centro storico ospita serenamente il quartiere della prostituzione. E a questo punto non posso non pensare a un libro di Domenico Trischitta (uno dei tanti scrittori che infestano ormai, come tante bibliche cavallette, l'etra editoriale siculo), cioè «Una raggiante Catania» (così intitolato da una canzone di Carmen Consoli, autrice e interprete che, ad onta della sua sgradevole voce, delle sue insopportabili moine, viene pure portata in palmo di mano - mi si dice - nell'ambito accademico catanese). In tale libro quella Catania carnale si manifesta compiutamente (sebbene vi si faccia riferimento più al nuovo San Berillo. Peraltro, qualche anno fa, Trischitta fu intervistato da Fulvio Abbate, citato da Massimo Onofri in «Passaggio in Sicilia», nel corso di una puntata di quello strano contenitore dall'atmosfera - non so quanto sinceramente - proletaria che è Teledurruti. E Abbate narrava proprio di una sua visita a Catania, dove Trischitta gli aveva fatto da guida in quelle "bellissime" aree cittadine gravitanti intorno alla via Di Prima e alla via delle Finanze. E, a proposito di ossimori, si pensi al fatto che la città dedita al sesso mercenario considera propria protettrice una giovane donna, Agata, che preferì subire il martirio pur di non rinunciare alla purezza che Quinziano voleva violare).

Concludo. «Passaggio in Sicilia» segue «Passaggio in Sardegna», ancora di Massimo: due libri e due isole. «Se in Sardegna il silenzio e la solitudine s'increspano in paesaggio, in Sicilia, invece, anche la natura più remota t'appare sempre come il risultato di una qualche civiltà, d'un coro di voci e di echi. Difficile non sentire, anche percorrendo il più impervio dei sentieri, il sospetto di un'orma, fosse quella d'un sicano, un normanno o un saraceno» scrive del resto l'autore (anche sul retro di copertina). E lo fa a suggerirci che, se in Sardegna sembra dominare la fissità di una natura nella quale tutto viene riassorbito fino all'annullamento del tempo, in Sicilia, invece, tutto si fa Storia: tutto è scorrere incessante del tempo stesso.

Ivo Flavio Abela

Alla presentazione, avvenuta il 1° febbraio 2017, partecipava anche il prof. Ignazio E. Buttitta, amico e già collega di Massimo all'Università di Sassari (peraltro è anche personaggio di «Passaggio in Sicilia» insieme a tutta la famiglia Buttitta, a partire dal celebre nonno poeta). Ma soprattutto cito qui Ignazio in veste di fraterno amico al quale sono davvero grato. Ciò che fin qui è stato detto è anche ciò che quella sera è stato discusso nella mia breve relazione di presentazione. Quantomeno è ciò che ricordo di avere detto...